Mostra dopo vent’anni evidente il limite dello strutturalismo, di cui è applicazione apicale, in quanto (ultimo) bastione sistematico, tentativo di pensare per sempre. Pur con i punti curiosi che mai mancano in Lévy-Struss e ne fanno il fascino. Il più curioso è l’assunto del libro: la persistenza delle gemellarità nei miti amerindi, del Canada, del Brasile, del Perù, di fratelli gemelli che però si differenziano e anche si contrastano. Figurazione nella quale l’antropologo rileva il “pensiero dell’altro”, l’impossibile insularità dell’io. Poi c’è l’animalismo, anch’esso persistente. E la francofonia inconscia – c’è molto di franco-canadese, non dissimulato peraltro, nelle “mitologie” degli amerindi nord-occidentali. Un fatto che avrebbe potuto portare l’antropologo, con un minimo di ironia, a storicizzare miti e costanti, invece di assolutizzare. Nello stesso “pensiero dell’altro” accogliendo le migrazioni, a maggior ragione se imperialiste, impositive. Lévy_Strauss arriva invece a immaginare una mitologia a puzzle, lasciando in bianco il posto dei bianchi, invece di accettare che anche il mito è dinamico.
La gemellità è doppiamente imbarazzante. Porta un marchio famoso, di Dumézil, trasponendolo in abito strutturalista, cioè razionalista. Ma fare l’antropologo descrittivo, e per di più tradizionalista, è diverso dal fare il sistematico.
Claude Lévy-Strauss, Storia di lince
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