Incastrarsi in una guerra civile in Libia, ci mancava anche questa: il “comandante Kirk” Obama ha perso la bussola. Non si sa se il presidente americano, in questa che lui chiama la rivoluzione araba, non capisce o se ha un disegno. Secondo la Farnesina ha il disegno di cavalcare l’islam. Ma non è detto: consegnare Bahrein all’Iran, con tutta la sesta Flotta?, o lo Yemen a Bin Laden, non sembra una strategia. Per ora, con l’accelerazione impressa alla dissoluzione della Libia, può essere una strategia da manicomio. Ma non bisogna oberare di troppe follie il presidente giovane e bello: per ora, quello che è certo, vuole solo portare alle stelle il costo dell’energia. Che per il mondo, eccetto gli Usa, e per l’Italia, è anche un vincolo esterno, alla bilancia dei pagamenti e al debito nazionale. Ma forse senza cattiveria: non è detto nemmeno che Obama sappia che dopo Gheddafi ci sarà la dissoluzione, che la Libia è un raggruppamento di tribù tenuto assieme prima dal re, infaticabile tessitore, poi dal colonnello.
Obama sembra divertirsi come alla partita. O come il comandante Kirk, appunto, della saga Star Trek con la quale è cresciuto: audace ma non capace, se non è guidato da Spock, che però è un extraterrestre. Mobilita infatti la Nato, volendo evidentemente vuole bombardare Tripoli, o un po’ di Nord Africa. E questo è il vecchio vizio americano, di buttare bombe dove capita, da cui, benché sembrasse diverso, si vede che non è immune.
L’ex ambasciatore americano Spogli per questo superelogiava ieri, strana coincidenza, irritualmente il presidente del consiglio italiano, con reiterate iperboli, per chiedergli di fare da piattaforme e retrovia all’Afghanistan in Nord Africa? Non è da escludere, e questo deporrebbe a favore della tesi della Farnesina, che una strategia c’è. Ma che vuol dire? Le sanzioni creeranno un sacco di problemi ai paesi europei, Italia per prima, senza aiutare la democrazia – come potrebbero? Dovremo fare a meno della Libia, cioè del petrolio e del gas, una grossa perdita, mentre agli Usa non mancherà nulla. Quanto ai bombardamenti, esporre i paesi di prima linea nel mondo arabo è insidiosissimo, mentre gli Usa se ne stanno comodamente nelle retrovie.
sabato 26 febbraio 2011
Il mondo com'è - 57
astolfo
Cina – Se la storia va, come vuole Hegel, da Oriente a Occidente: 1) la Cina è oggi la punta estrema dell’Occidente, 2) con la Cina l’Occidente ha chiuso il giro del mondo, 3)la storia riprende da Oriente.
Femminismo– Per i “Tantra” è l’epoca della dissoluzione: nell’ultima delle quattto età,l’ “età oscura, la divinità femminile prima “dormiente” si desta, “completamente sveglia”, e diventa egemone, simbolizzando la potenza elementare e primigenia del mondo, la sessualità e una ritualità orgiastica, e una forza distruttiva e “attivamente dissolutrice”. Il tantrismo che pure è più propriamente “shaktismo”, il culto dell’aspetto femminile e dinamico della divinità.
Globalizzazione – Si chiama globalizzazione perché unifica il mondo, porta al maincurrent l’Asia, con il Pacifico e l’America Latina. Ha anche una connotazione sociologica, detta volgarmente pensiero unico, come di un mondo tenuto insieme dentro una sorta di globo. Ma è in realtà attraversata da concorrenzialità acute. Non nemiche come nel Novecento, tra nazismo, comunismo e mondo libero. Ma forse più eversive. C’è l’Asia, di nuovo, nel mondo. Non c’è più l’Europa. L’Europa potrà forse reinserirsi, sta cercando, ma nella globalizzazione è cessato il suo ruolo tradizionale - e ormai il suo Dasein.- d’innovazione e egemonia, da Colombo al comunismo, cinque secoli. L’Atlantico torna quello che era, una sorta di muro divisorio.
Governo – Il potere invisibile delle democrazie, l’unico che si possa esercitare, non è più democratico. Quando la funzione di governo non si può esercitare dichiaratamente – si espone al massacro – e deve navigare surrettiziamente. Il parlamentarismo, l’unica forma politica della Rivoluzione repubblicana del 1789, fa lo sgambetto alla democrazia, cancellando la politica progettuale.
Nazionalismo – A.Finkielkraut l’etnologia fa scadere, per essere antirazzista, nel relativismo culturale. Quindi nella controrivoluzione (la cultura è tutto, non interessa il contratto sociale) e nel nazionalismo – nel nazionalismo etnico che ha portato al dissolvimento dell’Occidente (dell’Europa, forse?).
Ma l’unico movimento antimperiale, e per ciò stesso di liberazione, riuscito in questo lungo dopoguerra, il Vietnam, si basa sul nazionalismo. Un nazionalismo etnico, compattato sì dalla storia, che però è recente, coloniale. E di più da un’ideologia, il comunismo. Che ha generato un movimento di massa, totale, convinto.
Occidente – Colpa e senso di colpa dell’Occidente sono in René Guenon, nella laicizzazione del mondo cinque secoli fa, cioè agli inizi dell’Occidente. Per il resto la civiltà occidentale è materiale come tutte le altre – la tecnica si è formata in Oriente. A Occidente s’è sviluppato l’individuo, ma con l’autocoscienza che induce i sensi di colpa. Di colpe non è indenne naturalmente l’Oriente. Ma di sensi di colpa?
Con Foucault si può trovare l’origine del senso di colpa nella preminenza del coté giuridico (“Microfisica del potere”, 15), definito difensivo o negativo, emerso con lo Stato moderno per ridurre la riottosità feudale, la dissoluzione. Lo Stato interviene perché l’Occidente aveva già i saperi (tecnica, sessualità) per esercitarsi all’accumulazione.
Ma questo è l’Ottocento, acquisitivo, coloniale – di cui il Novecento è l’acme. E perché l’espansione (la tecnica, il sesso) ha valenza positiva e il diritto (la libertà) negativa? È questa libertà che ha portato confusione semmai che ha portato l’Occidente in errore, e si può supporre all’origine del senso di colpa.
Politica– Il potere persuasivo (costruttivo) della politica è legato al sapere: Montesquieu nota che l’uomo riconosce la propria natura se gli viene mostrata, la perde se gi viene occultata.
Machiavelli invece dice: “L’odi s’acquista così mediante le buone opere, come le triste; e però volendo uno principe mantenere lo Stato,è spesso forzato a non essere buono”. È la “qualità” del potere anche per Lenin e Trockij, i fondatori del bolscevismo. Ma senza effetto, come si sa.
Il potere (la politica) non necessariamente è (deve essere) demoniaco. Il potere è cattivo in varie sue forme, tirannica, totalitaria, patrimoniale, classista, e per errore anche nelle democrazie perfezionate. Ma ha valenza positiva. E non per cinismo, hobbesiano o machiavellico, ma per il disincanto dolente che è in Hobbes e in Machiavelli: per il bisogno (la necessità) della politica. Senza contare che la tirannia, fascista, nazista, terzomondista, può essere consentanea e perfino plebiscitaria.
Pubblico – Per Guicciardini, “Ricordi”, n.93, che lo Stato (il principe) svolga attività economiche (“mercatantìe, monopoli e altre cose meccaniche”) è un delitto “lesi populi”.
Radicalismo – Quello di destra ha gli stessi motivi di quello di sinistra: pauerismo, negazione della storia, negazione della convenzione. E talvolta gli stessi uomini: Céline, Ionesco, Cioran, a suo modo anche Evola. Ma sostituisce al nichilismo la tradizione, lp’eroe, i “valori”. Con un’incongruenza in più: l’esito positivo. È questo che ne fa la cattiveria.
Il radicalismo di destra è violento anche quando è pacifista (Céline), perché approda all’irrisione e al’intolleranza. Non riesce a ricomporsi (gli odi a catena di Céline: contro la guerra, la democrazia, il comunismo, il fascismo, i francesi del’onore e della patria a Sigmaringen, i tedeschi in “Nord”) perché rimescola i rifiuti della storia con furia, con passione. Il radicale di destra non è dandy, è impegnato, e fatalmente resta preda della mediocrità disprezzata. È la condizione (condanna) “piccolo borghese”?
Vincono gli estremi, o la tolleranza? Le creste, o l’onda bassa? Il radicalismo o le mezze misure? La storia va avanti con le spinte, e poi si adagia.
Repubblica – È un’altra Italia, completamente nuova: cattolica, comunista, popolare, molto democratica. è un rivolgimento rispetto all’Italia risorgimentale, durata fino a tutto il fascismo, nei linguaggi, nelle tematiche.
Nuoci ceti, nuovi interessi, nuovi modelli intellettuali irrompono. Il Risorgimento è un reliqyato notabilare, la Repubblica è operosa, creativa, menefreghista, nuovamente avventuroa, molto curiosop, democratica, populista (è la Rai strappacuore). Sono cadute anche le vecchie finzioni, i tre poteri del liberalismo ante 1789, la res publica super partes, il patriottismo obbediente e assoluto, le gerarchie. Sostituite dalla prima, vera, ideologia nazionale, il capitalismo – il challenge, il business, il consumo. La res publica della Repubblica è la ricchezza.
Riforma – In realtà non è lontana dalla Controriforma. Anche il Nord luterano (e in parte pure quello calvinista, il pietista) è bigotto: si vede in Germania, Scandinavia, Svizzera, Olanda. Mentre Milano e le città lombarde, le più controriformiste d’Italia, con i Borromeo e dopo, sono sempre state le più attive città capitaliste. Lo si avverte anche negli scrttori “padani”, da Manzoni a Umberto Eco. Ripensare (rovesciare) Max Weber, le sette e il capitalismo naturalmente si può, e forse è anche “vero”.
Rivoluzione – Marat muore promesso sposo ufficiale alla fidanzata Simone Evrard, che però egli aveva già sposato “alla luce del sole, al cospetto della natura” (Michelet, “Le donne della Rivoluzione”, p. 121). La rivoluzione è forte, più che dell’utopia, della sua apparente razionalità perfetta.
astolfo@antiit.eu
Cina – Se la storia va, come vuole Hegel, da Oriente a Occidente: 1) la Cina è oggi la punta estrema dell’Occidente, 2) con la Cina l’Occidente ha chiuso il giro del mondo, 3)la storia riprende da Oriente.
Femminismo– Per i “Tantra” è l’epoca della dissoluzione: nell’ultima delle quattto età,l’ “età oscura, la divinità femminile prima “dormiente” si desta, “completamente sveglia”, e diventa egemone, simbolizzando la potenza elementare e primigenia del mondo, la sessualità e una ritualità orgiastica, e una forza distruttiva e “attivamente dissolutrice”. Il tantrismo che pure è più propriamente “shaktismo”, il culto dell’aspetto femminile e dinamico della divinità.
Globalizzazione – Si chiama globalizzazione perché unifica il mondo, porta al maincurrent l’Asia, con il Pacifico e l’America Latina. Ha anche una connotazione sociologica, detta volgarmente pensiero unico, come di un mondo tenuto insieme dentro una sorta di globo. Ma è in realtà attraversata da concorrenzialità acute. Non nemiche come nel Novecento, tra nazismo, comunismo e mondo libero. Ma forse più eversive. C’è l’Asia, di nuovo, nel mondo. Non c’è più l’Europa. L’Europa potrà forse reinserirsi, sta cercando, ma nella globalizzazione è cessato il suo ruolo tradizionale - e ormai il suo Dasein.- d’innovazione e egemonia, da Colombo al comunismo, cinque secoli. L’Atlantico torna quello che era, una sorta di muro divisorio.
Governo – Il potere invisibile delle democrazie, l’unico che si possa esercitare, non è più democratico. Quando la funzione di governo non si può esercitare dichiaratamente – si espone al massacro – e deve navigare surrettiziamente. Il parlamentarismo, l’unica forma politica della Rivoluzione repubblicana del 1789, fa lo sgambetto alla democrazia, cancellando la politica progettuale.
Nazionalismo – A.Finkielkraut l’etnologia fa scadere, per essere antirazzista, nel relativismo culturale. Quindi nella controrivoluzione (la cultura è tutto, non interessa il contratto sociale) e nel nazionalismo – nel nazionalismo etnico che ha portato al dissolvimento dell’Occidente (dell’Europa, forse?).
Ma l’unico movimento antimperiale, e per ciò stesso di liberazione, riuscito in questo lungo dopoguerra, il Vietnam, si basa sul nazionalismo. Un nazionalismo etnico, compattato sì dalla storia, che però è recente, coloniale. E di più da un’ideologia, il comunismo. Che ha generato un movimento di massa, totale, convinto.
Occidente – Colpa e senso di colpa dell’Occidente sono in René Guenon, nella laicizzazione del mondo cinque secoli fa, cioè agli inizi dell’Occidente. Per il resto la civiltà occidentale è materiale come tutte le altre – la tecnica si è formata in Oriente. A Occidente s’è sviluppato l’individuo, ma con l’autocoscienza che induce i sensi di colpa. Di colpe non è indenne naturalmente l’Oriente. Ma di sensi di colpa?
Con Foucault si può trovare l’origine del senso di colpa nella preminenza del coté giuridico (“Microfisica del potere”, 15), definito difensivo o negativo, emerso con lo Stato moderno per ridurre la riottosità feudale, la dissoluzione. Lo Stato interviene perché l’Occidente aveva già i saperi (tecnica, sessualità) per esercitarsi all’accumulazione.
Ma questo è l’Ottocento, acquisitivo, coloniale – di cui il Novecento è l’acme. E perché l’espansione (la tecnica, il sesso) ha valenza positiva e il diritto (la libertà) negativa? È questa libertà che ha portato confusione semmai che ha portato l’Occidente in errore, e si può supporre all’origine del senso di colpa.
Politica– Il potere persuasivo (costruttivo) della politica è legato al sapere: Montesquieu nota che l’uomo riconosce la propria natura se gli viene mostrata, la perde se gi viene occultata.
Machiavelli invece dice: “L’odi s’acquista così mediante le buone opere, come le triste; e però volendo uno principe mantenere lo Stato,è spesso forzato a non essere buono”. È la “qualità” del potere anche per Lenin e Trockij, i fondatori del bolscevismo. Ma senza effetto, come si sa.
Il potere (la politica) non necessariamente è (deve essere) demoniaco. Il potere è cattivo in varie sue forme, tirannica, totalitaria, patrimoniale, classista, e per errore anche nelle democrazie perfezionate. Ma ha valenza positiva. E non per cinismo, hobbesiano o machiavellico, ma per il disincanto dolente che è in Hobbes e in Machiavelli: per il bisogno (la necessità) della politica. Senza contare che la tirannia, fascista, nazista, terzomondista, può essere consentanea e perfino plebiscitaria.
Pubblico – Per Guicciardini, “Ricordi”, n.93, che lo Stato (il principe) svolga attività economiche (“mercatantìe, monopoli e altre cose meccaniche”) è un delitto “lesi populi”.
Radicalismo – Quello di destra ha gli stessi motivi di quello di sinistra: pauerismo, negazione della storia, negazione della convenzione. E talvolta gli stessi uomini: Céline, Ionesco, Cioran, a suo modo anche Evola. Ma sostituisce al nichilismo la tradizione, lp’eroe, i “valori”. Con un’incongruenza in più: l’esito positivo. È questo che ne fa la cattiveria.
Il radicalismo di destra è violento anche quando è pacifista (Céline), perché approda all’irrisione e al’intolleranza. Non riesce a ricomporsi (gli odi a catena di Céline: contro la guerra, la democrazia, il comunismo, il fascismo, i francesi del’onore e della patria a Sigmaringen, i tedeschi in “Nord”) perché rimescola i rifiuti della storia con furia, con passione. Il radicale di destra non è dandy, è impegnato, e fatalmente resta preda della mediocrità disprezzata. È la condizione (condanna) “piccolo borghese”?
Vincono gli estremi, o la tolleranza? Le creste, o l’onda bassa? Il radicalismo o le mezze misure? La storia va avanti con le spinte, e poi si adagia.
Repubblica – È un’altra Italia, completamente nuova: cattolica, comunista, popolare, molto democratica. è un rivolgimento rispetto all’Italia risorgimentale, durata fino a tutto il fascismo, nei linguaggi, nelle tematiche.
Nuoci ceti, nuovi interessi, nuovi modelli intellettuali irrompono. Il Risorgimento è un reliqyato notabilare, la Repubblica è operosa, creativa, menefreghista, nuovamente avventuroa, molto curiosop, democratica, populista (è la Rai strappacuore). Sono cadute anche le vecchie finzioni, i tre poteri del liberalismo ante 1789, la res publica super partes, il patriottismo obbediente e assoluto, le gerarchie. Sostituite dalla prima, vera, ideologia nazionale, il capitalismo – il challenge, il business, il consumo. La res publica della Repubblica è la ricchezza.
Riforma – In realtà non è lontana dalla Controriforma. Anche il Nord luterano (e in parte pure quello calvinista, il pietista) è bigotto: si vede in Germania, Scandinavia, Svizzera, Olanda. Mentre Milano e le città lombarde, le più controriformiste d’Italia, con i Borromeo e dopo, sono sempre state le più attive città capitaliste. Lo si avverte anche negli scrttori “padani”, da Manzoni a Umberto Eco. Ripensare (rovesciare) Max Weber, le sette e il capitalismo naturalmente si può, e forse è anche “vero”.
Rivoluzione – Marat muore promesso sposo ufficiale alla fidanzata Simone Evrard, che però egli aveva già sposato “alla luce del sole, al cospetto della natura” (Michelet, “Le donne della Rivoluzione”, p. 121). La rivoluzione è forte, più che dell’utopia, della sua apparente razionalità perfetta.
astolfo@antiit.eu
venerdì 25 febbraio 2011
Céline, il modello è Rabelais
Il cinquantenario della morte è occasione a una fioritura di studi e pubblicazioni. Di ogni piccolo pezzo d’inedito, e di ogni tipo di valutazione: Céline musicista, il romanzo parlante, la politica, la poetica, la cattiveria, gli affetti costanti, la schizofrenia, e le sue incontinenti interviste – Céline è lo scrittore più parlante (dopo Borges?). Ma il più nuovo è già noto, anche se non convincente.
La vita come nausea è il tema di un saggio fortunato nel 1980 di Jean-Pierre Richard, “Nausée de Céline”. Una rilettura del “Viaggio”, che si riedita in economica rivista e aumentata, ma sempre ambigua, o allusiva. Bardamu si ritrova in una carneficina sul campo di battaglia il giorno dopo e finisce per vomitare. È il segno della “liquidità” del corpo celiniano (p.9): “La grande malattia del corpo celiniano, e prendiamo qui il corpo per una figura del mondo stesso, è, si vede, l’incertezza interna, la mancanza di tenuta”. Una lettura che una nota così integra: “Questionata e assunta dalla riflessione, questa incertezza finisce nella coscienza celiniana al sentimento della gratuità, dell’a che vale, della non-necessità dell’esistenza. La mollezza scopre allora la contingenza: Céline introduce dunque a Sartre, ma a partire da questo punto di partenza comune le loro mitologie si sviluppano in direzioni molto diverse”. L’oggetto di Richard, studioso della letteratura, è “la deliquescenza del sé” (tra caporali Richard cita il “Viaggio”): “Giacché percepire, per Cèline, è «sfilacciarsi», perdere di consistenza intima, è «lasciarsi andare alla corrente della propria micragna», è soccombere, come tra «i diluvi di acque tiepide» dell’Africa a un «torrente di sensazioni sconosciute». Come già Flaubert, quest’altro martire della mollezza”. Sembra una di quelle analisi che Cèline prediligeva per i suoi sarcasmi.
Molti contributi sono biografici: testimonianze e lettere. Ma l’essenziale si sa. Soprattutto dell’antisemitismo. Che non fu l’accecamento di un momento, o della mancata carriera alla società delle Nazioni (questa è materia di un autore, Albert Cohen, nel suo capolavoro “Bella del signore”, che assolutamente non si sì può sospettare di antisemitismo): Céline partecipava a convegni antisemiti, a gruppi antisemiti, e chiedeva un antisemitismo attivo. Nel corso della guerra, e fino a fine 1942. Con l’aggravante cioè dell’opportunismo: Céline in qualche modo modulò questa passione con l’andamento del Blitzkrieg nazista.
Scrivendo a Milton Hindus nel 1947 se ne difende (le lettere, pubblicate quarant’anni fa nello speciale Cahier de l’Herne, sono molto utilizzate da J. Kristeva): “Entusiasmo vuol dire delirare molto – Ahimé! – Freud certo ha delirato molto – ma il nostro ora sembra unicamente un delirio di fantasmi politici – è ancora più ridicolo – lo so. Ci sono cascato”. Ma il disprezzo era radicato, sebbene non per motivi specifici e forse a sua insaputa: mediato dal padre, al quale pure l’aveva riprovato, nell’insieme di debolezze con cui ne fa il ritratto in “Morte a credito”. L’antisemitismo Kristeva rileva, nel suo capitolo forse più illuminante, “Vivere da ebrei o morire”, “violento e stereotipato ma appassionato”, per essere “il semplice esito di una rabbia assolutamente laica”, o “rabbia contro il Simbolico” (p. 205): “Il Simbolico è rappresentato dalle istituzioni religiose, parareligiose e morali (Chiesa, massoneria, Scuola, Élite intellettuale, Ideologia comunista, ecc.) e culmina in quello che Céline allucina e conosce come loro fondamento e antenato: il monoteismo ebraico”. Che Céline sia mai andato a fondo di un qualsiasi fatto religioso è dubbio, ma la tesi complessivamente regge. A Hindus, col quale corrispondeva nel mezzo dei processi perché ebreo, scrive: “Bisogna creare un nuovo razzismo su basi biologiche”. Perché è vero che l’igienista che Céline incontestabilmente fu sconfina con l’eugenetista.
È lo stigma del radicalismo, o anarchismo. Senza distinzioni, quello di destra ha gli stessi motivi di quello di sinistra: pauperismo, negazione della storia, negazione della convenzione. E talvolta gli stessi uomini: Céline, Ionesco, Cioran, a suo modo anche Evola. Ma sostituisce al nichilismo la tradizione, l’eroe, i “valori”. Con un’incongruenza in più: l’esito positivo. Che ne fa peculiare la cattiveria. Il radicalismo di destra è violento anche quando è pacifista (Céline), perché approda all’irrisione e all’intolleranza. Non riesce a ricomporsi (gli odi a catena di Céline: contro la guerra, la democrazia, il comunismo, il fascismo, i francesi dell’onore e della patria a Sigmaringen, i tedeschi in “Nord”) perché rimescola i rifiuti della storia con furia, con passione. Il radicale di destra non è dandy, è impegnato, e fatalmente resta preda della mediocrità disprezzata. È la condizione (condanna) “piccolo borghese”?
È anche vero che Céline fu cosmopolita, avendo avuto dal padre un’educazione cosmopolita, con gli studi e i soggiorni in Germania e Inghilterra, non frequenti ai primi del Novecento (“Parlo l’inglese perfettamente, come il francese”, si vanta con Guy Bechtel e Roger Poulet nel 1957, quando già cominciava a sbraitare contro l’uso dell’inglese). Che ha vissuto da borghese affluente per almeno vent'anni, dalla parziale riforma a Londra nel 1916 alla Fondazione Rockefeller, gli studi di medicina, il primo matrimonio, la Società delle nazioni in quello che sarà l'Oms, il successo del debutto letterario, con premi, inviti, serate, viaggi in Urss. Che volle essere antisemita come volle essere antisovietico. È vero pure che alla disfatta non si rifugia in Germania. Nel giugno 1944 tenta di raggiungere la Danimarca. A Baden Baden è però bloccato, e inviato prima a Kräenzlin (“Nord”), e poi a Sigmaringen (“D’un chateau l’autre”), per tutto l’inverno. A marzo può espatriare verso la Danimarca. Dove quasi subito è carcerato con l’accusa di tradimento. L’unica parte ancora non nota è quella relativa alla seconda moglie, Edith Follet, e alla figlia Colette, per la quale aveva scritto nel 1924, quando la bambina aveva quattro anni, la favola “L’histoire du petit Mouck” – Colette a sua volta ha avuto sei figli. Due donne di cui Céline lamenta più volte l’estraneità, una mancanza quindi non minore.
“Poteri dell’orrore” è un promettente studio sull’“estremismo celiniano”. Del “Male come verità del Senso impossibile (del Bene, del Diritto)” (175), con le maiuscole barocche. Del bisogno di abiezione, “una vertigine dell’abiezione” (156), come argine alla dissoluzione nello sdoppiamento della scrittura: “Chi può dire se il bombardamento di Amburgo scritto da Céline sia il colmo del tragico o la più disinvolta derisione dell’umanità?” (157-158) ma non è la stessa cosa? La letteratura del Novecento, sembra dire Kristeva, ha l’abiezione come tema, prolungamento dell’apocalisse e del carnevale. Ma lei stessa è allora pro Novecento, parole in libertà, del genere “va’ dove ti porta la parola”, che germoglia su se stessa, incapace d’accensione. “Céline ci fa credere di essere vero”, così lo presenta, “il solo autentico e noi siamo pronti a seguirlo affondati in quel termine della notte dove viene a cercarci e dimentichiamo che se ce lo mostra è perché lui sta altrove, nello scritto”. Non eccezionale. E allora: “Attore o martire? Né l’uno né l’altro o tutt’e due insieme, come un vero scrittore che creda alla sua astuzia”. Il culmine è nella scena del parto in “Rigodon”. Che è l’unica in tutto Céline, ma viene comodo eleggere a Urfantasie freudiana, la “scena primaria” che condiziona l’individuo (176): “… Incesto a rovescio, identità scorticata. Il parto, culmine della carneficina e della vita, punto bruciante dell’esitazione (dentro/fuori, io/altro, vita/morte), orrore e bellezza, sessualità e brutale negazione del sessuale”.
Il culmine della gioiosa deriva dell’estremismo psicanalitico. Col solito tecnicismo aggressivo, terroristico e inconcludente. La tecnica è nota: farsi venire un’idea, a cui tutto riportare deduttivamente – sono esercizi alla Sherlock Holmes, il vero Freud, in “concatenazioni” (questo avrà un significato nel profondo?). L’abiezione è “godimento” (11): “Lo smarrito si considera l’equivalente di un Terzo”, un voyeur, un marionettista. “L’abietto somiglia alla perversione (17). E naturalmente “Hans ha paura dell’innominabile” (39). Il piccolo Hans di Freud che aveva paura dei cavalli: “La fobia dei cavalli diventa un geroglifico che condensa tutte le paure”.
La definizione dell’abiezione è di Bataille: “È semplicemente l’incapacità di assumere con una forza suficiente l’atto imperativo di esclusione dalle cose abiette (che costituisce il fondamento della vita collettiva)… L’atto di esclusione ha il medesimo fondamento della sovranità sociale o divina ma non è situato sullo stesso piano: si situa precisamente nel campo delle cose e non, come la sovranità, nel campo delle persone. Ne diferisce dunque alo stesso modo in cui l’erotismo anale differisce dal sadismo”. Poiché la storia, l’analista lo sa “dall’abisso del suo silenzio”, si sa da Freud, “inizia con «due tabù del totemismo»: assassinio e incesto” (65). Che Lévi-Strauss, naturalmente, ha provato (67) in “tutti i sistemi di conoscenza delle società cosiddette selvagge” – tutti tutti? E dov’è dunque l’abietto di Céline? È nel “Femminile” – il tabù di Freud, il totem di Kristeva, in una delle sue tante specialità. Dell’abiezione il capostipite è peraltro Baudelaire, nella vita e nell’opera – che Kristeva non nomina (e di cui a Céline nessuno ha mai chiesto nulla, degli innumerevoli intervistatori): la cosa nasce in letteratura.
Kristeva, multidisciplinare, è più persuasiva nella critica letteraria (e, chissà, semiologica) che nella scienza della mente. Ma anche lì con riserve, la sua categoria dell’abiezione estendendo a “ogni letteratura”, il problema della “frontiera fragile («borderline»)” e dell’“identità significabile”, a Baudelaire, Kafka, Sartre, Joyce, Borges, Dostoevskij e chiunque altro le sia venuto a tiro – a fronte del porno di Proust nei convegni maschili nella “bottega” di Jupien “l’orgia sadiana” non ha “nulla di abietto” (23). Céline tuttavia sintetizza classicamente (241): “L’opera di Céline... possiede del moderno l’ostinazione distruttrice se non analitica e del classico mantiene la capacità epica unita al grande respiro popolare se non volgare”. L’orrore invece è “un sereno approdo” (244). Di chi rinuncia a purificare, sistematizzare, pensare, il proprio delle civiltà, “che si danno l’orrore per costruirsi e funzionare”. Costituirsi in un sistema: chiesa, classe, partito, nazione, razza. Per fare la guerra. Uno dei tanti “rovesciamenti” di cui la psicanalisi si fa bandiera.
Kristeva enuclea anche l’ambivalenza più radicale di Céline, dopo l’odio, riportando giustamente il debutto letterario alla tesi di laurea in medicina del 1924, il “Semmelweiss” – che è poi il romanzo più romanzo di Céline, in linea col genere. Di Semmelweiss, che fu “autore a sua volta di una tesi di stile letterario”, “La vita delle piante. Dodici pagine di poesia”. La tesi di Céline, argomenta Kristeva, “è una preparazione al «Viaggio al termine della notte», nel senso che affronta in modo quasi esplicito, sia pure attraverso la rimozione «scientifica», l’enigma costituito, per la ragione, dal femminile”. A questo legando il fascino costante su Céline della ballerina, e della scrittura come arte scenica, di parole, musica e balletto, che Céline sempre tentò, anche tra gli spaventi della guerra, quello che ambiva scrivere e non gli veniva.
“Il vero «miracolo» Céline sta nell’effetto di lettura – affascinante, misterioso, intimamente notturno, liberatore di un riso senza compiacimento eppure complice”, nota Kristeva accingendosi ad affrontare Céline. Ma questo manca nel revival, e nell’ormai immensa pubblicistica: un Céline comico. Céline comico è un capitolo tutto da scrivere. Anche se la tentazione dello sghignazzo è prevalente in lui nelle condizioni più difficili, perfino sconcia. Céline granatiere a cavallo benché cionco che subisce un tentativo di violenza da parte di una ragazzina di undici anni, truccatissima, nuda, è Aristofane (è una delle tre storie riunite sotto il titolo “Maudits soupirs pour une autre fois”). Come è Aristofane nella vita il cavaliere volontario Louis-Ferdinand Destouches che ha paura del cavallo.
Il “Magazine” ha il pregio di riportare, in due brillanti articoli di due studiose, Florence Mercier-Leca e Suzanne Lafont, a Rabelais e a Molière. A “un tartufo tartuficato dalle sue proprie imposture”. Molto Alceste, il misantropo intransigente (idealista naturalmente). Un dottor Purgone del genere umano. “Il riferimento al maestro”, nota Lafont, “è esplicito, l’omaggio reso costante, almeno da «Progresso»”, la fantasia teatrale del 1927 – ma già dal 1926, da “La chiesa”, altra fantasia teatrale, la prima opera conosciuta: “George Dandin”, anch’esso parole, musica e balletto, rimarrà sempre nelle sue corde. L’ascendenza a Rabelais, “anche lui medico e scrittore”, è rivendicata da Céline in più posti, e segnatamente nell’intervista con Bechtel e Poulet, qui ampiamente riprodotta. Come uomo: “Ho avuto nella mia vita lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato il tempo a mettermi in situazione disperate. Mi sono reso accuratamente odioso. Come lui, non ho dunque nulla da aspettarmi dagli altri”. E come scrittore. “Non era un buontempone, Rabelais. Si dice, è falso. Lui lavorava. E come tutti quelli che lavorano è un forzato”. Anche lui “avrebbero ben voluto fregarlo, condannarlo”.
Florence Mercier-Leca ritrova il Rabelais di Bachtin nell’onomastica celiniana, tanto inventiva quanto derisoria e perfino oscena, la ripetizione, spesso aggravata dai frequentativi, le allitterazioni. Un procedimento, nota, che Charlot riprenderà quattro anni più tardi in “Tempi moderni”. Ma in Céline “i procedimenti della satira e del pamphlet traducono una visione nera della condizione umana. Il comico si lega all’ossessione della morte: la vita è per Céline una danza macabra”. Céline è retrospettivo: si guarda a lui partendo dall’antisemitismo, e quindi dall’Olocausto. Mentre è Rabelais. In tutto. Con una sensibilità, in più, che si vuole ferita, da uomo del Novecento.
Céline, “Magazine Littéraire” febbraio 2011 € 6,60
Jean-Pierre Richard, Nausée de Céline, Verdier pp. 89, €5,80
Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, pp. 247, €13
La vita come nausea è il tema di un saggio fortunato nel 1980 di Jean-Pierre Richard, “Nausée de Céline”. Una rilettura del “Viaggio”, che si riedita in economica rivista e aumentata, ma sempre ambigua, o allusiva. Bardamu si ritrova in una carneficina sul campo di battaglia il giorno dopo e finisce per vomitare. È il segno della “liquidità” del corpo celiniano (p.9): “La grande malattia del corpo celiniano, e prendiamo qui il corpo per una figura del mondo stesso, è, si vede, l’incertezza interna, la mancanza di tenuta”. Una lettura che una nota così integra: “Questionata e assunta dalla riflessione, questa incertezza finisce nella coscienza celiniana al sentimento della gratuità, dell’a che vale, della non-necessità dell’esistenza. La mollezza scopre allora la contingenza: Céline introduce dunque a Sartre, ma a partire da questo punto di partenza comune le loro mitologie si sviluppano in direzioni molto diverse”. L’oggetto di Richard, studioso della letteratura, è “la deliquescenza del sé” (tra caporali Richard cita il “Viaggio”): “Giacché percepire, per Cèline, è «sfilacciarsi», perdere di consistenza intima, è «lasciarsi andare alla corrente della propria micragna», è soccombere, come tra «i diluvi di acque tiepide» dell’Africa a un «torrente di sensazioni sconosciute». Come già Flaubert, quest’altro martire della mollezza”. Sembra una di quelle analisi che Cèline prediligeva per i suoi sarcasmi.
Molti contributi sono biografici: testimonianze e lettere. Ma l’essenziale si sa. Soprattutto dell’antisemitismo. Che non fu l’accecamento di un momento, o della mancata carriera alla società delle Nazioni (questa è materia di un autore, Albert Cohen, nel suo capolavoro “Bella del signore”, che assolutamente non si sì può sospettare di antisemitismo): Céline partecipava a convegni antisemiti, a gruppi antisemiti, e chiedeva un antisemitismo attivo. Nel corso della guerra, e fino a fine 1942. Con l’aggravante cioè dell’opportunismo: Céline in qualche modo modulò questa passione con l’andamento del Blitzkrieg nazista.
Scrivendo a Milton Hindus nel 1947 se ne difende (le lettere, pubblicate quarant’anni fa nello speciale Cahier de l’Herne, sono molto utilizzate da J. Kristeva): “Entusiasmo vuol dire delirare molto – Ahimé! – Freud certo ha delirato molto – ma il nostro ora sembra unicamente un delirio di fantasmi politici – è ancora più ridicolo – lo so. Ci sono cascato”. Ma il disprezzo era radicato, sebbene non per motivi specifici e forse a sua insaputa: mediato dal padre, al quale pure l’aveva riprovato, nell’insieme di debolezze con cui ne fa il ritratto in “Morte a credito”. L’antisemitismo Kristeva rileva, nel suo capitolo forse più illuminante, “Vivere da ebrei o morire”, “violento e stereotipato ma appassionato”, per essere “il semplice esito di una rabbia assolutamente laica”, o “rabbia contro il Simbolico” (p. 205): “Il Simbolico è rappresentato dalle istituzioni religiose, parareligiose e morali (Chiesa, massoneria, Scuola, Élite intellettuale, Ideologia comunista, ecc.) e culmina in quello che Céline allucina e conosce come loro fondamento e antenato: il monoteismo ebraico”. Che Céline sia mai andato a fondo di un qualsiasi fatto religioso è dubbio, ma la tesi complessivamente regge. A Hindus, col quale corrispondeva nel mezzo dei processi perché ebreo, scrive: “Bisogna creare un nuovo razzismo su basi biologiche”. Perché è vero che l’igienista che Céline incontestabilmente fu sconfina con l’eugenetista.
È lo stigma del radicalismo, o anarchismo. Senza distinzioni, quello di destra ha gli stessi motivi di quello di sinistra: pauperismo, negazione della storia, negazione della convenzione. E talvolta gli stessi uomini: Céline, Ionesco, Cioran, a suo modo anche Evola. Ma sostituisce al nichilismo la tradizione, l’eroe, i “valori”. Con un’incongruenza in più: l’esito positivo. Che ne fa peculiare la cattiveria. Il radicalismo di destra è violento anche quando è pacifista (Céline), perché approda all’irrisione e all’intolleranza. Non riesce a ricomporsi (gli odi a catena di Céline: contro la guerra, la democrazia, il comunismo, il fascismo, i francesi dell’onore e della patria a Sigmaringen, i tedeschi in “Nord”) perché rimescola i rifiuti della storia con furia, con passione. Il radicale di destra non è dandy, è impegnato, e fatalmente resta preda della mediocrità disprezzata. È la condizione (condanna) “piccolo borghese”?
È anche vero che Céline fu cosmopolita, avendo avuto dal padre un’educazione cosmopolita, con gli studi e i soggiorni in Germania e Inghilterra, non frequenti ai primi del Novecento (“Parlo l’inglese perfettamente, come il francese”, si vanta con Guy Bechtel e Roger Poulet nel 1957, quando già cominciava a sbraitare contro l’uso dell’inglese). Che ha vissuto da borghese affluente per almeno vent'anni, dalla parziale riforma a Londra nel 1916 alla Fondazione Rockefeller, gli studi di medicina, il primo matrimonio, la Società delle nazioni in quello che sarà l'Oms, il successo del debutto letterario, con premi, inviti, serate, viaggi in Urss. Che volle essere antisemita come volle essere antisovietico. È vero pure che alla disfatta non si rifugia in Germania. Nel giugno 1944 tenta di raggiungere la Danimarca. A Baden Baden è però bloccato, e inviato prima a Kräenzlin (“Nord”), e poi a Sigmaringen (“D’un chateau l’autre”), per tutto l’inverno. A marzo può espatriare verso la Danimarca. Dove quasi subito è carcerato con l’accusa di tradimento. L’unica parte ancora non nota è quella relativa alla seconda moglie, Edith Follet, e alla figlia Colette, per la quale aveva scritto nel 1924, quando la bambina aveva quattro anni, la favola “L’histoire du petit Mouck” – Colette a sua volta ha avuto sei figli. Due donne di cui Céline lamenta più volte l’estraneità, una mancanza quindi non minore.
“Poteri dell’orrore” è un promettente studio sull’“estremismo celiniano”. Del “Male come verità del Senso impossibile (del Bene, del Diritto)” (175), con le maiuscole barocche. Del bisogno di abiezione, “una vertigine dell’abiezione” (156), come argine alla dissoluzione nello sdoppiamento della scrittura: “Chi può dire se il bombardamento di Amburgo scritto da Céline sia il colmo del tragico o la più disinvolta derisione dell’umanità?” (157-158) ma non è la stessa cosa? La letteratura del Novecento, sembra dire Kristeva, ha l’abiezione come tema, prolungamento dell’apocalisse e del carnevale. Ma lei stessa è allora pro Novecento, parole in libertà, del genere “va’ dove ti porta la parola”, che germoglia su se stessa, incapace d’accensione. “Céline ci fa credere di essere vero”, così lo presenta, “il solo autentico e noi siamo pronti a seguirlo affondati in quel termine della notte dove viene a cercarci e dimentichiamo che se ce lo mostra è perché lui sta altrove, nello scritto”. Non eccezionale. E allora: “Attore o martire? Né l’uno né l’altro o tutt’e due insieme, come un vero scrittore che creda alla sua astuzia”. Il culmine è nella scena del parto in “Rigodon”. Che è l’unica in tutto Céline, ma viene comodo eleggere a Urfantasie freudiana, la “scena primaria” che condiziona l’individuo (176): “… Incesto a rovescio, identità scorticata. Il parto, culmine della carneficina e della vita, punto bruciante dell’esitazione (dentro/fuori, io/altro, vita/morte), orrore e bellezza, sessualità e brutale negazione del sessuale”.
Il culmine della gioiosa deriva dell’estremismo psicanalitico. Col solito tecnicismo aggressivo, terroristico e inconcludente. La tecnica è nota: farsi venire un’idea, a cui tutto riportare deduttivamente – sono esercizi alla Sherlock Holmes, il vero Freud, in “concatenazioni” (questo avrà un significato nel profondo?). L’abiezione è “godimento” (11): “Lo smarrito si considera l’equivalente di un Terzo”, un voyeur, un marionettista. “L’abietto somiglia alla perversione (17). E naturalmente “Hans ha paura dell’innominabile” (39). Il piccolo Hans di Freud che aveva paura dei cavalli: “La fobia dei cavalli diventa un geroglifico che condensa tutte le paure”.
La definizione dell’abiezione è di Bataille: “È semplicemente l’incapacità di assumere con una forza suficiente l’atto imperativo di esclusione dalle cose abiette (che costituisce il fondamento della vita collettiva)… L’atto di esclusione ha il medesimo fondamento della sovranità sociale o divina ma non è situato sullo stesso piano: si situa precisamente nel campo delle cose e non, come la sovranità, nel campo delle persone. Ne diferisce dunque alo stesso modo in cui l’erotismo anale differisce dal sadismo”. Poiché la storia, l’analista lo sa “dall’abisso del suo silenzio”, si sa da Freud, “inizia con «due tabù del totemismo»: assassinio e incesto” (65). Che Lévi-Strauss, naturalmente, ha provato (67) in “tutti i sistemi di conoscenza delle società cosiddette selvagge” – tutti tutti? E dov’è dunque l’abietto di Céline? È nel “Femminile” – il tabù di Freud, il totem di Kristeva, in una delle sue tante specialità. Dell’abiezione il capostipite è peraltro Baudelaire, nella vita e nell’opera – che Kristeva non nomina (e di cui a Céline nessuno ha mai chiesto nulla, degli innumerevoli intervistatori): la cosa nasce in letteratura.
Kristeva, multidisciplinare, è più persuasiva nella critica letteraria (e, chissà, semiologica) che nella scienza della mente. Ma anche lì con riserve, la sua categoria dell’abiezione estendendo a “ogni letteratura”, il problema della “frontiera fragile («borderline»)” e dell’“identità significabile”, a Baudelaire, Kafka, Sartre, Joyce, Borges, Dostoevskij e chiunque altro le sia venuto a tiro – a fronte del porno di Proust nei convegni maschili nella “bottega” di Jupien “l’orgia sadiana” non ha “nulla di abietto” (23). Céline tuttavia sintetizza classicamente (241): “L’opera di Céline... possiede del moderno l’ostinazione distruttrice se non analitica e del classico mantiene la capacità epica unita al grande respiro popolare se non volgare”. L’orrore invece è “un sereno approdo” (244). Di chi rinuncia a purificare, sistematizzare, pensare, il proprio delle civiltà, “che si danno l’orrore per costruirsi e funzionare”. Costituirsi in un sistema: chiesa, classe, partito, nazione, razza. Per fare la guerra. Uno dei tanti “rovesciamenti” di cui la psicanalisi si fa bandiera.
Kristeva enuclea anche l’ambivalenza più radicale di Céline, dopo l’odio, riportando giustamente il debutto letterario alla tesi di laurea in medicina del 1924, il “Semmelweiss” – che è poi il romanzo più romanzo di Céline, in linea col genere. Di Semmelweiss, che fu “autore a sua volta di una tesi di stile letterario”, “La vita delle piante. Dodici pagine di poesia”. La tesi di Céline, argomenta Kristeva, “è una preparazione al «Viaggio al termine della notte», nel senso che affronta in modo quasi esplicito, sia pure attraverso la rimozione «scientifica», l’enigma costituito, per la ragione, dal femminile”. A questo legando il fascino costante su Céline della ballerina, e della scrittura come arte scenica, di parole, musica e balletto, che Céline sempre tentò, anche tra gli spaventi della guerra, quello che ambiva scrivere e non gli veniva.
“Il vero «miracolo» Céline sta nell’effetto di lettura – affascinante, misterioso, intimamente notturno, liberatore di un riso senza compiacimento eppure complice”, nota Kristeva accingendosi ad affrontare Céline. Ma questo manca nel revival, e nell’ormai immensa pubblicistica: un Céline comico. Céline comico è un capitolo tutto da scrivere. Anche se la tentazione dello sghignazzo è prevalente in lui nelle condizioni più difficili, perfino sconcia. Céline granatiere a cavallo benché cionco che subisce un tentativo di violenza da parte di una ragazzina di undici anni, truccatissima, nuda, è Aristofane (è una delle tre storie riunite sotto il titolo “Maudits soupirs pour une autre fois”). Come è Aristofane nella vita il cavaliere volontario Louis-Ferdinand Destouches che ha paura del cavallo.
Il “Magazine” ha il pregio di riportare, in due brillanti articoli di due studiose, Florence Mercier-Leca e Suzanne Lafont, a Rabelais e a Molière. A “un tartufo tartuficato dalle sue proprie imposture”. Molto Alceste, il misantropo intransigente (idealista naturalmente). Un dottor Purgone del genere umano. “Il riferimento al maestro”, nota Lafont, “è esplicito, l’omaggio reso costante, almeno da «Progresso»”, la fantasia teatrale del 1927 – ma già dal 1926, da “La chiesa”, altra fantasia teatrale, la prima opera conosciuta: “George Dandin”, anch’esso parole, musica e balletto, rimarrà sempre nelle sue corde. L’ascendenza a Rabelais, “anche lui medico e scrittore”, è rivendicata da Céline in più posti, e segnatamente nell’intervista con Bechtel e Poulet, qui ampiamente riprodotta. Come uomo: “Ho avuto nella mia vita lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato il tempo a mettermi in situazione disperate. Mi sono reso accuratamente odioso. Come lui, non ho dunque nulla da aspettarmi dagli altri”. E come scrittore. “Non era un buontempone, Rabelais. Si dice, è falso. Lui lavorava. E come tutti quelli che lavorano è un forzato”. Anche lui “avrebbero ben voluto fregarlo, condannarlo”.
Florence Mercier-Leca ritrova il Rabelais di Bachtin nell’onomastica celiniana, tanto inventiva quanto derisoria e perfino oscena, la ripetizione, spesso aggravata dai frequentativi, le allitterazioni. Un procedimento, nota, che Charlot riprenderà quattro anni più tardi in “Tempi moderni”. Ma in Céline “i procedimenti della satira e del pamphlet traducono una visione nera della condizione umana. Il comico si lega all’ossessione della morte: la vita è per Céline una danza macabra”. Céline è retrospettivo: si guarda a lui partendo dall’antisemitismo, e quindi dall’Olocausto. Mentre è Rabelais. In tutto. Con una sensibilità, in più, che si vuole ferita, da uomo del Novecento.
Céline, “Magazine Littéraire” febbraio 2011 € 6,60
Jean-Pierre Richard, Nausée de Céline, Verdier pp. 89, €5,80
Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, pp. 247, €13
Che fine hanno fatto – i giornali e non solo
Che Della Valle in Generali è rimasto quello che era, un piccolo azionista, nessun giornale oggi lo dice, perché?
Se i giornali sono tanto in crisi, cosa fanno per vincerla? O questa è la solita lamentela degli editori? I giornali escono per consentire agli editori di lamentarsi?
Perché i giornali non parlano di cosa realmente succede e non informano? Per che altro bisognerebbe comprarli?
Cosa ha trovato la dottoressa Boccassini nelle mutande di Brigandì?
E in quelle di Anna Maria Greco?
Che fine hanno fatto le firme per cacciare Berlusconi?
E il sorpasso del Tg 5 sul Tg 1?
E Berlusconi si caccia con le firme, seppure dei migliori, o con il voto?
Com’è possibile che ogni giorno ci sia in Italia una crisi politica? Che mette a rischio il governo. Trecentosessantacinque l’anno, milleottocento in una legislatura. E che fine fanno queste crisi?
Perché si lascia parlare tanto questo Vietti? Chi è, cosa ha fatto? È uno dei “migliori”? È possibile?
Com’è possibile che a Torino i cattolici sfidino Fassino alle primarie facendosi votare dai berlusconiani? Li pagano? Non sono anche i cattolici del Pd? O Fassino non va sfidato? E che cosa sono le primarie?
Perché per una settimana la Rai ci ha imposto “Manuale d’amore 3”? Un filmetto da ridere, non è nemmeno anti-Berlusconi. Da Fazio, nei tg ripetutamente, ora con De Niro, ora con la Bellucci, ora con Verdone, e perfino al festival di Sanremo, il programma più visto degli italiani. Una pubblicità strepitosa: la Rai si è fatta pagare? C’era di che risanare il disastrato bilancio.
E “Qualunquemente”? Che la Rai ha promosso senza le star, nonché senza merito. Forse perché sono due film dello stesso produttore?
È il produttore provvido? Di donne? Di coca? Di collaborazioni? E gli altri registi allora, e gli altri comici? Che magari hanno faticato di più, guadagnato un cachet modesto, e realizzato film migliori? Bisio, per dire, Ficarra e Picone, la stessa Litizzetto. O Luca Guadagnino.
Se i giornali sono tanto in crisi, cosa fanno per vincerla? O questa è la solita lamentela degli editori? I giornali escono per consentire agli editori di lamentarsi?
Perché i giornali non parlano di cosa realmente succede e non informano? Per che altro bisognerebbe comprarli?
Cosa ha trovato la dottoressa Boccassini nelle mutande di Brigandì?
E in quelle di Anna Maria Greco?
Che fine hanno fatto le firme per cacciare Berlusconi?
E il sorpasso del Tg 5 sul Tg 1?
E Berlusconi si caccia con le firme, seppure dei migliori, o con il voto?
Com’è possibile che ogni giorno ci sia in Italia una crisi politica? Che mette a rischio il governo. Trecentosessantacinque l’anno, milleottocento in una legislatura. E che fine fanno queste crisi?
Perché si lascia parlare tanto questo Vietti? Chi è, cosa ha fatto? È uno dei “migliori”? È possibile?
Com’è possibile che a Torino i cattolici sfidino Fassino alle primarie facendosi votare dai berlusconiani? Li pagano? Non sono anche i cattolici del Pd? O Fassino non va sfidato? E che cosa sono le primarie?
Perché per una settimana la Rai ci ha imposto “Manuale d’amore 3”? Un filmetto da ridere, non è nemmeno anti-Berlusconi. Da Fazio, nei tg ripetutamente, ora con De Niro, ora con la Bellucci, ora con Verdone, e perfino al festival di Sanremo, il programma più visto degli italiani. Una pubblicità strepitosa: la Rai si è fatta pagare? C’era di che risanare il disastrato bilancio.
E “Qualunquemente”? Che la Rai ha promosso senza le star, nonché senza merito. Forse perché sono due film dello stesso produttore?
È il produttore provvido? Di donne? Di coca? Di collaborazioni? E gli altri registi allora, e gli altri comici? Che magari hanno faticato di più, guadagnato un cachet modesto, e realizzato film migliori? Bisio, per dire, Ficarra e Picone, la stessa Litizzetto. O Luca Guadagnino.
La politica è una buona lingua – Berlusconi 6
Ascoltando Bersani, Franceschini e Rosy Bindi, Berlusconi “non esiste” più, deve solo andarsene. Ma se si votasse domani loro non avrebbero un candidato.
Questa politica è come l’intellettualità italiana: si parla addosso, fumando più che altro contro il Paese. È una chiave non minore, questa della lingua, e anzi significativa, dell’impasse italiano: è un’anomalia solo italiana, questa della divisione fra l’intellettualità, o élite, e le masse. E del disprezzo dell’intellettualità per le masse. La lingua ne è una conseguenza e uno specchio. Non innocente, giacchè il vangelo da tempo ammonisce contro l’orgolgio, come contro i linguaggi falsi e ipocriti.
In conseguenza di questa anomalia l’italiano è diventato doppio, eccessivo, parolibero, confuso, insignificante e abusato. L’avversario è automaticamente mafioso, ladro, fascista, come nulla fosse. Anche gli avversari di Fassino a Torino, nello stesso partito Democratico. O Giuliano Pisapia a Milano, che pure ha vinto le primarie ed è il candidato della sinistra a sindaco. Tutti sono sempre in guerra, in una battaglia all’ultimo sangue, in una faida. L’imprenditore è uguale al mafioso. Il governo è sempre un regime. Un indistinto in cui tutto incattivisce.
Una cosa del fenomeno Berlusconi si può già dire storicamente, che da troppo si evita: che Berlusconi ha stimolato un’adesione e ha un seguito. Anche tra molti che non lo votano – perché è volgarmente ricco, con tute le sue vile, è baüscia, è insopportabile giovanilista, atticciato, truccato, e altrettali. Mentre nessuno dei capi della sinistra ha un seguito di simpatia, tra chi pensa e vota a sinistra. E tutti suscitano antipatie, sempre a sinistra, anche dure: Prodi, D’Alema, Veltroni, Rosy Bindi, Vendola. Non è un fatto d’immagine, i guru dell’immagine non difettano – senza contare che Berlusconi sarà il re dei media ma ha pessima immagine, goffo, gonfio, innaturale. È la mancanza di coerenza – di lealtà.
Prevale, stanco, il “tanto peggio tanto meglio”. Che a lungo è stato il linguaggio della sovversione, e ora si rivela conservatore: la confusione e la virulenza no sono armi dell’opposizione ma del potere. È il principio di Archimede: perché cambiare? La confusione, alimentando l’incertezza, rafforza l’esistente. La confusione dei linguaggi è da sempre, da quando c’è la storia, l’arma della disinformazione, ossia della gestione delle notizie da parte del tiranno e dello sciamano.
Si può ben dire che l’impoverimento, o crisi, del linguaggio ha tarpato le ali alla democrazia in Italia. Ma con una distinta attribuzione di responsabilità. In bocca a funzionari di partito, sociologi e giornalisti la crisi del linguaggio non ha portato nuovi, più veri, significati, ma una selva d’insignificanze. Non si può insistere impunemente a dire gli italiani poveri, malati, disonesti e violenti – sesso con ridicole comparazioni oltralpe – quando la Repubblica è stata ed è il più grosso rivolgimento dalla caduta dell’impero romano, e l’Italia è uno dei paesi più ricchi e meglio organizzati al mondo. Alcuni fatti sono reali e incontestabili nell’irrealtà intellettuale.
Il linguaggio è stato ridotto a propaganda. Una camicia di forza. Ma di essa sono ora vittime i nominalisti che l’hanno costruita (“l’Unità”, e collaterali, U. Eco, “Micromega”…). Che si salvano costruendosi furbi modeste realtà: i giochi di parole, l’osteria del tempo che fu (o la cucina sintetica), il casale in Toscana, l’Inter di Moratti tutte stelle, il comico Albanese, la bellezza, la bruttezza, e il Medio Evo fantastico. Questa élite è quella di Artemidoro nel libro dei sogni, 36: “È impossibile non ci avenga quello, che il Re ha sognato. Se lo sogna anche il popolo minuto non diremo che ha mentito, ma che il sogno era falso”.
Questa politica è come l’intellettualità italiana: si parla addosso, fumando più che altro contro il Paese. È una chiave non minore, questa della lingua, e anzi significativa, dell’impasse italiano: è un’anomalia solo italiana, questa della divisione fra l’intellettualità, o élite, e le masse. E del disprezzo dell’intellettualità per le masse. La lingua ne è una conseguenza e uno specchio. Non innocente, giacchè il vangelo da tempo ammonisce contro l’orgolgio, come contro i linguaggi falsi e ipocriti.
In conseguenza di questa anomalia l’italiano è diventato doppio, eccessivo, parolibero, confuso, insignificante e abusato. L’avversario è automaticamente mafioso, ladro, fascista, come nulla fosse. Anche gli avversari di Fassino a Torino, nello stesso partito Democratico. O Giuliano Pisapia a Milano, che pure ha vinto le primarie ed è il candidato della sinistra a sindaco. Tutti sono sempre in guerra, in una battaglia all’ultimo sangue, in una faida. L’imprenditore è uguale al mafioso. Il governo è sempre un regime. Un indistinto in cui tutto incattivisce.
Una cosa del fenomeno Berlusconi si può già dire storicamente, che da troppo si evita: che Berlusconi ha stimolato un’adesione e ha un seguito. Anche tra molti che non lo votano – perché è volgarmente ricco, con tute le sue vile, è baüscia, è insopportabile giovanilista, atticciato, truccato, e altrettali. Mentre nessuno dei capi della sinistra ha un seguito di simpatia, tra chi pensa e vota a sinistra. E tutti suscitano antipatie, sempre a sinistra, anche dure: Prodi, D’Alema, Veltroni, Rosy Bindi, Vendola. Non è un fatto d’immagine, i guru dell’immagine non difettano – senza contare che Berlusconi sarà il re dei media ma ha pessima immagine, goffo, gonfio, innaturale. È la mancanza di coerenza – di lealtà.
Prevale, stanco, il “tanto peggio tanto meglio”. Che a lungo è stato il linguaggio della sovversione, e ora si rivela conservatore: la confusione e la virulenza no sono armi dell’opposizione ma del potere. È il principio di Archimede: perché cambiare? La confusione, alimentando l’incertezza, rafforza l’esistente. La confusione dei linguaggi è da sempre, da quando c’è la storia, l’arma della disinformazione, ossia della gestione delle notizie da parte del tiranno e dello sciamano.
Si può ben dire che l’impoverimento, o crisi, del linguaggio ha tarpato le ali alla democrazia in Italia. Ma con una distinta attribuzione di responsabilità. In bocca a funzionari di partito, sociologi e giornalisti la crisi del linguaggio non ha portato nuovi, più veri, significati, ma una selva d’insignificanze. Non si può insistere impunemente a dire gli italiani poveri, malati, disonesti e violenti – sesso con ridicole comparazioni oltralpe – quando la Repubblica è stata ed è il più grosso rivolgimento dalla caduta dell’impero romano, e l’Italia è uno dei paesi più ricchi e meglio organizzati al mondo. Alcuni fatti sono reali e incontestabili nell’irrealtà intellettuale.
Il linguaggio è stato ridotto a propaganda. Una camicia di forza. Ma di essa sono ora vittime i nominalisti che l’hanno costruita (“l’Unità”, e collaterali, U. Eco, “Micromega”…). Che si salvano costruendosi furbi modeste realtà: i giochi di parole, l’osteria del tempo che fu (o la cucina sintetica), il casale in Toscana, l’Inter di Moratti tutte stelle, il comico Albanese, la bellezza, la bruttezza, e il Medio Evo fantastico. Questa élite è quella di Artemidoro nel libro dei sogni, 36: “È impossibile non ci avenga quello, che il Re ha sognato. Se lo sogna anche il popolo minuto non diremo che ha mentito, ma che il sogno era falso”.
Ombre - 79
L’ex ambasciatore americano Spogli, noto per le costanti censure a Berlusconi, scrive al “Corriere della sera” oggi un panegirico dello stesso. Che ha fatto dell’Italia un “attore chiave sulla scena internazionale”. Precisando che ciò ha coinciso “con un periodo di intensa collaborazione tra Italia e Stati Uniti che si protrae fino ad oggi”, ben concretizzata “in termini di uomini, materiali e aiuti finanziari”. Ovunque l’America lo ha chiesto: “Dai Balcani, dal Libano, dall’intera area del Medio oriente fino in Iraq e Afghanistan”.
L’America vuole altri soldi, che l’Italia non ha, e soldati in Libia? E magari in Tunisia e in Egitto, altri paesi liberati? Con la messa a disposizione di Sigonella, certo, che Craxi non concesse nel 1986 per bombardare meglio Gheddafi - pagandola poi ben cara.
Non c’è uno scaffale terrorismo nelle Librerie Feltrinelli, così bene ordinate. C’è uno scaffale Lotta armata.
La Fiat nel 1976, prima di accettare l’ingresso dei libici nel capitale, peraltro a carissimo prezzo, chiese il sì della Ci, confida Cesare Romiti al “Corriere della sera”. Profumo ha ottenuto il buon prezzo ma senza il sì della Cia?
L’avvocato Berruti, uno dei tanti suoi avvocati che Berlusconi fa senatori, è stato condannato, assolto, ma inviso alla Cassazione di nuova processato, e ora ricondannato. Gli hanno fatto un processo speciale (stralcio) per condannarlo, l’imputato vero nel processo sarebbe Berlusconi.
Ma lo condannano senza condannarlo, può mantenere la dignità di parlamentare. I giudici non vogliono andare all’inferno: sanno che devono impedire al governo di governare, siano o no gli imputati colpevoli, ma fanno il minimo. O è la giustizia ambrosiana: tenere tutti sotto scacco.
“Berlusconi è malato peddavvero! Voleva tromba’ anche Rosibindi!” spara da un mese a largo Argentina la locandina del “Vernacoliere”, foglio livornese irriverente. E lei comincia a crederci. Vendola la candida a sfidare Berlusconi alle elezioni, e lei se la prende con chi critica il furbo levantino.
“È incinta la città”, scriveva il poeta Teognide all’amichetto, con un brivido: “Temo che partorisca, Cirno,\Uno che ci raddrizza la protervia”. A Milano questo rischio, malgrado l’indignazione popolare per le case pubbliche in comodato, non c’è: la Procura vigile ha deciso di non farne niente. Ma c’è sempre disagio nella città, quando le puttane fanno la morale.
Renzo Piano, archistar a Londra con la Scheggia di Cristallo, e il “Corriere della sera” inneggiano alla città verticale: “Non è più possibile allargarsi a macchia d’olio”, ammonisce Piano, “le città devono imparare a crescere al loro interno”. Ma a Milano l’architetto e il giornale chiedono novemila alberi, o novantamila, o novecentomila, e i grattacieli avversano come speculazione.
Ha tirato la corsa a Milano su tutti i fronti, il calcio compreso, ma ora Milano vuole escludere la squadra dallo scudetto e Napoli piange. Chi ha visto Chievo-Milan, o Inter-Cagliari non può che concordare: Milano non si preoccupa nemmeno di rubare gol e punti a viso scoperto. Mentre del Napoli si mettono fuori gioco Lavezzi e Cavani.
Ma Napoli non protesta, piange appunto.
“In tema d’innovazione (digitale) noi e l’Algeria tra gli ultimi del mondo”, titola il “Corriere della sera”. Senza paura di offendere l’Algeria, che si ritiene, come purtroppo è, un paese povero, con tutte le ragioni per invidiare l’Italia.
L’altro martedì Bersani va alla “Padania” e lancia una grande alleanza con Bossi per fare il federalismo fuori dal governo. L’altro giovedì dice Bossi e la Lega “una vergogna”.
Per chi non ha visto Benigni appassionato e commosso a Sanremo, il “Correre della sera” titola le ignare corrispondenze dei suoi inviati, due paginone, “Monologo di Benigni su Ruby” e “L’ironia su Bossi”. Non in malafede, è probabile: è sempre il giornale di Michele Mottola, il capo redattore che cinquant’anni fa, sessanta, si pregiava di trascurare “Lascia o raddoppia”. Perché se il “Corriere” non ne parlava gli italiani non avrebbero saputo di Mike Bongiorno. Milano è sempre esclusiva.
Milano scopre quello che questo sito riferiva come notorio tempo fa, che il Pio Albergo Trivulzio dà in comodato le case ad amici e potenti. Quando scoprirà lo stesso uso da parte delle banche? O la corruzione, se privata, è libera?
Nel filone del’abiezione non dovrebbe mancare il ritorno di Paolo Guzzanti da Berlusconi, che lo fece ricco, onorevole, e presidente di una commissione parlamentare di giustizia politica. Meritevole di archivio è l’intervista di Fabrizio Roncone, “Ancora con Silvio? In modo indiretto”, che la chiude con una sapiente citazione da “Mignottocrazia” dello stesso: “La mignottocrazia è un sistema basato sulla corruzione morale”. Merita una lettura, tanto è incredibile:
http://archiviostorico.corriere.it/2011/febbraio/18/Guzzanti_con_Responsabili_Ancora_con_co_8_110218024.shtml
Asor Rosa, l’architetto Cervellati e altri funzionari dell’ex Pci criticano un libro celebrativo di Italia Nostra su Antonio Cederna, quello del “sacco di Roma”. Subito Alessandra Mottola Delfino, presidente di Italia Nostra, ligia manda il libro al macero. Il centralismo democratico sopravvive come riflesso condizionato. Perfino come riflesso hitleriano.
L’America vuole altri soldi, che l’Italia non ha, e soldati in Libia? E magari in Tunisia e in Egitto, altri paesi liberati? Con la messa a disposizione di Sigonella, certo, che Craxi non concesse nel 1986 per bombardare meglio Gheddafi - pagandola poi ben cara.
Non c’è uno scaffale terrorismo nelle Librerie Feltrinelli, così bene ordinate. C’è uno scaffale Lotta armata.
La Fiat nel 1976, prima di accettare l’ingresso dei libici nel capitale, peraltro a carissimo prezzo, chiese il sì della Ci, confida Cesare Romiti al “Corriere della sera”. Profumo ha ottenuto il buon prezzo ma senza il sì della Cia?
L’avvocato Berruti, uno dei tanti suoi avvocati che Berlusconi fa senatori, è stato condannato, assolto, ma inviso alla Cassazione di nuova processato, e ora ricondannato. Gli hanno fatto un processo speciale (stralcio) per condannarlo, l’imputato vero nel processo sarebbe Berlusconi.
Ma lo condannano senza condannarlo, può mantenere la dignità di parlamentare. I giudici non vogliono andare all’inferno: sanno che devono impedire al governo di governare, siano o no gli imputati colpevoli, ma fanno il minimo. O è la giustizia ambrosiana: tenere tutti sotto scacco.
“Berlusconi è malato peddavvero! Voleva tromba’ anche Rosibindi!” spara da un mese a largo Argentina la locandina del “Vernacoliere”, foglio livornese irriverente. E lei comincia a crederci. Vendola la candida a sfidare Berlusconi alle elezioni, e lei se la prende con chi critica il furbo levantino.
“È incinta la città”, scriveva il poeta Teognide all’amichetto, con un brivido: “Temo che partorisca, Cirno,\Uno che ci raddrizza la protervia”. A Milano questo rischio, malgrado l’indignazione popolare per le case pubbliche in comodato, non c’è: la Procura vigile ha deciso di non farne niente. Ma c’è sempre disagio nella città, quando le puttane fanno la morale.
Renzo Piano, archistar a Londra con la Scheggia di Cristallo, e il “Corriere della sera” inneggiano alla città verticale: “Non è più possibile allargarsi a macchia d’olio”, ammonisce Piano, “le città devono imparare a crescere al loro interno”. Ma a Milano l’architetto e il giornale chiedono novemila alberi, o novantamila, o novecentomila, e i grattacieli avversano come speculazione.
Ha tirato la corsa a Milano su tutti i fronti, il calcio compreso, ma ora Milano vuole escludere la squadra dallo scudetto e Napoli piange. Chi ha visto Chievo-Milan, o Inter-Cagliari non può che concordare: Milano non si preoccupa nemmeno di rubare gol e punti a viso scoperto. Mentre del Napoli si mettono fuori gioco Lavezzi e Cavani.
Ma Napoli non protesta, piange appunto.
“In tema d’innovazione (digitale) noi e l’Algeria tra gli ultimi del mondo”, titola il “Corriere della sera”. Senza paura di offendere l’Algeria, che si ritiene, come purtroppo è, un paese povero, con tutte le ragioni per invidiare l’Italia.
L’altro martedì Bersani va alla “Padania” e lancia una grande alleanza con Bossi per fare il federalismo fuori dal governo. L’altro giovedì dice Bossi e la Lega “una vergogna”.
Per chi non ha visto Benigni appassionato e commosso a Sanremo, il “Correre della sera” titola le ignare corrispondenze dei suoi inviati, due paginone, “Monologo di Benigni su Ruby” e “L’ironia su Bossi”. Non in malafede, è probabile: è sempre il giornale di Michele Mottola, il capo redattore che cinquant’anni fa, sessanta, si pregiava di trascurare “Lascia o raddoppia”. Perché se il “Corriere” non ne parlava gli italiani non avrebbero saputo di Mike Bongiorno. Milano è sempre esclusiva.
Milano scopre quello che questo sito riferiva come notorio tempo fa, che il Pio Albergo Trivulzio dà in comodato le case ad amici e potenti. Quando scoprirà lo stesso uso da parte delle banche? O la corruzione, se privata, è libera?
Nel filone del’abiezione non dovrebbe mancare il ritorno di Paolo Guzzanti da Berlusconi, che lo fece ricco, onorevole, e presidente di una commissione parlamentare di giustizia politica. Meritevole di archivio è l’intervista di Fabrizio Roncone, “Ancora con Silvio? In modo indiretto”, che la chiude con una sapiente citazione da “Mignottocrazia” dello stesso: “La mignottocrazia è un sistema basato sulla corruzione morale”. Merita una lettura, tanto è incredibile:
http://archiviostorico.corriere.it/2011/febbraio/18/Guzzanti_con_Responsabili_Ancora_con_co_8_110218024.shtml
Asor Rosa, l’architetto Cervellati e altri funzionari dell’ex Pci criticano un libro celebrativo di Italia Nostra su Antonio Cederna, quello del “sacco di Roma”. Subito Alessandra Mottola Delfino, presidente di Italia Nostra, ligia manda il libro al macero. Il centralismo democratico sopravvive come riflesso condizionato. Perfino come riflesso hitleriano.
mercoledì 23 febbraio 2011
Letture - 54
letterautore
Baudelaire – L’estrema intelligenza, Sherlock Holmes direbbe l’intuizione, col sentimentalismo adolescente. Nella dipendenza dalla madre, anche sotto la forma di energiche amanti.
Freud – Edipo è in Hölderlin all’origine del “peccato infinito”, quello di “interpretare” senza fine, senza regola e senza accumulazione. Ben più persuasivo che volersi fare la mamma – è il “peccato infinito”, in piccolo, pure del freudismo: interpretarsi senza costrutto.
Intellettuale – Il poeta, lo scrittore, l’artista, ma anche lo storico e il filosofo, l’intellettuale in genere parla prolisso e concitato, in pubblico. Come se avesse sempre molto altro da dire. L’uomo d’azione, imprenditore, tecnico, è misurato: risponde alle domande, resta in tema. Poiché la formazione è mediamente dello stesso livello nei due casi, da che discende l’ansia dell’intellettuale, il cui mestiere peraltro è di usare le parole? Dalla solitudine? Dall’inafferrabilità del successo critico, l’unico suo riscontro e metro? Dall’ambizione sterminata – l’intellettuale punta al genio?
Italiano - È appestato, nel Novecento e nel Millennio, da alcune forme vuote, persistenti:
- enfasi: i titoli pomposi della bellicosità fascista (ritmi, assonanze, figure retoriche) permangono nei giornali (“l’Unità”, “Repubblica”) dell’ex Pci e nella pubblicistica collegata, pur nella modesta Italia repubblicana;
- burocratismo: esemplare G.C.Ferretti sulla (mancata) pubblicazione del “Gattopardo”, con le “responsabilità”, l’“io l’avevo detto”, l’“io non volevo dire”;
- notabilato: lirismo soffuso, allusione, erudizione, elzevirisimo, linguaggio di gruppo o casta, i Grandi Sistemi dell’Acqua Calda.
L’Italia operosa e inventiva non ha buttato definitivamente via, neanch’essa, queste espressioni. È il problema della cultura, che a essa sopravvive, emarginata. Auto emarginata: l’insolenza è grande della società intellettuale, o dei belli-e-buoni, nei confronti del Paese, anche se sempre più ignorante, ridotta alle comparazioni con le proprie vacanze intelligenti (sa più della Libia un trivellatore ai pozzi di petrolio che i tanti scienziati politici che si esibiscono ai talk show). Non c’è raccordo fra il Paese e la sua cultura, quella contemporanea.
La letteratura è un piacere, seppure solitario. In Italia è una sofferenza – o un’occupazione senile. L’italiano al suo meglio, nella cura letteraria, è una forma di ostilità permanente. Non da ora: è sempre stato tempo di “esplosioni” del linguaggio in Italia, in tutte le epoche. Non è spirito d’avanguardia, d’innovazione (stilistica, critica, espressiva). Non è sfiducia nel linguaggio. Non è nemmeno il desiderio banale di novità. È un atteggiamento mentale di generica irrisione, senza un’effettiva voglia di raccontare, rappresentare, esprimere – con pochissime eccezioni fra i quasi contemporanei: i siciliani e Moravia. E poiché è un vizio che si accompagna ad altre manifestazioni senili, il clan, la protervia, la paranoia, il cinismo equalizzatore (Pitigrili è Dante, Oscaldo Soriano è Hammett o Faulkner), ecco perché il senso il stantio e di vecchio in una letteratura che pure è piena di artifici. Anche il celebrazionismo, il culto dei morti, è espressione della stessa tendenza. E la disattenzione dei critici, incapaci ormai più di leggere, perché ogni curiosità è spenta. O è spento ogni motivo di curiosità, che è la stessa cosa. Per la caduta del Muro (delle ideologie)?
Kafka – Ha una sola lettura, quella di Max Brod. Mentre ha anche una distinta vena comica.
Libro- È lettura, lo stesso libro è diverso a ogni lettura. È una mostra di parole, volatile all’occhio della mente.
Non è un maestro, dice Borges ne “Il culto dei libri”, perché “il maestro scegli il discepolo, ma il libro non sceglie i suoi lettori”.
Lingua - È la memoria e la vera storia. Ma è diversificata, nel tempo e diacronicamente, per zona geografica o urbana, per ceto o istruzione, per età, per genere, e irriducibile. Ha sempre bisogno del vocabolario – non ci sono parole che definiscano se stesse con immediatezza, senza mediazioni – e i vocabolari sono diversi l’uno dall’altro. Anche la traduzione non è meno arbitraria della lettura – è una componente della scrittura: si può fare con comodi dizionari, ma anch’essi diversi l’uno dall’altro.
È, nella frammentazione, persistente: muta con estrema lentezza. Secondo Pasolini per una furba mimesi dei comportamenti-eventi. È invece l’evento più restio a modernizzarsi (sradicarsi). L’innovazione può essere filologica, morfologica, sintattica anche, ma difficilmente linguistica. La lingua si accompagna alla forma mentis, il cui asse costitutivo ha radici centenarie e tronco solido benché fantasmatico.
L’Ordine di Malta aveva organizzato l’isola secondo le Lingue: Lingua d’Italia, Lingua di Francia, Lingua di Castiglia, etc. Il cosmopolitismo supera la Babele se si fonda su di essa.
La comunità di linguaggio del meridionale con gli arabi e gli africani, malgrado la non conoscenza delle rispettive lingue. Meglio di qualsiasi altro straniero non meridionale che abbia risieduto a lungo in Africa e Medio Oriente e ne parli le lingue. L’incomunicabilità invece del Sud con molte province italiane del Nord.
Il caso degli italiani d’America – De Niro può dire: “Il mio italiano non è quello che parlate voi”. Copola riesce a farli parlare nel “Padrino” con accenti locali più che regionali, e con inflessioni diverse per i diversi paesi di origine, che ne denotano anche i caratteri. Il caso degli Hutterer, e delle altre comunità tedesche sparse nel Settecento per l’Europa e le Americhe: non parlano la lingua ma pensano ancore tedesco. Le comunità sradicate mantengono più a lungo, e spesso conservano musealmente, le forme espressive d’origine, che sul tronco principale sono nel frattempo evolute.
Th. Mann - Esteta e opportunista. Per i fatti evidenti della biografia. Che sono ininfluenti, certo, nella valutazione dell’opera, ma nel suo caso si riflettono nella scrittura, per questo algida. L’eccesso (la “peste”, o contagio, l’incesto, l’omosessualità) è tema del tempo, si giustifica in un opportunismo “sano”, di appartenenza al tempo. Ma la duplice natura ch’egli assume del tedesco, fra Est e Ovest, o l’irriverenza antpp0isemita, sono delle irritazioni o sofferenze posticce per uno che è in tutto un occidentale, e ha sposato donna ebrea, con la quale ha fatto molti figli. Sono dei drammi freddi.
La duplice natura è anche la ricerca di un peccato originale tedesco, una scusante cioè, un errore della storia. Meglio (onesto, simpatico) sarebbe stato un nazionalismo dichiarato.
Romanticismo - È femminile. Il personaggio è femminile, fino a Bovary e Tosca, con contorno d’imbecilli. Anche se gli scrittori sono in prevalenza uomini. Anche se romantici in senso corrente sono gli uomini e non le donne: quanto del sentimentalismo va al ruolo del cacciatore, e quanto all’insicurezza della preda? Si ama l’amore, e il cacciatore si riempie di se stesso, del proprio impeto, mentre la preda riflette, calcola, elabora tattiche e strategie
L’idea romantica della donne è opera tarda di donne (d’Aulnoy, Lafayette), i pastiches cavallereschi, e anche quelli dei trovatori, sono molto porno. E di testa: di donne francesi, d’esprit.
Quale differenza tra i film “nouvelle vague” e “La Traviata”, posto sia in questa che in quelli manca un’ironica intenzione, un’estraniazione anche minima?
Pianto – Gli uomini piangono molto nell’“Iliade”. E anche nell’“Odissea”. Poi non più.
Pirandello – Ha la biografia più interessante, ma meno frequentata: la successione di nevrosi familiari, compreso l’ultimo amore “virginale” con Marta Abba, tirannica, lo sradicamento, tra la Sicilia e la Germania, gli studi in Germania, la fama.
Sade – Sono gli scritti che ne hanno reso la vita provinciale, e i pochi ridicoli incidenti occorsigli, un misfatto e uno scandalo. Era invece conservatore, quindi convenzionale. Scrive per accumulo: non per convincere o ma per nauseare. È vero che la pornografia è ripetitiva. Ma lo è in quanto è cattiva scrittura, come di ogni altro genere di consumo, è rigaggio. Mentre Sade non scriveva per il consumo. È, vuole essere, “cattivo scrittore” perché usa la pornografia come un grido di sarcasmo e una clava.
Il moralismo è, nella lubricità, fortissimo. Non è sbagliato vedere nella “Philosophie dans le boudoir” (Donald Thomas, “The Marquis of Sade”, 130-131) una parodia della “Repubblica” di Platone e una satira della religione della Natura di Robespierre. Ma è anche l’illuminista più radicale, quindi il più conseguente filosofo della natura, nelle opere e nel poema “La vérité”: una natura che tutto consente, anche i delitti.
letterautore@antiit.eu
Il Buonannulla a fronte dell’Italia che non c’è
Uno svelto racconto d’amore a suspense, su un ragazzo violinista da strapazzo, Perdigiorno o Buonannulla, famoso per essersi meritato alcune pagine dell’“Impolitico” di Thomas Mann quale prototipo del popolare spontaneo (“È la purezza del canto popolare e della favola, sana, senza nulla di eccentrico. Ha l’ingenuità e l’umanità di certe figure come i fanciulli boscherecci di Wagner, l’eroe dei libri della giungla e Kaspar Hauser…”). Che si contrabbanda come viaggio in Italia, anche se l’Italia vi é solo uno sfondo. L’unica Italia vi figura la tarantella: “Se la tarantola lo morde”, dice il Portiere mentore del Perdigiorno, in Italia uno “diventa di colpo ballerino, agilissimo, anche se non ha mani saputo ballare prima”. Ma non senza ragione: il racconto, scritto in lingua semplice, si presta come in questa edizione alla traduzione con testo originale a fronte, a uso degli studenti di tedesco. Uno sdebita mento nei confronti del barone von Eichendorff, che da ragazzo studiò l’italiano e vi tentò anche una traduzione del primo “Meister”.
Con un curioso effetto: le due lingue a fronte hanno corpo e andatura contrapposte. Il tedesco di Eichendorff sembra di oggi. L’italiano della traduttrice Lydia Magliano, probabilmente quello della prima edizione Bur, 1960, quindi di cinquant’anni fa, è antiquato. Nei lessemi, “menar la battola”, “quel che viene di ruffa in raffa se ne va di buffa in baffa”, e nella costruzione, che è svelta e ritmata ma non risponde all’originale.
Joseph von Eichendorff, Vita di un perdigiorno, Bur, pp.281, € 8,60
martedì 22 febbraio 2011
La rivolta in Libia era un colpo di Stato
La rivolta di piazza in Libia, molto ritardata rispetto alla sollevazione delle popolazioni arabe dopo la “protesta del pane” a Tunisi, e limitata, si è innestata su un colpo di Stato, preparato da tempo da militari, alti funzionari e diplomatici in dissenso col regime. E con la collaborazione, se non è stata iniziativa, di servizi segreti stranieri, probabilmente inglesi. La presa del potere sarebbe fallita però a Tripoli, dopo essere riuscita a Bengasi, malgrado i rivoltosi avessero già occupato alcune sedi importanti del potere nella capitale. L’ordine di usare le forze armate per la repressione e di colpire senza limitazioni sarebbe venuta da Gheddafi quando, dopo la rivolta apparentemente spontanea di Bengasi, i capi della cospirazione si sono manifestati a Tripoli. La ex Cirenaica, attorno a Bengasi e Tobruk, è ora off limits perché in mano a militari ribelli.
È questa la valutazione più certa che le diplomazie si danno degli scontri cruenti nel paese nordafricano. C’era il sentore che i dissensi all’interno del regime nei confronti di Gheddafi si fossero acuiti e organizzati da almeno quattro mesi. Con la collaborazione, se non su istigazione, dei servizi segreti inglesi, su indicazione del nuovo governo conseervatore, con base operativa a Malta.
Da allora le missioni di cooperazione sono state diradate o rinviate. Nuove iniziative sono state rallentate o scoraggiate. Le stesse aziende che hanno personale in Libia se ne sarebbero rese avvertite, e hano tenuto il personale al minimo. Mentre Gheddafi avrebbe seguito la sua politica tradizionale di lasciare gli avversari manifestarsi. L’ampiezza e la determinazione dell’opposizione, unite alle manifestazioni dei giovani, non gli avrebbe però consentito il metodo tradizionale della prevenzione, seppure con mano dura.
L’abbandono della Libia da parte di alcuni ufficiali dell’esercito e della marina sarebbe la conseguenza del mancato rovesciamento di Gheddafi a Tripoli. Anche se l’opposizione non si dà per vinta. Materiale propagandistico che era stato già distribuito alle grandi agenzie di stampa internazionali è stato da queste ritirato o abbandonato.
La guerra delle immagini farebbe parte del contorno internazionale del golpe. Il coinvolgimento dei servizi britannici, seppure c’è o c’è stato, avrebbe una lunga tradizione. Gli agenti britannici da sempre considerano la Libia campo di esercitazione: dopo aver creato re Idris nel dopoguerra, lo hanno sostituito con Gheddafi, da loro istruito a Sandhurst, nel 1969, e contro Gheddafi, nazionalista e nazionalizzatore, hanno tentato due anni dopo di montare una sollevazione a partire dall’Egitto di Sadat, con avamposto Bengasi, sotto l’egida del Principe Nero, il figlio di Idris - Principe Nero è un personaggio di Conan Doyle, nonché figlio di Edoardo III, il re d’Inghilterra che si disse re di Francia, e per lui scatenò la guerra dei Cent’Anni, vincendo a Poitiers. Nel 1971 le armi e i mercenari del golpe furono bloccati, si disse, a Trieste, dal generale Miceli, capo del Sid, su disposizione dell’onorevole Moro, ministro degli Esteri. Il ritorno dei conservatori al governo a Londra avrebbe riattivato i servizi britannici nel Medio Oriente - oltre che in Libia, anche nell’Oman e a Bahrein.
È questa la valutazione più certa che le diplomazie si danno degli scontri cruenti nel paese nordafricano. C’era il sentore che i dissensi all’interno del regime nei confronti di Gheddafi si fossero acuiti e organizzati da almeno quattro mesi. Con la collaborazione, se non su istigazione, dei servizi segreti inglesi, su indicazione del nuovo governo conseervatore, con base operativa a Malta.
Da allora le missioni di cooperazione sono state diradate o rinviate. Nuove iniziative sono state rallentate o scoraggiate. Le stesse aziende che hanno personale in Libia se ne sarebbero rese avvertite, e hano tenuto il personale al minimo. Mentre Gheddafi avrebbe seguito la sua politica tradizionale di lasciare gli avversari manifestarsi. L’ampiezza e la determinazione dell’opposizione, unite alle manifestazioni dei giovani, non gli avrebbe però consentito il metodo tradizionale della prevenzione, seppure con mano dura.
L’abbandono della Libia da parte di alcuni ufficiali dell’esercito e della marina sarebbe la conseguenza del mancato rovesciamento di Gheddafi a Tripoli. Anche se l’opposizione non si dà per vinta. Materiale propagandistico che era stato già distribuito alle grandi agenzie di stampa internazionali è stato da queste ritirato o abbandonato.
La guerra delle immagini farebbe parte del contorno internazionale del golpe. Il coinvolgimento dei servizi britannici, seppure c’è o c’è stato, avrebbe una lunga tradizione. Gli agenti britannici da sempre considerano la Libia campo di esercitazione: dopo aver creato re Idris nel dopoguerra, lo hanno sostituito con Gheddafi, da loro istruito a Sandhurst, nel 1969, e contro Gheddafi, nazionalista e nazionalizzatore, hanno tentato due anni dopo di montare una sollevazione a partire dall’Egitto di Sadat, con avamposto Bengasi, sotto l’egida del Principe Nero, il figlio di Idris - Principe Nero è un personaggio di Conan Doyle, nonché figlio di Edoardo III, il re d’Inghilterra che si disse re di Francia, e per lui scatenò la guerra dei Cent’Anni, vincendo a Poitiers. Nel 1971 le armi e i mercenari del golpe furono bloccati, si disse, a Trieste, dal generale Miceli, capo del Sid, su disposizione dell’onorevole Moro, ministro degli Esteri. Il ritorno dei conservatori al governo a Londra avrebbe riattivato i servizi britannici nel Medio Oriente - oltre che in Libia, anche nell’Oman e a Bahrein.
I giorni della merda
Ci sono i giorni vuoti, che si riempiono con la lettura dei giornali. Un sabato, per esempio, una domenica, capita anche a Roma d’inverno che piova. Ma da qualche tempo senza scampo. Il sito del “Corriere della sera” invita a scaricare il video settimanale di Novella Duemila che dà Belen preferita alla Canalis,(http://video.corriere.it/belen-scavalca-canalis/509ad882-3462-11e0-89a3-00144f486ba6). Sul sito della “Stampa” (http://multimedia.lastampa.it/multimedia/in-italia/lstp/19483/) sono disponibili 19 foto di Sara Tommasi: una vestita da infermiera, una a tette all’aria, una versione segretaria, una in cui lecca ammiccando una paletta sporca di gelato, una in cui dà un bacio lesbico a una bionda, etc. – ma senza le tariffe, almeno non c’è il sospetto di lenocinio. “Repubblica per San Valentino prospetta l’applicazione Love Vibes per Iphone, che consente di ricevere un giudizio sulla propria prestazione amorosa (http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/02/07/news/app_san_valentino-12166419/?ref=HRERO-3) - in aggiunta alla prossima fine del mondo cui il quotidiano indulge, non s’è capito ancora se per l’umidità o per la desertificazione (forse per tutt’e due?). Sul “Manifesto” Christian Raimo, che riferisce desolato di queste letture, viene così beccato dal primo lettore: “Penso che la tua analisi sia furbetta, retorica e qualunquista”. Sullo stesso “Manifesto” peraltro lo storico Banti critica un Benigni nazionalista che lui solo ha visto a Sanremo. Benigni che tra l’altro ha dato del Risorgimento una lettura internazionalista che molto deve a Banti: il Risorgimento come evento europeo, centrale alla storia dell’Ottocento, e anche l’unico evento rivoluzionario, dell’Ottocento e forse anche del Settecento e del Novecento, senza controindicazioni. Si può capire che il comico sia antipatico al professore (sia diventato: a Banti piaceva al tempo dell’inguardabile “Berlinguer ti vogliono bene”). Ma si è limitato a chiedere un piccolo sussulto di orgoglio italiano. Non contro nessuno, ma per un giusto equilibrio, con l’orgoglio francese o britannico, per dire, che non è mai venuto meno, o con quello rinascente tedesco – il nazionalismo si alimenta negli squilibri e li alimenta (Banti, che ne è studioso, lo sa benissimo).
I giorni della merla, che a fine gennaio presagiscono la primavera, quest’anno sono stati belli. E quando sono belli la primavera è brutta. Si può capire che quest’anno il preannuncio sia così triste, anzi depressivo. Ma il troppo è troppo. Ci vogliamo allievi di Marx, Nietzsche e Freud, la scuola del sospetto, siamo cioè nati “imparati”, ma i tre sono morti nell’Ottocento – anche Freud, è un uomo dell’Ottocento. Ma soprattutto ci vogliamo alternativi. Divertiti cioè, e divertenti. Anticonformisti. Beffardi semmai ma non ipocriti. E non cupi, depressivi – quelli erano i terroristi. “Il Fatto Quotidiano” online ha ventuno blog, su ventotto, contro Berlusconi, oggi come un altro giorno. Più diciassette, tra articoli e brevi, sul giornale, sempre su Berlusconi. Che divertimento è rimestare la merda? Mentre scoppia la Libia, che è nostro vicino, con tutto il petrolio, che già paghiamo un euro e mezzo al litro, a poche ore di gommone. O è l’odio introspettivo, che è tossico.
I giorni della merla, che a fine gennaio presagiscono la primavera, quest’anno sono stati belli. E quando sono belli la primavera è brutta. Si può capire che quest’anno il preannuncio sia così triste, anzi depressivo. Ma il troppo è troppo. Ci vogliamo allievi di Marx, Nietzsche e Freud, la scuola del sospetto, siamo cioè nati “imparati”, ma i tre sono morti nell’Ottocento – anche Freud, è un uomo dell’Ottocento. Ma soprattutto ci vogliamo alternativi. Divertiti cioè, e divertenti. Anticonformisti. Beffardi semmai ma non ipocriti. E non cupi, depressivi – quelli erano i terroristi. “Il Fatto Quotidiano” online ha ventuno blog, su ventotto, contro Berlusconi, oggi come un altro giorno. Più diciassette, tra articoli e brevi, sul giornale, sempre su Berlusconi. Che divertimento è rimestare la merda? Mentre scoppia la Libia, che è nostro vicino, con tutto il petrolio, che già paghiamo un euro e mezzo al litro, a poche ore di gommone. O è l’odio introspettivo, che è tossico.
Della Valle si apre il ritiro
Cosa vuole Della Valle? L’opinione è abbastanza concorde che ha cercato molta visibilità, con applicazione, ma con progetti impossibili: diventare padrone del “Corriere della sera”, gestire le Generali. Con progetti cioè che lui stesso sa essere impossibili. In ambienti che rifuggono dalla eccessiva esposizione e dalle polemiche. L’unica spiegazione che se ne dà è che voglia uscire dai due investimenti, e che quindi si prepari una ritirata onorevole. Allo stesso modo come ha preparato l’abbandono di Firenze, un investimento che, senza la contropartita del progetto immobiliare a Castello, è solo in perdita.
Sulla Rcs-Corriere della sera la chiusura è totale. La proprietà si vuole diffusa e indivisa, senza azionisti di riferimento – cioè “padroni”. Della Valle è per di più sospettato di agire in sintonia con l’editore-immobiliarista romano Caltagirone, il proprietario della terza maggiore cordata di quotidiani, dopo la stessa Rcs e il gruppo di “Repubblica”.
Su Generali Della Valle ha vantato accordi con Perissinotto – sul “Financial Times” si è accreditato come l’interlocutore stabile del general manager, col suo yacht ex rompighiaccio ormeggiato stabilmente a Trieste davanti al palazzo del Leone. L’ipotesi è che Perissinotto se ne possa servire in consiglio per tenere a bada il presidente Geronzi. Ma non più di tanto: non venderà la quota Rcs in portafoglio a Generali, e limiterà, una volta smaltito l’effetto Geronzi, i contatti - è quello che si può definire “modello Generali”, sperimentato dallo stesso Perissinotto nei lunghi anni della presidenza Bernheim.
C’è comunque uno stile Generali, puntato sul business e sulla riservatezza, che Perissinotto conosce per esserci cresciuto dentro. Tutto l’opposto delle indiscrezioni e del gossip, cui Della Valle all’improvviso ha voluto indulgere, dopo anni di discrezione. Le sue ultime uscite, su Dagospia e contro Vianello, il consulente all’immagine di Geronzi, hanno avuto l’effetto – non voluto? – di isolarlo. Questo non sembra, va contro le apparenze: Della Valle continua a parlare per conto di Perissinotto. Ma fino a quando? Perissinotto sa che non si posssono gestire Generali con le polemiche.
È peraltro vero che Della Valle senza Perissinotto non esiste. L’uomo azienda di Generali ha sottoscritto un 15 per cento della Ntv, la società ferroviaria di Della Valle che dovrebbe partire a fine anno. Non la quota più importante (Intesa e le ferrovie francesi sono impegnate per un 20 per l’una), ma una condizionante: non sarà agevole per Perissinotto giustificare l’investimento. Che richiede un esborso iniziale consistente, dovendosi pagare 25 supertreni.
Sulla Rcs-Corriere della sera la chiusura è totale. La proprietà si vuole diffusa e indivisa, senza azionisti di riferimento – cioè “padroni”. Della Valle è per di più sospettato di agire in sintonia con l’editore-immobiliarista romano Caltagirone, il proprietario della terza maggiore cordata di quotidiani, dopo la stessa Rcs e il gruppo di “Repubblica”.
Su Generali Della Valle ha vantato accordi con Perissinotto – sul “Financial Times” si è accreditato come l’interlocutore stabile del general manager, col suo yacht ex rompighiaccio ormeggiato stabilmente a Trieste davanti al palazzo del Leone. L’ipotesi è che Perissinotto se ne possa servire in consiglio per tenere a bada il presidente Geronzi. Ma non più di tanto: non venderà la quota Rcs in portafoglio a Generali, e limiterà, una volta smaltito l’effetto Geronzi, i contatti - è quello che si può definire “modello Generali”, sperimentato dallo stesso Perissinotto nei lunghi anni della presidenza Bernheim.
C’è comunque uno stile Generali, puntato sul business e sulla riservatezza, che Perissinotto conosce per esserci cresciuto dentro. Tutto l’opposto delle indiscrezioni e del gossip, cui Della Valle all’improvviso ha voluto indulgere, dopo anni di discrezione. Le sue ultime uscite, su Dagospia e contro Vianello, il consulente all’immagine di Geronzi, hanno avuto l’effetto – non voluto? – di isolarlo. Questo non sembra, va contro le apparenze: Della Valle continua a parlare per conto di Perissinotto. Ma fino a quando? Perissinotto sa che non si posssono gestire Generali con le polemiche.
È peraltro vero che Della Valle senza Perissinotto non esiste. L’uomo azienda di Generali ha sottoscritto un 15 per cento della Ntv, la società ferroviaria di Della Valle che dovrebbe partire a fine anno. Non la quota più importante (Intesa e le ferrovie francesi sono impegnate per un 20 per l’una), ma una condizionante: non sarà agevole per Perissinotto giustificare l’investimento. Che richiede un esborso iniziale consistente, dovendosi pagare 25 supertreni.
L’Inferno di Apollinaire è nelle Procure
Un Apollinaire che curasse oggi una collana di “Opere libere” non s’infognerebbe all’“Inferno” della Biblioteca Nazionale, lo scaffale dei libri proibiti ai minori, di cui il Poeta si prestò a fare il censimento. Andrebbe a palazzo di Giustizia. A uno qualsiasi, di Bari come di Milano, di Trani, o di Napoli. Alla Procura della Repubblica, che in genere ha l’ufficio migliore. Ma senza nemmeno spostarsi col sedere, giusto sfogliando i giornali o guardando la televisione, a qualsiasi ora, in qualsiasi programma. Resoconti troverebbe pronti dei tentativi di scopate di un povero ricco signore, abbandonato dalla moglie e vessato dalle amanti, che lui vede in figura di angeli e madonne, con escort dalle labbra avide e mai sazie, ma di denaro e di scandalo, che “fa bene al culo”, diceva Arletty, frigide, rifatte, impomatate, gastropatiche. Sempre gli stessi, ma la pornografia è ripetitiva.
Testi anonimi ma, è qui il sale delle pubblicazioni, attribuibili a magistratesse morigerate. Che, contro le loro intenzioni evidentemente, le labbra nella smorfia del disgusto, l’occhio violento della legge, implacabili dispensano invettivando colpi di frusta. Ce n’è per quattrocento pagine nella citazione del satiro Berlusconi. Per trenta nella sentenza della dottoressa Di Cento, che si presenta da brava bambina. E l’attesa non andrà delusa delle tre dame già sperimentate contro Berlusconi – che hanno a loro volta frugato Corona, ma non gli hanno trovato l’arma. Anche la storia di Corona con Lele Mora, che una delle tre giudici ha ricostruito, non è male. E quella di Corona con Belen Rodriguez, che a Sanremo è diventata la fidanzata di quindici milioni di italiani, e di italiane? Le intercettazioni sicuramente non mancheranno.
Testi anonimi ma, è qui il sale delle pubblicazioni, attribuibili a magistratesse morigerate. Che, contro le loro intenzioni evidentemente, le labbra nella smorfia del disgusto, l’occhio violento della legge, implacabili dispensano invettivando colpi di frusta. Ce n’è per quattrocento pagine nella citazione del satiro Berlusconi. Per trenta nella sentenza della dottoressa Di Cento, che si presenta da brava bambina. E l’attesa non andrà delusa delle tre dame già sperimentate contro Berlusconi – che hanno a loro volta frugato Corona, ma non gli hanno trovato l’arma. Anche la storia di Corona con Lele Mora, che una delle tre giudici ha ricostruito, non è male. E quella di Corona con Belen Rodriguez, che a Sanremo è diventata la fidanzata di quindici milioni di italiani, e di italiane? Le intercettazioni sicuramente non mancheranno.
lunedì 21 febbraio 2011
Case casini a Milano
La domanda che tutti si pongono è perché si pubblicano gli affittuari di comodo del Pio Albergo e del Policlinico e non quelli delle banche? La risposta possibile è che l’interesse pubblico in atto privato non è reato. Ma è dato per scontato che, “privatamente”, la corruzione sia di migliaia e non di centinaia di casi. La città è turbata, le case a Milano sono casini. Aperte o chiuse, è uguale: se si tocca la casa l’indignazione sale sicura. Come già vent’anni fa col Pio Albergo Triulzio, il maggior immobiliarista della città, così ora, sempre col Pio Albergo. Ma con alcune differenze.
Nel giorno in cui Berlusconi veniva rinviato a giudizio la città si appassionava sopratutto ai primi nomi dei signori che avevano avuto le case del pio Albergo, le migliori, ad affitti da poveri. Subito centri sociali e gruppi spontanei hanno manifestato, oscurando il “fiume di donne in piazza” contro Berlusconi. Ma né il “Corriere”, forse obnubilato da questi “fiumi”, né “Repubblica ritenevano la notizia degna. Rimediavano dopo qualche giorno. Dopo la protesta degli altri immobiliaristi, per la concorrenza sleale del Pio Albergo.
Non è interessata neppure la Procura della Repubblica di Milano. La vicenda è stata sollevata dalla Guardia di finanza, con la Corte dei conti. La Procura di Milano ha aspettato una settimana, e ora fa sapere di “avere aperto un fascicolo”. Stancamente, senza nemmeno, specifica, un indiziato di reato, e senza alcun atto istruttorio, giusto per la voce pubblica.
Non si può dire che “Corriere”, “Repubblica” e Procura siano “comunisti”, come vorrebbe Berlusconi. Una volta deciso che la notizia c’era, tutta la colpa è stata infatti riversata su Giuliano Pisapia. Che non c’entra col Pio Albergo. Ma è colpevole di avere vinto le primarie per la candidatura a sindaco del centro-sinistra, contro il candidato del partito Democratico. Gli indignati diventano strumenti di una vendetta politica, non tanto larvata. Il regime è ancora al centralismo dmocratico, anche se non si può dire – non si possono dire Bruti Liberati e Boccassini soggetti al Pd, anzi a una frazione del Partito, quella ex piccina-diessina.
Nel giorno in cui Berlusconi veniva rinviato a giudizio la città si appassionava sopratutto ai primi nomi dei signori che avevano avuto le case del pio Albergo, le migliori, ad affitti da poveri. Subito centri sociali e gruppi spontanei hanno manifestato, oscurando il “fiume di donne in piazza” contro Berlusconi. Ma né il “Corriere”, forse obnubilato da questi “fiumi”, né “Repubblica ritenevano la notizia degna. Rimediavano dopo qualche giorno. Dopo la protesta degli altri immobiliaristi, per la concorrenza sleale del Pio Albergo.
Non è interessata neppure la Procura della Repubblica di Milano. La vicenda è stata sollevata dalla Guardia di finanza, con la Corte dei conti. La Procura di Milano ha aspettato una settimana, e ora fa sapere di “avere aperto un fascicolo”. Stancamente, senza nemmeno, specifica, un indiziato di reato, e senza alcun atto istruttorio, giusto per la voce pubblica.
Non si può dire che “Corriere”, “Repubblica” e Procura siano “comunisti”, come vorrebbe Berlusconi. Una volta deciso che la notizia c’era, tutta la colpa è stata infatti riversata su Giuliano Pisapia. Che non c’entra col Pio Albergo. Ma è colpevole di avere vinto le primarie per la candidatura a sindaco del centro-sinistra, contro il candidato del partito Democratico. Gli indignati diventano strumenti di una vendetta politica, non tanto larvata. Il regime è ancora al centralismo dmocratico, anche se non si può dire – non si possono dire Bruti Liberati e Boccassini soggetti al Pd, anzi a una frazione del Partito, quella ex piccina-diessina.
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (81)
Giuseppe Leuzzi
Antimafia
Figli e sorelle gestiscono la memoria dei martiri della mafia in modo che avrebbe indignato i morti, Costa, Falcone, Borsellino. Gestiscono è la parola giusta.
Non si celebra-ricorda Rocco Chinnici, il Procuratore Capo dei grandi processi, dai quali la mafia ancora non si è ripresa. Perché non amava, e anzi criticava, i sostituti politicanti, Scarpinato e Lo Forte – che poi effettivamente insabbieranno l’antimafia nell’antipolitica (democristianamente, anzi pretescamente)?
La giustizia politica è sempre abominevole. Applicata alla mafia invita alla violenza: è insopportabile.
Sicilia
Giovanni, il figlio secondogenito del principe Salina, fuoriesce dalla storia andandosene a Londra, andandosene a lavorare. Basta poco per perdere le stigmate: la sicilianità, il principato, il gattopardismo.
Le Cocalidi, le siciliane figlie del re Cocalo, per farsi Dedalo, che era intelligente e bello, invitarono Minosse con loro nel bagno, e lì stesso lo bollirono. Per godere le cocalidi normalmente preferivano un capro, che dicevano Dio. Le figlie di re sono terribili. Le Danaidi, le cinquanta figlie di Danao, quarantanove di esse, uccisero a pugnalate la notte delle nozze i quarantanove cugini loro mariti, ne recisero le teste, e le gettarono nel Lerna.
Le siciliane sono bionde con gli occhi trasparenti, più normanne che arabe, quando si farà il conto all’anagrafe bisognerà cambiarne l’immagine. Anche i siciliani, che sono più alti e robusti che piccoli, l’industria delle confezioni lo sa - anche se molti sono lombardi e piemontesi. Verga era di pelo rosso. Sono di occhio cinerino in realtà e non glauco, su fondo verde e non azzurro.
L’eredità può anche essere vandala, chissà, non hanno lasciato immagini. O greca della Ionia, quello è il colore dello Ionio, Omero si sbagliava.
È vezzo costante in Sicilia, dall’ultimo dei cronisti a Sciascia, addebitarsi, oltre che la mafia e il nepotismo, le peggiori nefandezze in ogni campo. Nell’urbanistica, per esempio, nella protezione ambientale, nella conservazione del patrimonio – storico, culturale, artistico. E nei rapporti familiari, in quelli di vicinato, nel senso civico. Insomma, per ogni dove. Senza porsi paragoni. Con la Liguria per esempio e la prospiciente riviera apuana in Toscana per lo scempio della natura e del territorio. Con qualsiasi cittadina toscana o veneta per lo “sviluppo urbano” delle città storiche. Con la provincia toscana o umbra per l’impoverimento delle tradizioni e la standardizzazione del gusto. Con ogni dove per la gestione misera di musei e biblioteche. Per non dire delle eccellenze: l’aura che si preserva a Taormina, Tindari, Segesta, Sólunto, una vera città punica, strabiliante anche per la posizione, cui la “Guida d’Italia” del Touring dedica una paginetta, anzi metà pagina, la valle dei Templi, o a Siracusa per ogni dove, dal porto a Ortigia, alla città ottocentesca, alle latomie e alla Neápoli, non ha equivalenti.
Un paragone non è necessario, certo, si può anche portare a credito dei critici siciliani la loro sensibilità: non c’è limite alla volontà di purezza. Ma ogni critica è inevitabilmente comparatistica. Questa Sicilia è da buttare allora in confronto a un passato migliore? Che pochi però conoscono - è da molti anni che la Sicilia non si studia più. E a occhio e croce non c’è stato, altrimenti la Sicilia non sarebbe scappata a Torino, a Roma e a Milano. Non avrebbe maturato un tale complesso d’inferiorità. Pur essendo così superba nei suoi assetti urbanistici, nella conservazione, nella protezione culturale, nella rivalutazione del patrimonio.
L’odio-di-sé è difficilmente intaccabile, in costanza di sudditanza, finanziaria e di opinione. Molti geni della finanza che sono siciliani, e napoletani, a Milano non devono dirlo, anzi negarlo, negare le origini e qualsiasi radice.
La Sicilia sempre divora i suoi figli eroici, politici, poetici. Li osanna e poi li dimentica, per ultimi Bufalino, Sciascia, Buttitta, Consolo, Rosa Ballistreri. I politici li vota in massa, e poi li distrugge: come se li mettesse nel mirino invece che dare loro fiducia. A intervalli sempre più brevi, nervosi. Come mafiosi, corrotti, incapaci, vanitosi e inutili. Sindaci, presidenti, ministri, intellettuali. Odia l’idea del potere. Che è una buona cosa. A cui associa però la politica, e la letteratura. Delle quali finisce così col privarsi, è un corpo che fosse senza testa.
Scelsi, Pirandello, Evola, o Cuccia, alcuni siciliani si fanno “estremi” per sottrarsi alla giubilazione. In Italia contro il conformismo, in Sicilia contro l’anticonformismo – in Italia il conformismo è la prassi, in Sicilia l’anticonformismo, egualmente giubilatori.
Sud e Nord
Non ci sono spacciatori veneti a Palermo o Napoli. Né ladri lombardi che assaltano le banche a Cosenza o Salerno. Non ci sono presidi piemontesi nelle scuole lucane, né insegnanti toscani d’italiano nei licei pugliesi o sardi. Né prefetti, questori, provveditori, direttori dell’Inps, delle Poste, dei casinò. Si può anche dire che è il Sud a invadere il Nord. Con risultati buoni e cattivi. Ma da questo Nord non scende nulla di buono.
Marcelino dos Santos, il poeta lusitano d’Angola, che fu ambasciatore del suo paese in lotta e avrebbe dovuto esserne il ministro degli Esteri all’indipendenza, non fosse stato per il sovietismo, guardava il colonialismo da questo punto di vista (è nel romanzo di Astolfo, “La gioia del giorno”, p. 371): “C’è chi ha avuto i francesi, chi gli inglesi, chi i gesuiti. Noi abbiamo avuto i portoghesi e i cappuccini, i poveri di Europa e gli ignoranti, che dopo due settimane montavano come conigli, insabbiati nella brousse”. L’Africa subì i cappuccini, ma i guaranì e gli altri nativi americani, che i gesuiti protessero dalla stupidità coloniale, non ne furono salvati. Né si può dire negativo l’ardore dei cappuccini. Il progressista marchese di Pombal, che perseguitò i gesuiti, impose agli angolani l’emigrazione in Brasile. Ne nacquero il samba e tanti brasiliani. Il marchese, riponendo la prosperità nella demografia, fece del Brasile un fottisterio. “L’estrema voluttà dei portoghesi li portava a integrarsi senza difficoltà ai tropici”, così Freyre spiega il lusotropicalismo. Prima della squalifica del negro, e delle negre.
Avrebbe potuto essere un’altra storia? Certamente sì, l’invenzione del Sud è recente. C’era evidentemente una debolezza di fondo, su cui gli equivoci si sono innestati. Che non c’era nei ducati padani, o negli stessi stati del papa. Ma ci fu anche, più forte, continuato, mai sopito, il tradimento degli emigrati.
La squalifica del Sud è recente e ruota attorno all’unità. Invano si cercano al Sud i segni di una peculiare arretratezza rispetto al resto d’Italia nei viaggiatori del Settecento e del primo Ottocento. Non c’era la libertà, non dopo i moti del 1820-21, non dopo quelli del 1848, ma non c’era nemmeno nel resto d’Italia. Al Sud non ci fu nemmeno nel regno napoleonico di Murat, se non per l’eversione degli assi ecclesiastici, che però non si può dire atto di libertà o liberalizzazione, se non a profitto di ceti ristretti, laici, e ancora, di certe logge e non di altre – la massa, come lo stesso Pasquale Villari dovette constatate nel 1878 (ma già nel 1861) era meglio “mantenuta” dai conventi e la nobiltà. Per non dire del finto, ristretto, diritto di voto che la costituzione unitaria introdusse: selettivo – o tutti elettori o nessuno elettore, la democrazia su questo è chiara.
Si può discutere naturalmente sul diritto di origine dei conventi, e sul loro dare e avere con la comunità. Ma erano un fatto acquisito, come opere pie, in qualche modo di bene, e quindi da sostituire con un di più e non solo eliminarle. Vilari non fa un elenco delle opere pie soppresse. Una lista dei primi del Seicento comprendeva: ventuno sedi francescane, diciassette dei domenicani, nove degli agostiniani, sette dei carmelitani (cinque i calzati e due gli scalzi), dei gesuiti e dei teatini, quattro dei minimi, tre dei servi di Maria, due dei celestini, i canonici regolari del Salvatore, i canonici regolari lateranensi, i chierici della Madre di Dio o lucchesini, i ministri degli infermi, i fatebenefratelli, i pii opreraii, i barnabiti, e una dei certosini, i comaschi, i filippini, i benedettini cassinesi, i benedettini di Monte Vergine.
leuzzi@antiit.eu
Antimafia
Figli e sorelle gestiscono la memoria dei martiri della mafia in modo che avrebbe indignato i morti, Costa, Falcone, Borsellino. Gestiscono è la parola giusta.
Non si celebra-ricorda Rocco Chinnici, il Procuratore Capo dei grandi processi, dai quali la mafia ancora non si è ripresa. Perché non amava, e anzi criticava, i sostituti politicanti, Scarpinato e Lo Forte – che poi effettivamente insabbieranno l’antimafia nell’antipolitica (democristianamente, anzi pretescamente)?
La giustizia politica è sempre abominevole. Applicata alla mafia invita alla violenza: è insopportabile.
Sicilia
Giovanni, il figlio secondogenito del principe Salina, fuoriesce dalla storia andandosene a Londra, andandosene a lavorare. Basta poco per perdere le stigmate: la sicilianità, il principato, il gattopardismo.
Le Cocalidi, le siciliane figlie del re Cocalo, per farsi Dedalo, che era intelligente e bello, invitarono Minosse con loro nel bagno, e lì stesso lo bollirono. Per godere le cocalidi normalmente preferivano un capro, che dicevano Dio. Le figlie di re sono terribili. Le Danaidi, le cinquanta figlie di Danao, quarantanove di esse, uccisero a pugnalate la notte delle nozze i quarantanove cugini loro mariti, ne recisero le teste, e le gettarono nel Lerna.
Le siciliane sono bionde con gli occhi trasparenti, più normanne che arabe, quando si farà il conto all’anagrafe bisognerà cambiarne l’immagine. Anche i siciliani, che sono più alti e robusti che piccoli, l’industria delle confezioni lo sa - anche se molti sono lombardi e piemontesi. Verga era di pelo rosso. Sono di occhio cinerino in realtà e non glauco, su fondo verde e non azzurro.
L’eredità può anche essere vandala, chissà, non hanno lasciato immagini. O greca della Ionia, quello è il colore dello Ionio, Omero si sbagliava.
È vezzo costante in Sicilia, dall’ultimo dei cronisti a Sciascia, addebitarsi, oltre che la mafia e il nepotismo, le peggiori nefandezze in ogni campo. Nell’urbanistica, per esempio, nella protezione ambientale, nella conservazione del patrimonio – storico, culturale, artistico. E nei rapporti familiari, in quelli di vicinato, nel senso civico. Insomma, per ogni dove. Senza porsi paragoni. Con la Liguria per esempio e la prospiciente riviera apuana in Toscana per lo scempio della natura e del territorio. Con qualsiasi cittadina toscana o veneta per lo “sviluppo urbano” delle città storiche. Con la provincia toscana o umbra per l’impoverimento delle tradizioni e la standardizzazione del gusto. Con ogni dove per la gestione misera di musei e biblioteche. Per non dire delle eccellenze: l’aura che si preserva a Taormina, Tindari, Segesta, Sólunto, una vera città punica, strabiliante anche per la posizione, cui la “Guida d’Italia” del Touring dedica una paginetta, anzi metà pagina, la valle dei Templi, o a Siracusa per ogni dove, dal porto a Ortigia, alla città ottocentesca, alle latomie e alla Neápoli, non ha equivalenti.
Un paragone non è necessario, certo, si può anche portare a credito dei critici siciliani la loro sensibilità: non c’è limite alla volontà di purezza. Ma ogni critica è inevitabilmente comparatistica. Questa Sicilia è da buttare allora in confronto a un passato migliore? Che pochi però conoscono - è da molti anni che la Sicilia non si studia più. E a occhio e croce non c’è stato, altrimenti la Sicilia non sarebbe scappata a Torino, a Roma e a Milano. Non avrebbe maturato un tale complesso d’inferiorità. Pur essendo così superba nei suoi assetti urbanistici, nella conservazione, nella protezione culturale, nella rivalutazione del patrimonio.
L’odio-di-sé è difficilmente intaccabile, in costanza di sudditanza, finanziaria e di opinione. Molti geni della finanza che sono siciliani, e napoletani, a Milano non devono dirlo, anzi negarlo, negare le origini e qualsiasi radice.
La Sicilia sempre divora i suoi figli eroici, politici, poetici. Li osanna e poi li dimentica, per ultimi Bufalino, Sciascia, Buttitta, Consolo, Rosa Ballistreri. I politici li vota in massa, e poi li distrugge: come se li mettesse nel mirino invece che dare loro fiducia. A intervalli sempre più brevi, nervosi. Come mafiosi, corrotti, incapaci, vanitosi e inutili. Sindaci, presidenti, ministri, intellettuali. Odia l’idea del potere. Che è una buona cosa. A cui associa però la politica, e la letteratura. Delle quali finisce così col privarsi, è un corpo che fosse senza testa.
Scelsi, Pirandello, Evola, o Cuccia, alcuni siciliani si fanno “estremi” per sottrarsi alla giubilazione. In Italia contro il conformismo, in Sicilia contro l’anticonformismo – in Italia il conformismo è la prassi, in Sicilia l’anticonformismo, egualmente giubilatori.
Sud e Nord
Non ci sono spacciatori veneti a Palermo o Napoli. Né ladri lombardi che assaltano le banche a Cosenza o Salerno. Non ci sono presidi piemontesi nelle scuole lucane, né insegnanti toscani d’italiano nei licei pugliesi o sardi. Né prefetti, questori, provveditori, direttori dell’Inps, delle Poste, dei casinò. Si può anche dire che è il Sud a invadere il Nord. Con risultati buoni e cattivi. Ma da questo Nord non scende nulla di buono.
Marcelino dos Santos, il poeta lusitano d’Angola, che fu ambasciatore del suo paese in lotta e avrebbe dovuto esserne il ministro degli Esteri all’indipendenza, non fosse stato per il sovietismo, guardava il colonialismo da questo punto di vista (è nel romanzo di Astolfo, “La gioia del giorno”, p. 371): “C’è chi ha avuto i francesi, chi gli inglesi, chi i gesuiti. Noi abbiamo avuto i portoghesi e i cappuccini, i poveri di Europa e gli ignoranti, che dopo due settimane montavano come conigli, insabbiati nella brousse”. L’Africa subì i cappuccini, ma i guaranì e gli altri nativi americani, che i gesuiti protessero dalla stupidità coloniale, non ne furono salvati. Né si può dire negativo l’ardore dei cappuccini. Il progressista marchese di Pombal, che perseguitò i gesuiti, impose agli angolani l’emigrazione in Brasile. Ne nacquero il samba e tanti brasiliani. Il marchese, riponendo la prosperità nella demografia, fece del Brasile un fottisterio. “L’estrema voluttà dei portoghesi li portava a integrarsi senza difficoltà ai tropici”, così Freyre spiega il lusotropicalismo. Prima della squalifica del negro, e delle negre.
Avrebbe potuto essere un’altra storia? Certamente sì, l’invenzione del Sud è recente. C’era evidentemente una debolezza di fondo, su cui gli equivoci si sono innestati. Che non c’era nei ducati padani, o negli stessi stati del papa. Ma ci fu anche, più forte, continuato, mai sopito, il tradimento degli emigrati.
La squalifica del Sud è recente e ruota attorno all’unità. Invano si cercano al Sud i segni di una peculiare arretratezza rispetto al resto d’Italia nei viaggiatori del Settecento e del primo Ottocento. Non c’era la libertà, non dopo i moti del 1820-21, non dopo quelli del 1848, ma non c’era nemmeno nel resto d’Italia. Al Sud non ci fu nemmeno nel regno napoleonico di Murat, se non per l’eversione degli assi ecclesiastici, che però non si può dire atto di libertà o liberalizzazione, se non a profitto di ceti ristretti, laici, e ancora, di certe logge e non di altre – la massa, come lo stesso Pasquale Villari dovette constatate nel 1878 (ma già nel 1861) era meglio “mantenuta” dai conventi e la nobiltà. Per non dire del finto, ristretto, diritto di voto che la costituzione unitaria introdusse: selettivo – o tutti elettori o nessuno elettore, la democrazia su questo è chiara.
Si può discutere naturalmente sul diritto di origine dei conventi, e sul loro dare e avere con la comunità. Ma erano un fatto acquisito, come opere pie, in qualche modo di bene, e quindi da sostituire con un di più e non solo eliminarle. Vilari non fa un elenco delle opere pie soppresse. Una lista dei primi del Seicento comprendeva: ventuno sedi francescane, diciassette dei domenicani, nove degli agostiniani, sette dei carmelitani (cinque i calzati e due gli scalzi), dei gesuiti e dei teatini, quattro dei minimi, tre dei servi di Maria, due dei celestini, i canonici regolari del Salvatore, i canonici regolari lateranensi, i chierici della Madre di Dio o lucchesini, i ministri degli infermi, i fatebenefratelli, i pii opreraii, i barnabiti, e una dei certosini, i comaschi, i filippini, i benedettini cassinesi, i benedettini di Monte Vergine.
Secondi pensieri - (64)
zeulig
Antropologia - È la costruzione del diverso, esercizio eroico e imbecille. Ci vuole eroismo per costruire il diverso, sostenerlo, già semplicemente pensarlo possibile. E questo si trova abbondante fra chi ha l’orizzonte più stretto.
Ci vuole passione, e una notevole forza di carattere o costanza, per strutturare il diverso. Ma inevitabilmente secondo norme, canoni, modelli che sono tutti insignificanti, ossia eccezioni.
Il diverso certamente esiste, poiché è l’esistente, nelle sue forme anche minime. Anche quello dell’antropologo: la classificazione è l’origine dell’emozione, il sale della vita. Ma come dato epidermico: al più è la storia, che ha struttura cartilaginosa, normalmente è solo politica, o modalità consociativa, tipicamente adattabile (modificabile).
Dio – Ogni forma di storicismo, o progresso, è una forma di religione, di credo nella perfettibilità, cioè in Dio.
Anche l’antistoricismo, con o senza premeditazione, è un credo in Dio.
Occidente-Oriente – Nn ha senso – oggi certo meno di ieri – opporre l’Occidente tecnologico e attivo a un Oriente passivo. L’Oriente si è tecnologizzato prima, e poi si è adagiato, esausto o consapevole, in cristallizzazioni sociali e mentali, ormai stratificate in millenni. La sua filosofia “media” è più “profonda” della media dell’Occidente perché l’Occidente, privilegiando ancora il mutamento, preferisce forme di pensiero semplificate – prescrittive, metodologiche.
Caratteristica del’Occidente – ma ora nuovamente dell’Oriente – è questa periodizzazione da cambiamento, che per giustificarsi si definisce progressiva. Se si eliminano le punte di aggressività, il fondo rimane comune: non ci sono paradisi morali.
Scoperta– Le scoperte spaziali non appassionano, si ritiene, eprché sono un fatto organizzativo più che un’avventura. Gi astronauti non siono esploratori ma esecutori, aenati a eseguire i loro egsti con minuzia e ripetitività. Non progettano il viaggio, non lo dirigono, obbediscono anche nell’imprevisto, che non possono fronteggiare altrimenti. Sono terminale, che ricevono indirizzi e notizie dall’esterno, con un ventaglio di risposte programmato e limitato.
Gli astronauti operano anche secondo tempi e metodi precostituiti, scomposti, ricomposti, analizzati e ordinati per ogni evenienza possibile. Eliminano il tempo (, l’imponderabile, la reazione nervosa) senza arricchire la loro vicenda, anzi semplificandola. Aggrediamo lo spazio eliminando il tempo: ci allarghiamo ma ci rimpiccioliamo.
Come sarà stata la scoperta dell’America? Quanta curiosità l’ha preceduta, quanto entusiasmo l’ha seguita? Colombo ne ebbe gravi danni, ma questo è normale nelle società di corte. Quale fu all’epoca il senso della sua avventura, e di quelle dei capitani che l’avevano preceduto e lo seguirono? Il senso del meraviglioso non manca nel racconto di Colombo – e sarà prevalente negli epigoni, quando già la scoperta era stata fatta… Accanto a molta delusione
La sorpresa e il meraviglioso mancano nelle scoperte spaziali perché seguite passo passo dalla televisione. La televisione rende impossibile camuffare la realtà per abbellirla – com’era inevitabile, dice Diderot, per un viaggiatore che aveva affrontato difficoltà enormi. E documenta quanto avviene o sta per avvenire, estraeddolo dal circuito fama-meraviglia (testimonianze, voci, ricostruzioni). È la comunicazione che cambia il tempo. Non lo abolisce, il tempo resta, per quanto compresso, una dimensione interna: lo rende più rapido, “inutile”.
Oggi le cose vanno più veloci o sono più piatte? Siamo a una mutazione radicale della storia? L’organizzazione è fabbrica di egualitarismo. Riduce lo spessore, e il potere, dell’individualità, di chi ha una piccola riserva di cognizioni o d’influenza in uno dei gangli della conoscenza e dell’organizzazione (esecutivo). Le cose vanno più veloci e sono più piatte.
Stato – Rinasce con Machiavelli su un duplice abbrivo: il revival umanistico della res publica romana e il principio di assolutistico persiano-arabo importato da Federico II. Da qui la commistione fra diritti del cittadino e Auctoritas, che era sconosciuta ai greci, e ai persiani, e che resta irrisolta nella teoria, ma che è all’origine della democrazia contemporanea, pur con tutti i suoi soprassalti.
L’ascendenza persiano-araba della natura divina del re non c’è in F. Yates, “Astraea”, e in Kantorowicz, “I due corpi del re”, ma c’è, in parte, in Dante.
Stupidità – È la goccia che scava il marmo, insolubile.
Si muove nel sospetto, come quel personaggio di Shakespeare che dice di qualcuno: “Pensa troppo, questo tipo di uomini è pericoloso”. E assume sempre il peggio dal meglio – anche un semplice “buongiorno” può essere ai suoi occhi una colpa. Ma è un inciampo e una tappa salutare, un reagente: costringe gli altri a pensarsi.
Tecnologia – S’impone all’uomo per risolvere i problemi pratici – a partire dai più elementari, proteggersi dall’annientamento, cuocere i cibi o scaldarsi. Non è un artificio ma un’estensione naturale dell’uomo, nel momento in cui l’animalismo comincia a ragionare. È l’elemento distintivo: la ragione.
La tecnologia ingrata alla filosofia del Novecento è una deviazione viziosa. Un sogno di dominio sulla natura e sui limiti umani che degenera in boomerang – i cui effetti si sono già visti, nell’eugenetica, nel razzismo, nella Bomba, ma non esauriti. È una contraddizione, non più quindi uno sviluppo critico, e una violenza. Non è una degenerazione psicopatica però, ma un’applicazione frettolosa della tecnica (l’innovazione, l’ingegneria) alla democrazia, o società di massa. Nei termini, non innocui come sembrano, dei dieci elettrodomestici, le seconde e le terze case, l’accumulazione impellente, con secondo e terzo lavoro, le badanti in famiglia, la fretta, la disattenzione.
La deviazione muove da buone intenzioni. Ma non è un incidente di eprcorso, fortuito: è una degenerazione del senso critico legata ai bisogni di libertà e di democrazia, quindi insidiosa.
È la materializzazione del’intelligenza. Va sorretta dalla scienza, pensiero lungo, e dalla filosofia, pensiero profondo, ma non può essere cancellata: ogni artigiano ne la coscienza.
La filosofia lasciata a se stessa è come un adolescente solitario: turbamenti e sghignazzi. Balia di fantasmi, fascinosamente irrespirabili, ma poi? Non si arriva a capo di nulla con la filosofia, questo è accertato, forse con la scienza. Ma bisogna saperla applicare.
Con la tecnica va il progresso: non abbiamo (possediamo) altro capitale che la storia. Il progresso non è nella storia, ma nella maniera di leggerla. Non contro la chimica ma contro le sue applicazioni perverse, o la biologia, l’elettronica, eccetera. Siamo i poveri latini che Heinrich Mann deride (saggio su Zola), he credono nel passo dopo passo, cioè nella democrazia, nella società, nella tecnica.
Velocità - Oggi è un ricordo dell’Ottocento, quando le lettere arrivavano in giornata, e agli indirizzi più difficili, un libro si stampava in pochi giorni, il direttore di banca portava i soldi a casa del cliente, gli incontri erano agevoli e numerosi, i treni viaggiavano in orario. Oggi perfino l’elettronica, tecnica dell’istantaneo, moltiplica i tempi dei servizi, invece di accelerarli – la sua convenienza sta nell’accorpamento di buon numero di funzioni, che consente di sostituire (eliminare) gli operatori intermediari. L’intasamento è causato dalla democrazia (consumi di massa) o dalla bassa demografia?
La democrazia, come miglioramento delle aspettative, legato ai consumi di massa e non alle carte costituzionali (non c’è democrazia a Cuba o in Cina, che hanno costituzioni iperdemocratiche), accentua la carenza demografica, che può non essere un fatto numerico: numerose funzioni non sono più gratificanti, e vengono svolte a livello infimo di efficienza, o in modo inefficiente. Il recupero – ammesso che sia democratico – può avvenire solo tramite incentivo. Che sia qui, in un meccanismo di costi\benefici che è in realtà di benefici\benefici, il limite dello sviluppo?
Verità – Può costituire diffamazione, secondo la Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, presiedente Giuseppe Scanzano, 17 aprile 1984 (nella causa ella società fallita Europrogramme contro chi ne aveva criticato la gestione.
zeulig@antiit.eu
Antropologia - È la costruzione del diverso, esercizio eroico e imbecille. Ci vuole eroismo per costruire il diverso, sostenerlo, già semplicemente pensarlo possibile. E questo si trova abbondante fra chi ha l’orizzonte più stretto.
Ci vuole passione, e una notevole forza di carattere o costanza, per strutturare il diverso. Ma inevitabilmente secondo norme, canoni, modelli che sono tutti insignificanti, ossia eccezioni.
Il diverso certamente esiste, poiché è l’esistente, nelle sue forme anche minime. Anche quello dell’antropologo: la classificazione è l’origine dell’emozione, il sale della vita. Ma come dato epidermico: al più è la storia, che ha struttura cartilaginosa, normalmente è solo politica, o modalità consociativa, tipicamente adattabile (modificabile).
Dio – Ogni forma di storicismo, o progresso, è una forma di religione, di credo nella perfettibilità, cioè in Dio.
Anche l’antistoricismo, con o senza premeditazione, è un credo in Dio.
Occidente-Oriente – Nn ha senso – oggi certo meno di ieri – opporre l’Occidente tecnologico e attivo a un Oriente passivo. L’Oriente si è tecnologizzato prima, e poi si è adagiato, esausto o consapevole, in cristallizzazioni sociali e mentali, ormai stratificate in millenni. La sua filosofia “media” è più “profonda” della media dell’Occidente perché l’Occidente, privilegiando ancora il mutamento, preferisce forme di pensiero semplificate – prescrittive, metodologiche.
Caratteristica del’Occidente – ma ora nuovamente dell’Oriente – è questa periodizzazione da cambiamento, che per giustificarsi si definisce progressiva. Se si eliminano le punte di aggressività, il fondo rimane comune: non ci sono paradisi morali.
Scoperta– Le scoperte spaziali non appassionano, si ritiene, eprché sono un fatto organizzativo più che un’avventura. Gi astronauti non siono esploratori ma esecutori, aenati a eseguire i loro egsti con minuzia e ripetitività. Non progettano il viaggio, non lo dirigono, obbediscono anche nell’imprevisto, che non possono fronteggiare altrimenti. Sono terminale, che ricevono indirizzi e notizie dall’esterno, con un ventaglio di risposte programmato e limitato.
Gli astronauti operano anche secondo tempi e metodi precostituiti, scomposti, ricomposti, analizzati e ordinati per ogni evenienza possibile. Eliminano il tempo (, l’imponderabile, la reazione nervosa) senza arricchire la loro vicenda, anzi semplificandola. Aggrediamo lo spazio eliminando il tempo: ci allarghiamo ma ci rimpiccioliamo.
Come sarà stata la scoperta dell’America? Quanta curiosità l’ha preceduta, quanto entusiasmo l’ha seguita? Colombo ne ebbe gravi danni, ma questo è normale nelle società di corte. Quale fu all’epoca il senso della sua avventura, e di quelle dei capitani che l’avevano preceduto e lo seguirono? Il senso del meraviglioso non manca nel racconto di Colombo – e sarà prevalente negli epigoni, quando già la scoperta era stata fatta… Accanto a molta delusione
La sorpresa e il meraviglioso mancano nelle scoperte spaziali perché seguite passo passo dalla televisione. La televisione rende impossibile camuffare la realtà per abbellirla – com’era inevitabile, dice Diderot, per un viaggiatore che aveva affrontato difficoltà enormi. E documenta quanto avviene o sta per avvenire, estraeddolo dal circuito fama-meraviglia (testimonianze, voci, ricostruzioni). È la comunicazione che cambia il tempo. Non lo abolisce, il tempo resta, per quanto compresso, una dimensione interna: lo rende più rapido, “inutile”.
Oggi le cose vanno più veloci o sono più piatte? Siamo a una mutazione radicale della storia? L’organizzazione è fabbrica di egualitarismo. Riduce lo spessore, e il potere, dell’individualità, di chi ha una piccola riserva di cognizioni o d’influenza in uno dei gangli della conoscenza e dell’organizzazione (esecutivo). Le cose vanno più veloci e sono più piatte.
Stato – Rinasce con Machiavelli su un duplice abbrivo: il revival umanistico della res publica romana e il principio di assolutistico persiano-arabo importato da Federico II. Da qui la commistione fra diritti del cittadino e Auctoritas, che era sconosciuta ai greci, e ai persiani, e che resta irrisolta nella teoria, ma che è all’origine della democrazia contemporanea, pur con tutti i suoi soprassalti.
L’ascendenza persiano-araba della natura divina del re non c’è in F. Yates, “Astraea”, e in Kantorowicz, “I due corpi del re”, ma c’è, in parte, in Dante.
Stupidità – È la goccia che scava il marmo, insolubile.
Si muove nel sospetto, come quel personaggio di Shakespeare che dice di qualcuno: “Pensa troppo, questo tipo di uomini è pericoloso”. E assume sempre il peggio dal meglio – anche un semplice “buongiorno” può essere ai suoi occhi una colpa. Ma è un inciampo e una tappa salutare, un reagente: costringe gli altri a pensarsi.
Tecnologia – S’impone all’uomo per risolvere i problemi pratici – a partire dai più elementari, proteggersi dall’annientamento, cuocere i cibi o scaldarsi. Non è un artificio ma un’estensione naturale dell’uomo, nel momento in cui l’animalismo comincia a ragionare. È l’elemento distintivo: la ragione.
La tecnologia ingrata alla filosofia del Novecento è una deviazione viziosa. Un sogno di dominio sulla natura e sui limiti umani che degenera in boomerang – i cui effetti si sono già visti, nell’eugenetica, nel razzismo, nella Bomba, ma non esauriti. È una contraddizione, non più quindi uno sviluppo critico, e una violenza. Non è una degenerazione psicopatica però, ma un’applicazione frettolosa della tecnica (l’innovazione, l’ingegneria) alla democrazia, o società di massa. Nei termini, non innocui come sembrano, dei dieci elettrodomestici, le seconde e le terze case, l’accumulazione impellente, con secondo e terzo lavoro, le badanti in famiglia, la fretta, la disattenzione.
La deviazione muove da buone intenzioni. Ma non è un incidente di eprcorso, fortuito: è una degenerazione del senso critico legata ai bisogni di libertà e di democrazia, quindi insidiosa.
È la materializzazione del’intelligenza. Va sorretta dalla scienza, pensiero lungo, e dalla filosofia, pensiero profondo, ma non può essere cancellata: ogni artigiano ne la coscienza.
La filosofia lasciata a se stessa è come un adolescente solitario: turbamenti e sghignazzi. Balia di fantasmi, fascinosamente irrespirabili, ma poi? Non si arriva a capo di nulla con la filosofia, questo è accertato, forse con la scienza. Ma bisogna saperla applicare.
Con la tecnica va il progresso: non abbiamo (possediamo) altro capitale che la storia. Il progresso non è nella storia, ma nella maniera di leggerla. Non contro la chimica ma contro le sue applicazioni perverse, o la biologia, l’elettronica, eccetera. Siamo i poveri latini che Heinrich Mann deride (saggio su Zola), he credono nel passo dopo passo, cioè nella democrazia, nella società, nella tecnica.
Velocità - Oggi è un ricordo dell’Ottocento, quando le lettere arrivavano in giornata, e agli indirizzi più difficili, un libro si stampava in pochi giorni, il direttore di banca portava i soldi a casa del cliente, gli incontri erano agevoli e numerosi, i treni viaggiavano in orario. Oggi perfino l’elettronica, tecnica dell’istantaneo, moltiplica i tempi dei servizi, invece di accelerarli – la sua convenienza sta nell’accorpamento di buon numero di funzioni, che consente di sostituire (eliminare) gli operatori intermediari. L’intasamento è causato dalla democrazia (consumi di massa) o dalla bassa demografia?
La democrazia, come miglioramento delle aspettative, legato ai consumi di massa e non alle carte costituzionali (non c’è democrazia a Cuba o in Cina, che hanno costituzioni iperdemocratiche), accentua la carenza demografica, che può non essere un fatto numerico: numerose funzioni non sono più gratificanti, e vengono svolte a livello infimo di efficienza, o in modo inefficiente. Il recupero – ammesso che sia democratico – può avvenire solo tramite incentivo. Che sia qui, in un meccanismo di costi\benefici che è in realtà di benefici\benefici, il limite dello sviluppo?
Verità – Può costituire diffamazione, secondo la Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, presiedente Giuseppe Scanzano, 17 aprile 1984 (nella causa ella società fallita Europrogramme contro chi ne aveva criticato la gestione.
zeulig@antiit.eu
Salviamo Al Jazira - 4
(Riassunto delle precedenti puntate: nel sommovimento che rivoluzionò il Golfo nel 1917-8, l’Occidente si era mobilitato per salvare Al Jazira, in omaggio alla libertà di espressione, ma una serie di decapitazioni si abbatté su giornalisti e mezzobusti dell’emittente, confluendo in una prospera industria dell’horror).
Era l’epoca in America del Tiranno Senza Volto, che il condominio forzoso con la Cina imperiale aveva ridotto a dimensione continentale. Il Tiranno aveva un nome, essendo l’ultimo presidente eletto, succeduto al successore del presidente Obama. Ma da tempo ormai immemorabile era invisibile, dacché aveva decretato la fine delle garanzie costituzionali, e senza sede. Si favoleggiava che stesse in volo, bersaglio mobile imprendibile per il Nemico, in grossi aerei Stealth. Una Legione Volante composita, di Genio Distruttori, contrattualizzati, e kamikaze locali assoldati a poco prezzo, seminava ai suoi ordini il terrore nell’Arco della crisi mediorientale, eretto a Vallum Occidentale, da Ras Khaimah alla Cecenia a San Pietroburgo. E di fronte avanzato contro l’Impero Comunista di Pechino, che facendosi scudo dell’alleanza Qaeda-Iran sterminava i regnicoli del Golfo con false accuse di aggiotaggio, e conseguente impiccagione di massa.
A Ovest del Vallum, nell’Europa orfana del socialismo e di ogni altro potere, la popolazione tentava un’illusoria neutralità. Lavorando alacre giocattoli, cotonate e computer per conto dei monopoli cinesi che controllavano il mercato mondiale. Ma non era inattaccabile al terrore. I commandos americani del Genio Guastatori, che si erano specializzati nella distruzione di monumenti, il Khan Khalil, le Quaranta Colonne, la moschea degli Omayyadi a Damasco, Santa Sofia, si applicavano a distruggere i residui ostacoli alla Difesa Totale, dal Cremlino a San Pietro, che realizzavano con barriere elettroniche, missilistiche, e di ferrocemento. Senza rinunciare al terrorismo di Stato: in proprio, con i contrattualizzati, e con i kamikaze.
A Londra il Pretendente Guglielmo V si allineò all’estrema resistenza anticinese del Tiranno Senza Volto. I guglielmiti suoi volontari ebbero presto ragione dei terzisti, i fautori di suo padre Carlo III. Ma trovarono le porte sbarrate alla Legione Volante. Si applicarono allora a un accetto lavoro di commissariato, facilitando il trasbordo dei nuovi immigranti africani vero l’East Coast, che era anche parte del fiorente commercio della Nuova Schiavitù, volontaria. Folle di africani affluivano in lunghe carovane dal Centro e dal Sud dell’Africa, con ogni mezzo, molti a piedi, alla costa atlantica dell’Europa. Issandosi più in alto possibile, a Cadice, a Lisbona, alla Coruna, da dove, col favore degli alisei e della corrente del Golfo discendente, possenti catamarani li trasportavano di là del’Oceano, in veloce deriva fino a Cuba, quindici o venti gradi più a Sud, che era il cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti. Sotto il timone esperto dei normanni guglielmiti, volenterosi broker dei potenti cartelli americani che gestivano, dal Texas e la California, l’analogo afflusso di latini.
Non per altro la Legione Volante respinse i guglielmiti se non l’inaffidabilità. Non dimenticando che gli inglesi sono sempre stati spie e traditori. Dovendo a un certo punto supplire ai kamikaze, la cui tecnica non si riuscì a migliorare, malgrado ogni addestramento e il miglior oppio, mentre l’attività diventava più febbrile, la Legione si adattò a innescare una serie nuovissima di robot da macello, altrettanto precisi e distruttivi. Ma presto la campagna d’informazione della Sunni Airdale, benché non ufficiale, alimentò un forte e costante afflusso di volontari islamici, decisi a vendicare con la morte le vittime della Headcutting Serie contro le ingerenza del fronte Qaeda-Iran e dei suoi padroni cinesi.
(fine)
Era l’epoca in America del Tiranno Senza Volto, che il condominio forzoso con la Cina imperiale aveva ridotto a dimensione continentale. Il Tiranno aveva un nome, essendo l’ultimo presidente eletto, succeduto al successore del presidente Obama. Ma da tempo ormai immemorabile era invisibile, dacché aveva decretato la fine delle garanzie costituzionali, e senza sede. Si favoleggiava che stesse in volo, bersaglio mobile imprendibile per il Nemico, in grossi aerei Stealth. Una Legione Volante composita, di Genio Distruttori, contrattualizzati, e kamikaze locali assoldati a poco prezzo, seminava ai suoi ordini il terrore nell’Arco della crisi mediorientale, eretto a Vallum Occidentale, da Ras Khaimah alla Cecenia a San Pietroburgo. E di fronte avanzato contro l’Impero Comunista di Pechino, che facendosi scudo dell’alleanza Qaeda-Iran sterminava i regnicoli del Golfo con false accuse di aggiotaggio, e conseguente impiccagione di massa.
A Ovest del Vallum, nell’Europa orfana del socialismo e di ogni altro potere, la popolazione tentava un’illusoria neutralità. Lavorando alacre giocattoli, cotonate e computer per conto dei monopoli cinesi che controllavano il mercato mondiale. Ma non era inattaccabile al terrore. I commandos americani del Genio Guastatori, che si erano specializzati nella distruzione di monumenti, il Khan Khalil, le Quaranta Colonne, la moschea degli Omayyadi a Damasco, Santa Sofia, si applicavano a distruggere i residui ostacoli alla Difesa Totale, dal Cremlino a San Pietro, che realizzavano con barriere elettroniche, missilistiche, e di ferrocemento. Senza rinunciare al terrorismo di Stato: in proprio, con i contrattualizzati, e con i kamikaze.
A Londra il Pretendente Guglielmo V si allineò all’estrema resistenza anticinese del Tiranno Senza Volto. I guglielmiti suoi volontari ebbero presto ragione dei terzisti, i fautori di suo padre Carlo III. Ma trovarono le porte sbarrate alla Legione Volante. Si applicarono allora a un accetto lavoro di commissariato, facilitando il trasbordo dei nuovi immigranti africani vero l’East Coast, che era anche parte del fiorente commercio della Nuova Schiavitù, volontaria. Folle di africani affluivano in lunghe carovane dal Centro e dal Sud dell’Africa, con ogni mezzo, molti a piedi, alla costa atlantica dell’Europa. Issandosi più in alto possibile, a Cadice, a Lisbona, alla Coruna, da dove, col favore degli alisei e della corrente del Golfo discendente, possenti catamarani li trasportavano di là del’Oceano, in veloce deriva fino a Cuba, quindici o venti gradi più a Sud, che era il cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti. Sotto il timone esperto dei normanni guglielmiti, volenterosi broker dei potenti cartelli americani che gestivano, dal Texas e la California, l’analogo afflusso di latini.
Non per altro la Legione Volante respinse i guglielmiti se non l’inaffidabilità. Non dimenticando che gli inglesi sono sempre stati spie e traditori. Dovendo a un certo punto supplire ai kamikaze, la cui tecnica non si riuscì a migliorare, malgrado ogni addestramento e il miglior oppio, mentre l’attività diventava più febbrile, la Legione si adattò a innescare una serie nuovissima di robot da macello, altrettanto precisi e distruttivi. Ma presto la campagna d’informazione della Sunni Airdale, benché non ufficiale, alimentò un forte e costante afflusso di volontari islamici, decisi a vendicare con la morte le vittime della Headcutting Serie contro le ingerenza del fronte Qaeda-Iran e dei suoi padroni cinesi.
(fine)
domenica 20 febbraio 2011
Salviamo Al Jazira – 3
(Riassunto delle precedenti puntate: nel sommovimento che rivoluzionò il Golfo nel 2018, l’Occidente si era mobilitato per salvare Al Jazira, in omaggio alla libertà di espressione).
Non tutta Al Jazira, si scoprì, era finita nel Sud dell’Europa, tra Roma, Marbella e Skyantos, rifiutata dalla Los Angeles che conta. La struttura dell’emittente, i direttori, i direttori pubblicitari, i direttori finanziari, i direttori dei programmi, e le loro grasse mogli con le figlie avevano evitato l’infida Svizzera, che quando sei in disgrazia ti espone alla persecuzione. Grazie al loro peso politico e patrimoniale, da tempo influente e rispettato nell’industria dell’immagine a Hollywood, avevano potuto occupare le magioni che da tempo avevano acquistato in città – una parte dagli eredi dello scià, una parte dai principi sauditi, o meglio dagli eredi degli ultimi principi finiti nella Grande Mattanza, che si trovavano a non far niente nelle università di Berkeley e Harvard, ma in questo modo erano rimasti in vita e ben dotati.
Questi reduci di Al Jazira conducevano a Los Angeles vita ritirata, a Bel Air e a Pasadena dove si erano rifugiati. Ma la vita riservata non poté durare a lungo. Una serie ripetuta d’inconvenienti costrinse i profughi a ricorrere alle autorità locali. Prima le donne, a una a una, poi scomparvero a gruppi di tre, uomini e donne mescolati, poi di nuovo a uno a uno, ma con più lenta efferatezza. Perché gli illustri profughi scomparivano nel senso che venivano uccisi, in lente operazioni documentate istante per istante da video professionali, di mano sicura, inquadrtire perfette, buona illuminazione. Le donne venivano scannate nude – molte di loro purtroppo non più ben tenute, malgrado la chirurgia e le fisioterapie. Dopo il corpo, la camera indugiava sui volti, mentre la lama prendeva le misure del collo. Dopo il colpo di mannaia, quando la decapitazione veniva completata coi coltelli, l’immagine dissolveva. Ma si faceva vedere il sangue che cola, e il colpo di mano torno torno dei macellai, e si facevano sentire i rumori, le ossa rotte, il fischio del polmone che si affloscia, i gorgogli. Le regie delle esecuzioni erano ripetitive, modellate su tecniche sperimentate da almeno vent’anni nelle immagini e nei tempi.
Il fatto fu d’altra parte presto pubblico, un mercato della mattanza essendosi creato, clandestino ma vasto. La Sunni Airdale fece il pieno, tutte le pay-tv del paese comprarono il programma. Prodotto a costi irrisori, quasi amatoriali: su format della stessa Al Jazira ai tempi d’oro, con personale qaedista a suo tempo addestrato alle esecuzioni, in studi minimi, poco illuminati, con telecamera fissa, manodopera volontaria, tempi eccezionali, mezz’ora di programma si produce in due ore, quasi in tempo reale, senza trattamento, sceneggiatura, piani di produzione, pre-produzione, montaggio, e con post-produzione ridotta. E fu il clou della stagione, con ascolti sempre record, anche in ripetizione, ace di tutti i piani pubblicitari.
Il lavoro maggiore fu da ufficio stampa: creare storie credibili attorno a ognuno dei giustiziandi, di ognuno sottolineare almeno un a colpa anti-americana, incastrare talvolta le singole esecuzioni quasi in un film a episodi. L’industria dei media, non solo la pay-tv, era peraltro partecipata dalla Sunni Bonus Fare, la finanziaria creata, col supporto federale, dagli emiri del Golfo, che anche loro erano dovuti fuggire, ognuno con le sue cento mogli e i mille figli, negli Stati Uniti, dove da tempo avevano indirizzato le loro ricchezze, dopo che l’asse Qaeda-Iran aveva preso possesso della regione.
(continua)
Non tutta Al Jazira, si scoprì, era finita nel Sud dell’Europa, tra Roma, Marbella e Skyantos, rifiutata dalla Los Angeles che conta. La struttura dell’emittente, i direttori, i direttori pubblicitari, i direttori finanziari, i direttori dei programmi, e le loro grasse mogli con le figlie avevano evitato l’infida Svizzera, che quando sei in disgrazia ti espone alla persecuzione. Grazie al loro peso politico e patrimoniale, da tempo influente e rispettato nell’industria dell’immagine a Hollywood, avevano potuto occupare le magioni che da tempo avevano acquistato in città – una parte dagli eredi dello scià, una parte dai principi sauditi, o meglio dagli eredi degli ultimi principi finiti nella Grande Mattanza, che si trovavano a non far niente nelle università di Berkeley e Harvard, ma in questo modo erano rimasti in vita e ben dotati.
Questi reduci di Al Jazira conducevano a Los Angeles vita ritirata, a Bel Air e a Pasadena dove si erano rifugiati. Ma la vita riservata non poté durare a lungo. Una serie ripetuta d’inconvenienti costrinse i profughi a ricorrere alle autorità locali. Prima le donne, a una a una, poi scomparvero a gruppi di tre, uomini e donne mescolati, poi di nuovo a uno a uno, ma con più lenta efferatezza. Perché gli illustri profughi scomparivano nel senso che venivano uccisi, in lente operazioni documentate istante per istante da video professionali, di mano sicura, inquadrtire perfette, buona illuminazione. Le donne venivano scannate nude – molte di loro purtroppo non più ben tenute, malgrado la chirurgia e le fisioterapie. Dopo il corpo, la camera indugiava sui volti, mentre la lama prendeva le misure del collo. Dopo il colpo di mannaia, quando la decapitazione veniva completata coi coltelli, l’immagine dissolveva. Ma si faceva vedere il sangue che cola, e il colpo di mano torno torno dei macellai, e si facevano sentire i rumori, le ossa rotte, il fischio del polmone che si affloscia, i gorgogli. Le regie delle esecuzioni erano ripetitive, modellate su tecniche sperimentate da almeno vent’anni nelle immagini e nei tempi.
Il fatto fu d’altra parte presto pubblico, un mercato della mattanza essendosi creato, clandestino ma vasto. La Sunni Airdale fece il pieno, tutte le pay-tv del paese comprarono il programma. Prodotto a costi irrisori, quasi amatoriali: su format della stessa Al Jazira ai tempi d’oro, con personale qaedista a suo tempo addestrato alle esecuzioni, in studi minimi, poco illuminati, con telecamera fissa, manodopera volontaria, tempi eccezionali, mezz’ora di programma si produce in due ore, quasi in tempo reale, senza trattamento, sceneggiatura, piani di produzione, pre-produzione, montaggio, e con post-produzione ridotta. E fu il clou della stagione, con ascolti sempre record, anche in ripetizione, ace di tutti i piani pubblicitari.
Il lavoro maggiore fu da ufficio stampa: creare storie credibili attorno a ognuno dei giustiziandi, di ognuno sottolineare almeno un a colpa anti-americana, incastrare talvolta le singole esecuzioni quasi in un film a episodi. L’industria dei media, non solo la pay-tv, era peraltro partecipata dalla Sunni Bonus Fare, la finanziaria creata, col supporto federale, dagli emiri del Golfo, che anche loro erano dovuti fuggire, ognuno con le sue cento mogli e i mille figli, negli Stati Uniti, dove da tempo avevano indirizzato le loro ricchezze, dopo che l’asse Qaeda-Iran aveva preso possesso della regione.
(continua)
Intellettuali, ancora un sforzo
L’attacco richiama Epimenide, il cretese bugiardo che diceva bugiardi tutti i cretesi. Non può essere altrimenti dell’intellettuale quando parla degli intellettuali – l’intellettuale andrebbe definito dal non intellettuale, un metalmeccanico, un droghiere, il contadino se ce ne fosse ancora, e questo non è possibile: l’intellettuale è metro di tutte le cose. Ma questo è il bello (il brutto) dell’intellettuale, di essere autoreferente: lui può parlare per gli altri, gli altri non possono parlare per lui – non ne hanno la funzione, il vocabolario, i trucchi.
In questa raccolta di testi brevi eterogenei, degli ultimi dieci anni, Berardinelli si pone il problema, e non lo risolve. Gli intellettuali, non dicendo “io”, non circostanziano, non relativizzano. Assolutizzano – “Se non dicono «io» è per nascondere l’enormità del loro Io immaginario” (p 15). Ed è il lavoro intellettuale Beruf (Max Weber), professione, oppure arte (C.Wright Mills)? A Berardinelli non interessa. Il problema è sempre: è meglio essere un buon misantropo, al modo dell’Alceste di Molière, oppure un attivista, al modo di Diogene quando il Macedone è alla porte – ce n’è sempre uno?
L’intellettuale di Berardinelli è essenzialmente un critico letterario. Militante oppure no - Berardinelli distingue, mentre sono la stessa cosa: la disattenzione è generale dei critici, incapaci ormai più di leggere, perché ogni curiosità è spenta, o è spento ogni motivo di curiosità, che è la stessa cosa (per la caduta del Muro, delle ideologie?) In realtà è di più, ed è da questo di più che deriva la sua insoddisfazione. Con altro linguaggio è la élite, o classe dirigente – lo stesso Berardinelli ne traccia l’anima del misantropo, che intende non uno spregiatore del genere umano, ma uno che se ne difende (la distinzione è tra guerra difensiva, sempre giusta, e guerra d’attacco, moralmente dubbia). . Il linguaggio è stato ridotto a propaganda. Una camicia di forza. Ma di essa sono ora vittime i nominalisti che l’hanno costruita (“l’Unità”, e collaterali, Umberto Eco, “Micromega”…). Che si salvano costruendosi furbi modeste realtà: i giochi di parole, l’osteria del tempo che fu (o la cucina sintetica dei cuochi di Barcellona), il casale in Toscana, l’Inter di Moratti tutte stelle, il comico Albanese. Questa élite è quella di Artemidoro nel libro dei sogni, 36: “È impossibile non ci avenga quello, che il Re ha sognato. Se lo sogna anche il popolo minuto non diremo che ha mentito, ma che il sogno era falso”.
Scorrendo la raccolta negli intervalli del festival di Sanremo, così mostruosamente incomprensibile (non divertente, non spettacolare, non musicale, non sportivo, anzi senza ritmo, perfino senza cuore se non quello del presentatore che deve fare ascolto, sconnesso, l’atmosfera è solo gelida – o è giusto un monumento, ogni anno, a Benigni? un gigante), uno si chiede: di cosa stiamo parlando? Oppure pensando al grande mondo fuori, come si fa e ci fa. Si rivede allora la penultima polemica sugli intellettuali, al tempo del terrorismo. Che non ci ha sopraffatti ma ha scontato una costruzione secolare, la costruzione dell’intellettuale – che non è finita: le librerie Feltrinelli, pure così ordinate, non hanno uno scaffale terrorismo, ne hanno uno lotta armata. E si dovrebbe dire, non si dice mai abbastanza: cos’è, cos’è stato, l’intellettuale bello-e-buono, quello dell’illuminismo, l’intellettuale per eccellenza, nella Rivoluzione del 1789, che pure ha provocato, o così ritiene? Non un Battista, al più un distruttore, spesso stolido, alla Héraut de Séchelles, talvolta tragico, alla Condorcet.
L’intellettuale, di professione o di gusto che sia, sarà al meglio il dilettante di Stendhal. Un professore, brillante, coscienzioso, un ingegnere, un giudice, di un buon giudice c’è sempre carestia, dall’animo sgombro. Correndo i rischi e prendendosene la responsabilità. Il problema è peraltro dell’intellettuale made in Italy, già in Francia è diverso. Altrove, si sa, non c’è, nemmeno più in Russia, una volta caduto il centralismo democratico, con le sovrastrutture e le egemonie – che invece perdurano in Italia.
Berardinelli non c’era nello speciale con cui “Alfabeta” ha lanciato a giugno la sua resurrezione ed è un peccato, si sarebbe divertito. Un suo intervento sul “Corriere della sera” del 15 luglio, che qui purtroppo manca, chiariva i cosiddetti termini del problema: “Berlusconi è andato al potere in un Paese intossicato da decenni di cattiva politica, di immobilismi politici, di ideologizzazioni politiche forsennate, di politicizzazione coattiva di tutti gli ambiti di vita”. E non è finita, l’Italia è ancora traumatizzata dopo trent’anni, “dopo la fine della Guerra fredda, dopo la crisi autodistruttiva, fra un compromesso storico immaginario e un terrorismo reale, che ha demolito la sinistra e le sue tradizioni”. Per chi è fuori dalla categoria non c’è bisogno di aspettare le storie, il fatto è chiaro da tempo: il tradimento è degli intellettuali, nel giornali, ai talk show, nelle università nelle scuole, al cinema. Ancora uno sforzo sarebbe necessario, semplice, propriamente intellettuale. Berardinelli cita Orwell e Simone Weil, che sono al centro del Novecento europeo, ma non in Italia. Basterebbe dire perché, e la missione sarebbe compiuta, con merito. L’intellettuale ha ancora uno statuto privilegiato in Italia, diversamente che negli altri paesi europei, o negli Usa, ma ancora per quanto? A parte l’autoreferenzialità.
Alfonso Berardinelli, Che intellettuale sei?, Nottetempo, pp.95, € 7
In questa raccolta di testi brevi eterogenei, degli ultimi dieci anni, Berardinelli si pone il problema, e non lo risolve. Gli intellettuali, non dicendo “io”, non circostanziano, non relativizzano. Assolutizzano – “Se non dicono «io» è per nascondere l’enormità del loro Io immaginario” (p 15). Ed è il lavoro intellettuale Beruf (Max Weber), professione, oppure arte (C.Wright Mills)? A Berardinelli non interessa. Il problema è sempre: è meglio essere un buon misantropo, al modo dell’Alceste di Molière, oppure un attivista, al modo di Diogene quando il Macedone è alla porte – ce n’è sempre uno?
L’intellettuale di Berardinelli è essenzialmente un critico letterario. Militante oppure no - Berardinelli distingue, mentre sono la stessa cosa: la disattenzione è generale dei critici, incapaci ormai più di leggere, perché ogni curiosità è spenta, o è spento ogni motivo di curiosità, che è la stessa cosa (per la caduta del Muro, delle ideologie?) In realtà è di più, ed è da questo di più che deriva la sua insoddisfazione. Con altro linguaggio è la élite, o classe dirigente – lo stesso Berardinelli ne traccia l’anima del misantropo, che intende non uno spregiatore del genere umano, ma uno che se ne difende (la distinzione è tra guerra difensiva, sempre giusta, e guerra d’attacco, moralmente dubbia). . Il linguaggio è stato ridotto a propaganda. Una camicia di forza. Ma di essa sono ora vittime i nominalisti che l’hanno costruita (“l’Unità”, e collaterali, Umberto Eco, “Micromega”…). Che si salvano costruendosi furbi modeste realtà: i giochi di parole, l’osteria del tempo che fu (o la cucina sintetica dei cuochi di Barcellona), il casale in Toscana, l’Inter di Moratti tutte stelle, il comico Albanese. Questa élite è quella di Artemidoro nel libro dei sogni, 36: “È impossibile non ci avenga quello, che il Re ha sognato. Se lo sogna anche il popolo minuto non diremo che ha mentito, ma che il sogno era falso”.
Scorrendo la raccolta negli intervalli del festival di Sanremo, così mostruosamente incomprensibile (non divertente, non spettacolare, non musicale, non sportivo, anzi senza ritmo, perfino senza cuore se non quello del presentatore che deve fare ascolto, sconnesso, l’atmosfera è solo gelida – o è giusto un monumento, ogni anno, a Benigni? un gigante), uno si chiede: di cosa stiamo parlando? Oppure pensando al grande mondo fuori, come si fa e ci fa. Si rivede allora la penultima polemica sugli intellettuali, al tempo del terrorismo. Che non ci ha sopraffatti ma ha scontato una costruzione secolare, la costruzione dell’intellettuale – che non è finita: le librerie Feltrinelli, pure così ordinate, non hanno uno scaffale terrorismo, ne hanno uno lotta armata. E si dovrebbe dire, non si dice mai abbastanza: cos’è, cos’è stato, l’intellettuale bello-e-buono, quello dell’illuminismo, l’intellettuale per eccellenza, nella Rivoluzione del 1789, che pure ha provocato, o così ritiene? Non un Battista, al più un distruttore, spesso stolido, alla Héraut de Séchelles, talvolta tragico, alla Condorcet.
L’intellettuale, di professione o di gusto che sia, sarà al meglio il dilettante di Stendhal. Un professore, brillante, coscienzioso, un ingegnere, un giudice, di un buon giudice c’è sempre carestia, dall’animo sgombro. Correndo i rischi e prendendosene la responsabilità. Il problema è peraltro dell’intellettuale made in Italy, già in Francia è diverso. Altrove, si sa, non c’è, nemmeno più in Russia, una volta caduto il centralismo democratico, con le sovrastrutture e le egemonie – che invece perdurano in Italia.
Berardinelli non c’era nello speciale con cui “Alfabeta” ha lanciato a giugno la sua resurrezione ed è un peccato, si sarebbe divertito. Un suo intervento sul “Corriere della sera” del 15 luglio, che qui purtroppo manca, chiariva i cosiddetti termini del problema: “Berlusconi è andato al potere in un Paese intossicato da decenni di cattiva politica, di immobilismi politici, di ideologizzazioni politiche forsennate, di politicizzazione coattiva di tutti gli ambiti di vita”. E non è finita, l’Italia è ancora traumatizzata dopo trent’anni, “dopo la fine della Guerra fredda, dopo la crisi autodistruttiva, fra un compromesso storico immaginario e un terrorismo reale, che ha demolito la sinistra e le sue tradizioni”. Per chi è fuori dalla categoria non c’è bisogno di aspettare le storie, il fatto è chiaro da tempo: il tradimento è degli intellettuali, nel giornali, ai talk show, nelle università nelle scuole, al cinema. Ancora uno sforzo sarebbe necessario, semplice, propriamente intellettuale. Berardinelli cita Orwell e Simone Weil, che sono al centro del Novecento europeo, ma non in Italia. Basterebbe dire perché, e la missione sarebbe compiuta, con merito. L’intellettuale ha ancora uno statuto privilegiato in Italia, diversamente che negli altri paesi europei, o negli Usa, ma ancora per quanto? A parte l’autoreferenzialità.
Alfonso Berardinelli, Che intellettuale sei?, Nottetempo, pp.95, € 7
Problemi di base - 51
spock
Se gli Usa disprezzano l’Italia, ma la vogliono in Afghanistan, non sarà per pagarla poco?
Perché Tremonti taglie le scuole, le università e la cultura e non invece la guerra, che l’Italia fa per gli Usa in Afghanistan?
Se il problema del bene è la giusta mercede, è bene pagare le puttane molto, oppure poco?
Se fra gli adiafora del saggio, le cose non importanti, c’è il sesso, non sarà la Procura di Milano poco saggia?
Nell’ordine della creazione, viene prima Ruby o prima Boccassini?
Se la nostra rovina sarà l’indifferenza, che ce ne frega?
“Si uccidono le persone se gli si toglie loro la possibilità di esprimersi” (I.Bachmann): perché questo abortificio è tollerato, e anzi si pratica in età adulta?
Perché la tolleranza si difende con l’intolleranza?
E sopportare è insopportabile?
Perché cavalcare la tigre se poi non si può scendere?
spock@antiit.eu
Se gli Usa disprezzano l’Italia, ma la vogliono in Afghanistan, non sarà per pagarla poco?
Perché Tremonti taglie le scuole, le università e la cultura e non invece la guerra, che l’Italia fa per gli Usa in Afghanistan?
Se il problema del bene è la giusta mercede, è bene pagare le puttane molto, oppure poco?
Se fra gli adiafora del saggio, le cose non importanti, c’è il sesso, non sarà la Procura di Milano poco saggia?
Nell’ordine della creazione, viene prima Ruby o prima Boccassini?
Se la nostra rovina sarà l’indifferenza, che ce ne frega?
“Si uccidono le persone se gli si toglie loro la possibilità di esprimersi” (I.Bachmann): perché questo abortificio è tollerato, e anzi si pratica in età adulta?
Perché la tolleranza si difende con l’intolleranza?
E sopportare è insopportabile?
Perché cavalcare la tigre se poi non si può scendere?
spock@antiit.eu