Si può dire una guerra aperta, quella fra il generale Mario Mori, ex capo dei Ros, e i Procuratori di Palermo, ora impersonati da Ingroia ma comprendenti anche Lo Forte e Schiacchitano (“Dio è mafioso”). In cui cioè ogni parte spara ad alzo zero contro la parte avversa. Che le due parti in conflitto qui siano i Carabinieri (una parte dei CC) e i giudici, questo non scandalizza più nessuno, non a Palermo né fuori. Ma alcune bruttissime cose che Mori riconfida in prima persona in questa sorta di autobiografia sono vere.
Mori è sotto processo a Palermo per aver tenuto contatti con Ciancimino senza tenerne informata la Procura, e per non aver volutamente arrestare Provenzano dopo l’arresto di Riina. Il processo è in corso e di questo Mori non parla. In un altro processo, sempre intentatogli dalla Procura di Palermo, che lo accusava, unitamente al “capitano Ultimo”, Sergio De Caprio, di aver ritardato colpevolmente l’irruzione e la perquisizione in massa del rifugio di Riina, Mori è stato assolto, e l’accusa non ha presentato appello. Qui Mori dice, ribadisce, che dei colloqui con Ciancimino non informò la Procura perché convinto che “non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra”.
Parliamo di vent’anni fa, quando la Procura era retta da Caselli, nominativamente, e gestita dai sostituti. Che persero dieci anni col processo a Andreotti – e probabilmente anche con quello a Contrada. Gli stessi sostituti di cui il Procuratore Capo Rocco Chinnici, fatto saltare con tutto l’autista, non si fidava e lo mise per iscritto. Un anno fa gli stessi dubbi sono stati ribaditi in pubblico da Michele Costa, avvocato, figlio del Procuratore Capo Gaetano anch’egli ucciso dalla mafia. Michele Costa accusò Sciacchitano e Lo Forte della divulgazione agli avvocati dei mafiosi dei risultati delle indagini che suo padre Gaetano aveva condotto. Della divulgazione delle dichiarazioni del pentito Marino Mannoia in merito all’omicidio dello stesso Costa. Della pronta liberazione di Tommaso Buscetta, che l’assassinio del procuratore Costa s’era prestato a declassare a “bravata”.
Mori aggiunge anche che nel 2006, quando aveva lasciato i Carabinieri e dirigeva il Sisde, era riuscito ad “agganciare” Matteo Messina Denaro, il principe dei latitanti. Tramite un doppiogiochista. Che la Procura di Palermo però mise sotto accusa, accusandolo di falso, prima ancora che la cattura fosse tentata.
Resta da aggiungere che la stessa Procura sta processando Mori sulla base di un testimone d’accusa che è un ex colonnello dei Carabinieri, Michele Riccio. Il quale invece ha avuto vari processi a Genova per traffico di stupefacenti da una dozzina d’anni, ed è ora condannato in via definitiva a quattro anni e dieci mesi di carcere (il maresciallo suo più stretto collaboratore a 24 anni).
Mario Mori, Giovanni Fasanella, Ad alto rischio, Mondadori, pp. 149 € 17,50
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