Prima della grande Guerra ci fu in Europa un’ondata di moralismo: la prima preoccupazione dei governi e dell’opinione pubblica erano le “pubblicazioni oscene”. Quelle che “fanno male ai bambini”. E quelle che vanno contro la morale corrente – s’intendeva il malthusianesimo, o controllo delle nascite. Come oggi, seppure con altre parole, politicamente corrette. Era un’epoca, anche allora (c’è un ciclo secolare in queste cose?) di affari facili e corretta virtù – c’erano anche allora i tribunali internazionali, anche allora in Olanda, e le guerre umanitarie o per la pace.
Si ripubblica “Il mito virtuista” dopo un secolo, su iniziativa e con introduzione di Franco Debenedetti, per un motivo: l’analogia. Pareto è il solito liberale disilluso che censisce macerie. Trovandosi peraltro isolato anche dalla sponda riformista, allora socialista: i socialisti sono andati al potere, argomenta al cap. IV, ci stanno bene, concedono come gli imperatori romani un donativum alle truppe che li hanno portati al potere (un piccolo aumento di salario, una piccola riduzione d’orario), remunerano riccamente le rendite, e proteggono la società con la pratica biblica del capro espiatorio, il proibizionismo: proibiscono la pornografia, fino a Boccaccio e i padri della chiesa inclusi, e l’alcool. “La tendenza alla dissoluzione della famiglia, che i fedeli del progresso considerano un’istituzione reazionaria” e “la diminuzione dei sentimenti d’autorità, militari, patriottici e simili”, aiutano. Ci sono scuole, s’indigna Pareto, dove gli alunni scioperano – è vero che sono ragazzi di 18 e 20 anni.
Rodotà è a pagina 46 dell’intervista di Berlinguer nel 1981: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concessori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi…”. Stefano Rodotà raccoglie alcuni scritti sulla corruzione come “malattia morale”. Tema anche questo di antica trattazione nella pubblicistica italiana. La corruzione non è tanto materia di Carabinieri, sostiene, quanto di “liberazione delle istituzioni” dal sottogoverno. Rodotà è sempre bene intenzionato, e uno non sta a rimproveragli il passato di Garante della privacy, la più inutile delle inutili , costosissime (benché incongruamente esenti dalle caste di cui alla campagna omonima) Autorità che in teoria proteggono i cittadini che le mantengono . Ma bisogna ricordarlo: i fatti sono migliori delle migliori intenzioni.
Di Berlinguer si ripubblica l’intervista con Scalfari uscita su “Repubblica” il 28 luglio 1981, alla vigilia delle vacanze. Liberamente composta da Scalfari dopo lunga consuetudine col leader del Pci, e rivista da Tonino Tatò, il segretario di Berlinguer, se ne fa qui il testo “storico” della diversità, o della questione morale, che Berlinguer avrebbe messo al centro della sua politica nei restanti tre anni di vita. “I partiti hanno occupato lo Stato”, ribadisce Berlinguer. E cita espressamente enti locali, enti di previdenza, enti economici, università, ospedali, Rai e giornali. Ma poi tutti gli italiani, insiste, sono infeudati: “Hanno ricevuto vantaggi (dai partiti, n.d.r.), o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più”. Ma questo era – ed è, chiunque abbia un minimo di pratica politica o sindacale lo sa – più vero del suo partito. Che Berlinguer alla fine incolpa di “verticismo, burocratismo, opportunismo”. Berlinguer non dice - Scalfari non gli fa dire - che la questione morale se l’è inventata dopo aver perseguitato Moro e Leone, al laccio di Andreotti. E aver perso le successive elezioni, sempre al laccio di Andreotti, per la prima volta nella storia del Partito. Un segretario ancora al comando (la sua opposizione erano Napolitano, Chiaromonte…) ma frastornato s’inventava il “popolo diverso” - Mussolini non avrebbe osato tanto.
La questione morale è tema liberale. Ma è anche vizio politico nazionale, a partire dalla morte di Cavour. Uno degli aneddoti più brillanti di Spadolini storico è lo scandalo Nasi, il ministro massone che alla vigilia della sua elezione a Gran Maestro fu incolpato per una sedia: la questione morale è sempre stata insidiosa materia di dossier più che di buona politica o di giustizia – i fatti di Mani Pulite ne sono solo un’escrescenza più visibile, le omissioni, le doppie verità, i favori (Luca Telese, il “comunista a lungo impegnato in un giornale di destra”, più di uno in verità, non si esime dal ricordarlo nell’introduzione a Berlinguer). Per cui non si sa che pensarne, dell’intervista e dell’intervistatore. Berlinguer esordisce nostalgico, con “una piega amara sulla bocca”, dice Scalfari, “e, nella voce, come un velo di rimpianto…”: “Politica si faceva nel ’45, nel ’48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta”. Il compromesso storico non c’è, il comunismo non c’è mai stato.
Pareto, il liberale più liberale, affronta la questione per quello che è: da ridere. Più che altro interessato alla parola che alla cosa: il vertuisme che aveva inventato in francese di Ginevra gli piaceva. “Forestiera è la cosa, forestiero dev’essere il nome”, esordisce nella presentazione all’edizione italiana. Virtuista, virtuismo, per i quali infine propendeva, e che aveva usato agevolmente scrivendo in francese, gli suonavano strani nella traduzione italiana, di Nicola Trevisonno – ripresa da Giovanni Busino nell’edizione Utet delle “Opere” di Pareto nel 1961. In realtà strana è la cosa, più che la parola – adottata da ultimo, senza riferimento a Pareto, anche negli Usa una ventina d’anni fa, a fronte della nuova ondata proibizionista contro tabacco, alcool e pornografia.
Franco Fortini riprenderà il concetto seriosamente in “Asia Maggiore”, elaborando un “antivirtuismo” della società bolscevica – in realtà della nomenklatura. Pareto si diverte, alla Voltaire, dice Busino. A spese di politici, leghe e giornali: “Il mito virtuista” è un libello e non il solito trattato, polemico, sarcastico, come la pubblicistica che critica, nella quale si butta con voluttà. Specie nelle note incontinenti sulla nozione di oscenità. Nelle quali raccoglie, nei due anni intercorsi tra l’edizione francese e la traduzione italiana, l’infinita serie di sciocchezze lette nei giornali. Non senza intelligenza. Una sorta di “legge” individua della giovinezza e della senilità delle società. La quale ultima caratterizza di ipocrisie e contraddizioni. I più ridicoli sono i processi milanesi a Notari, uno scrittore che nessuno ricorda, che Pareto aggiunge in appendice all’edizione italiana. Tra i tanti aneddoti si segnala la chiusura della “loggia del nudo” a Berlino, dove “ufficiali, funzionari, professori, consiglieri di stato e scolari si riunivano”: perché il nudo non è ammesso in pubblico.... - non per quello che tussi sanno Ma non da un punto di vista libertario. A tratti anzi il freddo sociologo mostra una sorta di nostalgia da Piccolo Padre, di una politica “staliniana” della società, mirata alle cose, senza fronzoli.
Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale, Liberilibri, pp. 212, € 18
Stefano Rodotà, Elogio del moralismo, Laterza, pp.96 € 9
Enrico Berlinguer, La questione morale, Aliberti, pp. 64, € 6,50
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