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Confessione – È passione filologica: ristabilire la verità, cioè il già detto, impresa doppiamente ardua. È il filo del romanzo di Freud. L’io è in tutte le narrazioni, compresi i verbali dei carabinieri, quelli anzi più di tutti, approssimati come sono nel loro dettaglismo, e fino nei racconti di racconti. L’Io assertivo, specie nei ricordi d’infanzia, tra zie e robinie, è ridicolo, e riconosciuto per tale. Già a fine Ottocento se ne dubitava – non ce n’è tanto in Proust, lo scrittore di se stesso. Ma ora c’è l’Io scientifico, quello indotto dall’analisi, di qualsiasi tipo essa sia, freudiana, junghiana, selvaggia, che si presume oggettivo e razionale ed è il più manierato, di maniera perfino violenta. Questo individuo è strano, il granello del sorite. Si ha voglia di fare la parti e restaurare la terza persona, e perfino la realtà delle cose, che certo non manca, un temporale è un temporale, o un terremoto, un figlio, un incidente di macchina, ma la prima fisica è questa, dell’Io che pensa, la prima indeterminazione. L’io dev’essere una conquista, se i bambini ci arrivano dopo la terza persona. Ma l’io naturale può essere terribile, specie nella distruzione, anche se è inafferrabile.
Forse per questo l’identità talvolta è camuffata, da Kierkegaard o da Pessoa. O è negata. È il caso di Ettore Schmidt, in arte Italo Svevo, accreditato di un romanzo quasi postumo, e invece autore di una diecina di romanzi e drammi, scrittore tra i più fertili, e centinaia di racconti, in sintonia con l’Europa e il mondo, che non si pubblicavano. Uno per il quale, diceva, “scrivere è sentirsi vivi”. L’“impersonalità del mondo” di Heidegger era nel “Grand Hotel” di Vicki Baum, per non dire del più tragico Pirandello, nell’antropologia di Plessner (“eccentricità”) e Arnold Gehlen (“destituzione”), e nella fine della prima grande guerra civile europea. E dopo cinquant’anni e alcune altre guerre micidiali il menu è uguale al dettaglio: masse che comprano e ciacolano, urbanismo, nevrosi del quotidiano, teatrino politico, tv realtà, e la cultura del giornalismo. Il deserto è perfino peggiorato, in Europa e non solo. Con tutto il flusso di coscienza: l’autobiografia è finzione, un teatrino, autorappresentazione. Con tanti trucchi: l’invenzione della mamma, l’invenzione del bambino, l’amore a due - “il bambino è il padre dell’uomo” è di Woodsworth, 1850, piena epoca borghese. Una rappresentazione, questa sì, piena di trucchi - la letteratura è trucco, ma quella della verità è trucco da baro, non da poeta. Tutto si àncora al “si”, impersonale e inautentico, triviale e banale. Ma, poi, la democrazia è banale, inautentica per definizione e voca-zione: volendo comporre gli interessi si tiene in superficie.
Ma, poi, confessare è pratica sociale - pochi veramente si vergognano, e si pentono, tra i fedeli e gli stessi preti sopratutto - e plebea. In vista di un’indulgenza, un premio, un favore. E si scrivono vite di Casanova, che tutta la vita se la scrisse da sé, e di Rousseau.
Dante – Prendere Beatrice in senso letterale, colei che bea, consiglia W.Benjamin in “Amore platonico”, un breve testo della raccolta “Brevi ombre” compresa nei “Denkbilder”: “Per questo amore l’amata sorge dal suo nome come i raggi di un focolare ardente. Così la «Divina Commedia» non è altro che l’aura attorno al nome di Beatrice. La rappresentazione più potente, sorgendo tutte le forze le forme del cosmo dal nome uscito dall’amore”.
Deduzione – Non è intrinsecamente valida, motivo di verità e di giustizia, anzi. Aristotele lo spiega nei “Primi Analitici”: “Un’argomentazione è falsa se prende le mosse da un primo elemento falso (proton pseudos)”. Nel “Cratilo”, 436 C-E, Platone ricorda che, da un’opinione falsa, si possono trarre conseguenze logiche ma altrettanto false. Concludendo che non si può accettare la correttezza delle inferenze come garanzia. Non si deve usare la correttezza intrinseca del testo come segno di verità. Anche questo passo è noto come il topos del proton pseudos – del preliminare falso.
Filologia – Abbiamo avuto un “Ulysses” nuovo venticinque anni fa, l’edizione Gabler del 1984 “critica e sinottica”, rispetto all’edizione standard Bodley Head-Random House del 1960-61. Con cinquemila varianti significative. Ma Hans Walter Gabler le ha ricavate riscrivendo in pratica l’“Ulysses” ispetto alla redazione licenziata dallo stesso Joyce (con le bozze riviste) nel 1932. Poi l’edizione di Gabler si è manifestata un abuso, una compilazione di diverse varianti, con il recupero di tagli, rispetto alle scelte operate, a varie epoche, dallo stesso Joyce - e secondo alcuni perfino un’operazione commerciale, per rinnovare i diritti sull’opera in scadenza a favore degli eredi.
Dopo cinque anni la scoperta veniva accantonata, l’edizione del 1960-61 è stata rimessa in circolazione, ed è l’unica disponibile (C’è un’edizione Vintage dell’edizione Gabler, ma non più in circolazione). Mentre quella del 1960-61 gli eredi, a smentire ogni intento commerciale nella riedizione Gabler, hanno voluto che circolasse anche in edizione Woosdworth, a soli 2 euro.
Ma la vicenda non è da considerarsi per questo chiusa. C’è alla base della riedizione Gabler una diversa concezione del lavoro redattoriale (editing), e della critica del testo, in Europa rispetto a quella americana, e ora anglosassone. Qui si tende a esaminate sullo stesso piano tutte le varianti, che siano opera dell’autore, del trascrittore, dello stampatore, del correttore di bozze, del revisore, per adottarle variamente sulla base di diversi criteri di scelta, seppure tutti si vogliano “critici”. Negli Usa si assume come testo base (copy-text) la prima edizione. Nel caso dell’“Ulysses” il copy-text è rafforzato dal manoscritto cui Joyce si sobbarcò anni dopo la pubblicazione, a fama consolidata, per venderlo sul mercato, che copre circa la metà del testo.
L’“Ulysses” insomma come caso da manuale dell’inattendibilità della filologia, se non come narrazione – non come scienza. Il caso Joyce, nel Novecento, dopo quattro secoli di arte della stampa, con l’autore ancora vivente quando già si poneva il problema filologico, è solo un riflesso del vortice della classicità. Di cui si discutono le virgole, anche in filosofia, ma che ci è giunta attraverso il lavoro di migliaia di amanuensi, alcuni in non improbabile stato alterato (buffoneria, vino, fantasia, ignoranza). Nonché il significato esatto delle parole, di lingue morte.
Immagine – Jünger (“Il mondo mutato”) cita “La corazzata Potëmkin” come esito straordinario del linguaggio surrettizio delle immagini, e “Metropolis” con qualche riserva. Linguaggio che dice violento: manipolativo, impositivo. Posteriormente lo avrebbe trovato in “Arancia meccanica”, in “Odissea “2001”. Film al modo di Jünger anch’essi violenti. Ma non ci sono romanzi o racconti altrettanto evocativi delle tre epoche o mondi. Anche storici, storicamente “esatti”.
Jünger direbbe che è l’immagine che crea il mondo, ma è dubbio. È ipotesi accattivante. Ma se Jünger avesse pubblicato libri illustrati dopo il 1933 si sarebbe ricreduto. A meno che: quanta Leni Riefenstahl è Hitler, e quanto Hitler è Riefenstahl?
Manzoni - Il “maestro” d’italiano ha dovuto impararlo, con fatica, essendo mezzo francese e mezzo lombardo. E ancora negli anni 1850 si faceva leggere, nel romanzo che fu la sua ambizione da grande, nella prima redazione, lombarda, piuttosto che nella terza, risciacquata in Arno.
Grazie a lui però possiamo scrivere “pover’uomo” invece di “pover uomo” – peccato che non si sia trova a scrivere “qual’e”.
Scrittura – In “Midnight in Paris” l’alter ego di Woody Allen si definisce “uno che scrive per Hollywood, non posso dedicarmi alla vera scrittura”. Proponendo una singolare equazione: se il mass market di Hollywood sta al nostro in rapporto da 10 a 1 (per qualità del confezionamento, attualizzazione dei temi, avanzamento tecnico, soggetti, idee, sceneggiature, promozione),in che rapporto sta la “vera scrittura” americana rispetto a quella che (non) c’è da noi?
Sogni – Sono singolarmente inerti quelli dei gradi collezionisti, Benjamin, Jünger. Quelli di Borges sono addomesticati.
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