O dell’avvenenza dell’intelligenza: queste lunghe conversazioni radiofoniche, su Musil, Wittgenstein, Simone Weil e Proust, scritte tra il 1952, a ventiseienni, e il 1958, che si penserebbero indigeste, sono fedeli, brillanti e convincenti. Anche a una rilettura, un ottimo invito, persuasivo, a chi non conoscesse quei grandi nomi. Ingeborg era molto più della bella Bambola – la ninfa egeria? – che faceva innamorare i letterati tedescofoni ai congressi.
Di Musil rileva “la felicità dell’infelicità che conferisce distanza dal proprio tempo”. Di Wittgenstein spiega in breve: “Il tacere negativo sarebbe agnosticismo – il tacere positivo è mistica”. Un filosofo che demanda alla filosofia “un compito paradossale: l’eliminazione della filosofia” . Per tentare, “come Spinoza”, di “liberare Dio dalla macchia dell’appellabilità”. Di Simone rintraccia subito la “via negativa, che allontana da Dio”, al fine “non di stare di fronte a Dio, nel dubbio o nella fede, come individuo, come persona, bensì di sperimentare la grazia in quanto esistenza nuda e cancellata”.
Scrivere nel 1954 di Simone Weil semisconosciuta per un largo pubblico è già un’impresa memorabile. Di più in quanto Ingeborg manifesta in proprio, tra S.Weil e Wittgenstein, un’insospettata sensibilità religiosa. Di Proust dà pochi tratti, ma incisivi, “positivista e mistico” – “questo positivista che non si concede sguardi al di là del dato concreto” più di tutti anela alla-alle resurrezione-i. La “Ricerca” è “opera dura, tragica e rivoluzionaria”. Dell’omosessualità a vario titolo deprecata. Della guerra, che “ha esercitato un effetto profondo e sorprendente sul romanzo di Proust e ne ha quasi mandato all’aria il progetto iniziale”. E della maturità, o della fine di un’epoca: “La maturità lo rende misantropo”.
Inbeborg Bachmann, Il dicibile e l’indicibile
giovedì 8 dicembre 2011
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