domenica 4 dicembre 2011

J. Roth si chiamava Alvaro

Milletrecento pagine, in questa vecchia raccolta di Walter Pedullà e Mario Strati, ancora vive dopo quasi un secolo e alcune catastrofi. Alvaro si conferma scrittore unico, tra le due guerre, delle cose politiche e sociali, perspicace e sempre veritiero (onesto), come Joseph Roth. Anche se non ha avuto la stessa cura editoriale. Sapeva – e sa – molte cose di più su Parigi e la Francia, la Germania, l’Italia, le sue province, le sue città, Milano, Roma, Torino, e Carducci, d’Annunzio, molto Pirandello. Sempre ben sintonizzato: la fissazione germanica per i bracciali è segnalata nel 1930 (sono imposti ai mendicanti), Walter Benjamin è “critico acuto” nel 1929, Pasternak “miglior poeta russo” nel 1932, occidentalizzato, “francese”, “italiano”, Céline ha bisogno urgente di cose “supreme” (nel 1950 è “un fuggiasco logico e autentico”), mentre Hermann Hesse, considerato sorpassato negli anni Venti, vi si rimette in circolazione come Ferdinand Bruckner. C’è già Barrault. Con l’Europa delle patrie, “cioè degli eserciti”. E la lettura “settisiana” della Venere de Giorgione, “Johnny Stecchino” tal quale in una commedia di Peppino De Filippo, l’ozono, il bandito Giuliano che “non sarà preso vivo, possiamo starne certi”, gli illirico o albanesi di Calabria e Sicilia, o greci, “gli ultimi discendenti della cavalleria”...
Corrado Alvaro, Scritti dispersi

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