martedì 13 dicembre 2011

Il Proust frammentario di W. Benjamin

Salva, en passant, la cattiva coscienza di chi compra tanti libri senza (poterli) leggere. Tra cose ed eventi straordinari per semplicità: i fichi a Secondigliano, il petit déjeuner tra gli specchi al bistrot, il “Pranzo caprese” offerto, imposto, dalla vecchia puttana, l’euforia d’identificarsi coi romani nell’osteria a piazza Montanara a Roma (attorno al teatro Marcello, la piazza di molti sonetti del Belli, demolita nel 1928 per cercare un foro olitorio che non si è trovato), col falerno e il baccalà, e l’omelette alle more la cui bontà non si ricostituisce senza la vita precedente. Nella vena, meno malinconica, del Proust che avrebbe potuto essere Benjamin. Tra moralità anch’esse semplici: le disgrazie nostre sono la felicità altrui (Leopardi), di nemici e amici, il nostro forte sono le sconfitte, la natura è più bella inquadrata dalla finestra di una villa italiana, la fortuna se la predice il postulante, astrologi e cartomanti si limitano a prospettargli le maschere di quello che avrebbe potuto o voluto essere (“le ombre di vita mai vissute”) – due piccole raccolte in questi “Denkbilder” s’intitolano “Ombre brevi”: l “ombra breve” è quella di mezzogiorno (“l’ora di Zarathustra, il pensatore al «mezzogiorno della vita», al «giardino d’estate», quando la conoscenza distingue le cose col maggior rigore”), il procedimento è per concatenazione.
La raccolta è una riedizione dei “Denkbilder”, le immagini di pensiero, messi assieme nel 1998 con i testi di “Immagini di città” e una ventina di altri pezzi che Benjamin scrisse per i giornali tra il 1925 e il 1933. Col garbo noto, l’acume e la svagatezza. Anche nei testi più stravaganti, “La via del successo in tredici tesi”, per esempio, che consigliata da Benjamin è tutto dire. Ma non senza saggezza. Al punto quattro, per esempio: “Non s’immagina a che punto ciò che è senza equivoco costituisce il bene supremo per il pubblico. Un centro, un führer, una parola d’ordine”. O al punto sei: “Chi scrive non sa quanto la posteriorità è moderna”, viene con l’intellettuale indipendente, ancora nel Seicento nessun autore avrebbe avuto l’idea di affidarsi ai posteri. È tutta storia contemporanea la conclusione della “Via”: “Il successo del genio della finanza è della stessa tempra della presenza di spirito con cui l’abate Galiani s’illustrava nei salotti. Soltanto oggi non sono più, come diceva Lenin, gli uomini ma le cose che vogliono essere domate. Da qui la stupidità che così spesso appone il suo sigillo sulla suprema presenza di spirito dei magnati dell’economia”.
“Denkbilder”, immagini di pensiero, è il penultimo titolo del libro, una raccolta prevalentemente di sogni. Adorno, “Su Benjamin”, così la spiega: “Una concezione di Platone, opposta al neo kantismo, secondo la quale l’idea non è una semplice presentazione ma un ente in sé che, benché costituita puramente dallo spirito, possiede una realtà sensibile”. Il termine è stato introdotto con questo senso nella poesia tedesca da Stefan George, che in un componimento in lode di Mallarmé (in “Il settimo anello”), lo dice “sanguinare per la sua immagine di pensiero”.
Dopo l’insopprimibile postfazione di Peter Szondi alle “Immagini di città”, di cui fu l’editore, Benjamin è il “fanciullo che sta con gli occhi attoniti nel labirinto”, delle città, dei paesi stranieri, delle cose e delle sensazioni. Mentre è piuttosto Proust, un rielaboratore d’immagini e sensazioni – o allora Proust è un fanciullo attonito, ipotesi non stravagante. Un Proust frammentario, per mancanza di fondo, chissà, o d’ambizione (qui Benjamin si rappresenta come “l’uomo astuccio”, contento solo dentro il suo carapace, al confronto con “l’uomo distruttivo”, il suo amico banchiere Gustav Glück, che sempre è “giovane, sereno”, e sempre “trova una strada”), o semplicemente di anni, ma non in effetti mancato, la stoffa c’è, di costante potere evocativo. En passant sarà la cifra di scrittura di Benjamin, l’apparentemente divagando. Elzeviristica, ma di spessore, le tracce restano – o l’elzeviro non necessariamente è arabesco, rigaggio.
Queste prose sparse che qui e là si pubblicano sono dei piccoli geyser, gentili, fragranti, di una vasta incandescenza interna, di un assorbimento e una macerazione costanti. Comprese le distrazioni. Collezionista dichiarato di libri per bambini, Benjamin racconta l’acquisto emozionante di un libro di fiabe di A.L.Grimm, illustrato da Lyser, perché “edito a Grimma in Turingia” – che invece non c’è, c’è in Sassonia ma è ininfluente, Grimma è qui il nome dell’editore, a Francoforte.
Walter Benjamin, Images de pensée, Christian Bourgois Éd., pp. 260 € 7

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