sabato 26 marzo 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (84)

Giuseppe Leuzzi

Il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Pignatone, lusingato dall’invito del “Corriere della sera”, non si sottrae e scrive una letterina in cui ricorda i casi di presenze mafiose in Lombardia. Ignaro, forse, che il giornale se ne doveva servire per una campagna politica contro la regione Lombardia, governata dai berlusconiani. La campagna è diventata subito vivace - gli insulti sono da Grande Fratello – ma che c’entra la lotta alla mafia?

Nichi Vendola non capisce che la lite è molto lombarda, e rincara: “La Lombardia è la regione più mafiosa d’Italia”. La scommessa è facile che non prenderà un voto in Lombardia, dovesse candidarsi col suo partito, alle prossime comunali e poi alle politiche: la Lombardia non è il Sud, si difende.
O anche: certe cose si possono dire solo contro il Sud.

Il reality di maggior successo in America, “Jersey Shore”, basato sulle vacanze in quella località dei giovani italo-americani, vuole le donne steatopigie, con grandi seni, e visi tondi minacciosi. Servono per mettere in scena combattimenti fra donne.
La protagonista Nicole “Snooki” Polizzi, che meglio risponde al canone dell’ampiezza, è latinoamericana. Adottata, dice, da una famiglia di italo-americani.

Nord
(dal romanzo di Astolfo, “La morte è giovane”, in uscita con Lampidistampa):
“Molti albanesi e greci arrivarono in Calabria e in Sicilia col conte normanno Ruggero e con gli Angioini manutengoli del papa, che avevano tentato di costruirsi un regno pure a Durazzo, e poi nel Quattrocento con Castriota. Ancora a fine Duecento, nel matrimonio tra Filippo d’Angiò, figlio di Carlo II lo Zoppo duca di Taranto, con Ithamar, figlia di Niceforo Comneno despota dell’Epiro, lui portava in dote Corfù, terreni in Epiro e Albania, e titoli ammassati dagli Angiò nei Balcani, duca di Atene, Acaia, Albania, Valacchia e altri luoghi marittimi e terrestri di Romania, lei Argirocastro e altre località epirote. Il nipote di Filippo, Carlo III, sarà re d’Angiò Durazzo. E questo titolo manterrà Giovanna II, figlia di Carlo III, l’ultima degli Angiò regina di Napoli. Giorgio Castriota, re dell’Epiro, venne in aiuto d’Alfonso V il Magnanimo d’Aragona, I di Napoli, contro Renato d’Angiò, del ramo francese della famiglia, e i baroni e la Lega del Nord suoi alleati, con forte rinforzo di truppe. Molti più albanesi attraverseranno il mare con Giovanni, suo figlio, in fuga dai turchi. Si stabilirono anch’essi in Calabria, dove Irene Castriota, la sorella di Giovanni, era andata sposa a Sanseverino principe di Bisignano.
“Già allora il Nord aveva tentato di annettersi il Sud: contro il Magnanimo, difeso da Castriota, una Lega fu promossa da Filippo Maria Visconti, duca di Milano, in appoggio a Renato d’Angiò. In precedenza, sotto Giovanna II d’Angiò Durazzo, che non avendo eredi aveva adottato l’aragonese Alfonso, Muzio Attendolo Sforza s’era preso con le sue bande vari pezzi del Regno. La prolifica politica matrimoniale di Carlo II lo Zoppo, che portò agli Angiò i regni d’Ungheria e Polonia, comportò la divisione del casato in tre, tra Angiò Valois, Durazzeschi e Aragonesi, che a fine ‘400 darà titolo a Carlo VIII re di Francia, chiamato dal milanese Ludovico il Moro, di tentare la riconquista di Napoli. Nella prima delle Grandi Guerre d’Italia, fino al 1559. Durò quattro anni la spedizione di Carlo VIII, che per prendersi Napoli s’era ingraziato gli Asburgo e gli Aragonesi di Spagna cedendo loro mezza Francia, con un esercito bello e imponente di artiglieria, lungo la via Francigena.
Erano tempi torbidi: a Firenze il giorno che Carlo entrò in città chiamato dai nemici dei Medici, il 17 novembre 1494, con le trombe e le campane, Giovanni Pico della Mirandola, che pure era un gigante di due metri, oltre che biondo, bello e famoso, morì avvelenato, forse dai Medici suoi protettori, o dai filosofi suoi amici, facendo impazzire il suo “amore celeste” Girolamo Benivieni. Papa Alessandro VI ne riderà: i francesi hanno “corso l’Italia con gli speroni di legno e presola col gesso”, disse, limitandosi cioè a segnare le porte degli alloggi che requisivano, non abbastanza cattivi per i suoi gusti. Poi Carlo VIII e il successore Luigi XII si presero, com’è noto, il ducato di Milano. Ma Napoli non ha mai tentato di prendersi Milano”.

Tonnellate di fango sono state rovesciate per secoli dai protestanti, quindi da quattro quinti dell’Europa del Centro-Nord, sull’Italia e gli italiani perché cattolici, papisti, gesuiti, e quindi terroristi (carbonari…), tirannici, lassisti, e anarchici. L’italiano è traditore perché è papista e quindi gesuita.
Sono argomenti polemici. Ma da parte protestante la polemica è profondamente creduta. Partendo dall’“io e il mio Dio”, che, benché superficiale, una fede da piccolo borghesi, è cultura confidente. Lo stesso la speculazione anti-Colombo e anti-scoperte: all’origine e in larga misura è protestante e nordica. Sulla linea della storia alla Pirenne: semplicemente si ignora il Sud quando non si può sovrastarlo. Oppure gli si contrappone una storia inesistente, come quella della scoperta vichinga dell’America, una storia senza tracce – dopo la deriva dei continenti, certo.

Autobio
Biografia, biopsia? L’una si fa in morte, l’altra in vita. Ma quella è agiografica, sempre celebrativa anche se critica, questa indaga uno stato patologico, è segno di una patologia. Ed è necessaria.
Capita d’incontrarsi in posti strani. “Mezzo mezzo” è espressione dialettale per dire “così così”. Sentirlo pari pari, miso miso, dall’affittacamere a Itea, dalla figlia laureata dell’affittacamere, ci ha emozionati. Venendo dopo un viaggio nei nomi dei luoghi e delle persone di casa, che erano ancora in uso durante l’infanzia e ora sono dimenticati: Profiti, Misuraca, Jeraci, Demisuli, Filartò, Cótripa, oppure Foti, Papalia, Romeo, Suraci, Macrì, Crea, Siclari, Plataniti, Paterniti, gli innumerevoli Calabretto, le Neàpoli, i Panormos, con Tropea, Platì, Policastro, Monasteraci. A partire dal Pollino, che è il monte di Apollo, i santuari il dio iperboreo voleva elevati. Pronunciati in greco moderno esattamente così, come nel dialetto di casa, anche se lo studente di greco leggerebbe Mesoraca, Jerace, Surace. Con i dolci stagionali, “nacatuli”, “guti”. I giochi, anch’essi stagionali, “palorgiu”, “carici”, la raganella sorda che rende grazie nei giorni della Passione.
Usiamo anche il rafforzativo, “ventu ventu!”, in funzione di superlativo. E parliamo indiretto, come da antica tradizione apotropaica. Per non sfidare il destino – non scuoterlo dal torpore. Al salutare “Come state?” rispondiamo: “Insomma!, “Non c’è male”, “Non mi posso lamentare”. Meglio ancora il neutro: “Non ci possiamo lamentare” – il neutro non è l’impersonale “si”, siamo tutti noi. Del resto, anche la domanda non è diretta, lo scrupolo è pure di chi chiede. Che più spesso prudente si limita a un “Che si dice?”, “Come andiamo?”
Oppure parliamo indiretto per naturale ritegno. Una madre non dice al figlio: “Ti voglio bene”, ma gli fa un complimento: “Come siamo eleganti”, “Come siamo belli”. Né l’amata dice all’amato: “Ti amo”, ma lo ammira, e se ne fa ammirare. “Non lo vedo bene” diciamo invece di qualcuno che si suppone malato grave. C’è rispetto per chi soffre, più che l’aggressivo impossessarsi delle sofferenze altrui che viene fuori ora nell’Italia televisiva, da prefiche sul podio. Non abbiamo mai avuto prefiche ai lutti, lamentatrici professionali.
Il ritegno era ritenuto naturale anche nel dolore, il proprio, dei propri familiari, la disgrazia, la malattia, la morte. Ora sempre meno. E sempre più invece parliamo in dialetto. Sempre meno nella forma intermittente, esornativa, espediente alla narrazione, sempre più invece in forme dure, per il tono, l’accento, accentuate, cupe. Come a calare una saracinesca.
La scoperta della storia è esilarante. Benché sempre muta. Probabilmente anche araba, a giudicare dai toponimi, Buzzurra, Meja (la mellah, quartiere ebraico), Morabito, Vadalà, Sciarra (Sciari), Sciortino, Saracino, Albanese. E lo zibibbo. Una storia anche bruzia, vagando per la Montagna se ne trovano ancora le pietre.

leuzzi@antiit.eu

La guerra giusta dopo Hitler è partigiana

La teoria della guerra il grande giurista fa semplice: può essere combattuta e vinta solo in un quadro generale di libertà. E: se c’è una guerra giusta, è quella dei partigiani, che è sicuramente e soltanto di difesa. E poiché gli eserciti regolari si trovano male nella guerriglie, per organizzazione e tattiche, e sono portati a reagire con abusi, se il conflitto si produce entro culture democratiche le potenze sono destinate a perderci l’onore, oltre alla guerra. Così è stato per la Germania, la Francia, gli Usa nel Vietnam, l’Urss in Europa. L’errore di Hitler prima e di Stalin dopo: per fare gli asiatici bisogna stare in Asia.
Opera riparatoria a freddo? Piena di formalismi. C’è un caso di guerriglia vittoriosa contro un regime dispotico del Terzo mondo?
Carl Schmitt, Teoria del partigiano

venerdì 25 marzo 2011

Anche parlare della mafia è colpa del Sud

Il Procuratore di Reggio Calabria Pignatone ha ricordato giovedì con una lettera al “Corriere della sera” che in Lombardia, come altrove in Italia, sono in affari le cosche. In particolare della ‘ndrangheta, la mafia calabrese. L’Assolombarda il giorno dopo risponde con l’ovvio: “In un momento delicato per la sopravvivenza di molte aziende stremate dalla crisi la cultura della legalità è una delle condizioni affinché la competitività sia garantita”. Ma è anche guardinga: “È inoltre fondamentale difendere la reputazione del territorio presso gli investitori internazionali”. Che in tempi difficili, aggiunge l’associazione degli imprenditori lombardi, tendono a preoccuparsi di tutto.
È in effetti dubbio che la mafia calabrese esporti soldi in Lombardia, per quanto “facili”, soldi in quantità economicamente rilevante - sarebbe la vecchia pulce che pretende di guidare l’elefante. Anche perché non ci sono in realtà soldi facili: quelli sbiancati costano caro, oltre che essere limitati. Il problema dell’Assolombarda sono i capitali veri: nazionali, internazionali, bancari, rispetto ai quali la ‘ndrangheta è una virgola. Che dire omertose le imprese in Lombardia allontana - questo si può dire impunemente in Calabria, dove niente appunto cresce.
Ma il Procuratore Pignatone non dice questo. Il “Correre della sera” ha usato la lettera del procuratore per rispolverare una indagine di due anni fa, in cui si parlava addirittura di “colonizzazione” da parte della ‘ndrangheta di vaste porzioni della Lombardia, per esempio attorno a Malpensa – nomen omen. E si affermava che in Lombardia vige l’omertà: “Le indagini consentono di ritenere che sussistono in capo alla generalità dei cittadini che vivono in questa porzione di territorio condizioni di assoggettamento e di omertà”.
Considerare la “generalità” della Lombardia, la più popolosa delle regioni italiane e la più ricca in Europa, “assoggettata” alla ‘ndrangheta, è certo eccessivo. Ma questo lo dice la Procura di Milano, l’indagine di due anni fa è la sua. Alla quale però né il “Corriere della sera” né l’Assolombarda hanno osato contestarlo. Aspettavano che si facesse vivo il Procuratore di Reggio, in una lettera che il giornale ha tutta l’aria di avere sollecitato, per “sollevare la questione”.

Il mondo com'è - 59

astolfo

Duemila – Il terzo millennio è cominciato non diversamente dal secondo: nell’incertezza e l’insocievolezza, perfino la peste ha continuato ad aggirarsi minacciosa, ogni anno in varie forme. Si era ritenuto di dedicare il terzo millennio all’immaterialità, considerando la fame sconfitta se non la malattia, e alla riflessione: ricostituzione dell’equilibrio naturale, riorganizzazione sociale, stabilizzazione emotiva e psicologica, approfondimento a allargamento culturale. Una sorta di eden. Mentre è una giungla perversa, perfino forsennata.

Europa – È impressionante – sarà un monstruum per il futuro storico – come sia diventata in breve una piccola cosa, un mercato regionale, grande e ricco ma non più influente della sua dimensione geografica, che è sempre stata piccola. Le decolonizzazione e la Comunità hanno portato l’Europa, dopo tremila anni di egemonia, all’isolamento. L’Africa mantiene qualche legame per via dell’emigrazione, ma malvolentieri: dalla Somalia all’Egitto la stella è l’America. In Sud America e in Oceania l’Europa si è letteralmente cancellata.
La caduta del comunismo ha accentuato la regressione. Era l’ultimo impero europeo, e l’ultimo messaggio. Come avvenimento, la caduta del 1989 non ha peraltro superato in curiosità, in Africa, in America Latina, in Oceania, nella grande Asia, un qualsiasi colpo di Stato nel Centro America o nel Medio oriente.

Fascismo – È, si tralasci l’Italia,la capacità di mettere ai margini le idee buone (la giustizia, la democrazia, l’uguaglianza), attraverso la violenza oppure la circuizione. Una ricetta oggi diffusissima. La strumentazione può essere totalitaria oppure democratica, la base è sempre la popolarità.

Famiglia - È femminile, avendo ribaltato i ruoli. Non solo affettivi e pedagogici ma anche, in buona misura, economici. Con una differenza: mentre nella famiglia maschile la donna aveva e manteneva un suo ruolo, se non altro come genitrice e nutrice, ora l’uomo non ha alcun ruolo. Qualsiasi educatore lo sa a scuola, dove gli allievi sono costituzionalmente incapaci di disciplina, prima che perversi, o ribelli, o deviati, etc. Qualsiasi parroco lo vede all’oratorio e in chiesa, qualsiasi datore di lavoro nelle prime occupazioni. E infine qualsiasi donna quando comincia a innamorarsi o pensa di mettere su famiglia. Il circolo si è già chiuso.

GermaniaKultur come erudizione, garbo, cosmopolitismo? Non più. Come senso degli affari, iniziativa, rispetto degli impegni, alla maniera americana? No, di più: è cultura della differenza. Che oggi è mancanza.
La riunificazione non ha fatto “ritrovare” i tedeschi, non li aiutati a ricomporsi, a ricomporre se stessi. Al contrario, i problemi del presente (dopo la riunificazione la globalizzazione, la delocalizzazione, l’euro) hanno accentuato la rimozione del passato. E il tedesco ha le vertigini: senza storia non ha più equilibrio, senza punti di riferimento assodati.

Guerra– Banalizzata dalla televisione, continua tuttavia a far paura ai molti, perché remota, inaccessibile. Si penserebbe la guerra remota meno paurosa, poiché tiene lontano il danno, e invece no, dà la misura dei limiti della politica. Dà a ognuno la misura della propria inesistenza politica.
Quella alla Libia, come già alla Serbia, è specialmente paurosa perché è esercizio di odio puro, o disprezzo, senza finalità pratiche – anzi con qualche costo.

Italiano – Nell’eterno dissidio con la Francia, le due “sorelle latine”, curiosamente ritornante a ogni angolo della storia, si riflettono due nazioni in realtà molto distinte. In ragione inversa della loro storia. Caratteri diversissimi (modi di essere e di pensare) sono omologati in Francia da un linguaggio nazionale ferreo. Gli italiani invece, che sembrano molto diversi fra di loro, sono molto simili nel carattere, nella psicologia, nel subconscio, da Cuneo a Canicattì. Ma hanno linguaggi estremamente diversificati e perfino non conciliabili – il problema non era di fare gli italiani ma l’italiano.

È dominato dalla passione, dice Stendhal, dal capriccio, dalla fantasia. Una piacevole dote e una condanna. Ma più forte è la continuità. Nella storia e nel territorio. Anche se strana, bizzarra perfino negli accadimenti spesso sconvolgenti, le divisioni persistenti, le incompatibilità sempre più accentuate, perfino negli odi. La continuità è tuttavia nell’unità: è l’effetto unificante della lingua.

Mediterraneo – La riscrittura della storia negli ultimi cinque secoli, in conseguenza della Riforma e della fuga da Roma, con la serie infinita di abiure imposte e richieste di perdono per gli errori (che tali peraltro non sono in chiave comparativa: quanti orrori nel protestantesimo!), ha comportato non solo la squalifica della chiesa al di là dei suoi demeriti, ma anche quella del Mediterraneo. È la Riforma, più che le scoperte, ad avere emarginato il Mediterraneo.
La riprova è nel destino infelice di Spagna e Portogallo, potenze anch’esse atlantiche, e prima della Riforma meglio piazzate nelle scoperte rispetto all’Olanda e all’Inghilterra un secolo dopo. In conseguenza della Riforma, la chiesa è riuscita a recintare l’Italia, la Spagna e il Portogallo, ma anche i riformati hanno steso un cordone sanitario, dottrinale e pratico, sopra il Mediterraneo. Dei paesi cattolici hanno prosperato la Francia e l’impero asburgico, potenze continentali
più che mediterranee, che peraltro si tenevano a cavaliere, con gli ugonotti, i libertini, gli illuminati, il giuseppinismo, della Riforma.
Da ricco ch’era, e considerato, il Mediterraneo è diventato d’improvviso povero, e non considerato. Con la perdita quasi in contemporanea dell’autostima, come oggi si dice, di ogni considerazione di sé. Le ultime idee buone dell’Italia, i Comuni e il Rinascimento, sono “opera” di due svizzeri, Sismondi e Burckardt. L’unico apprezzamento della mentalità pietistico-cattolica si deve a un tedesco, Max Weber, che conosceva bene la latinità. E la rivitalizzazione del mondo greco, qualsiasi cosa esso fosse, si deve a due tedeschi, uno ispirato all’antichità, Nietzsche, e uno di formazione cattolica, Heidegger. Ma col ridicolo tentativo – molto “riformato” – di saltare la storia e fare dei greci, dei filosofi greci non dei pastori di capre, i progenitori dei tedeschi, il nazionalismo può facilmente essere ridicolo.
Il disprezzo del Sud è ipermoltiplicato nell’ultimo quarto di secolo. È un pregiudizio: si applica già a chi abita al pianterreno rispetto a chi abita all’attico, e alle persone basse di stature rispetto a quelle alte. Come tale potrebbe quindi rovesciarsi d’improvviso: le persone brune, per esempio, sono ritenute più sane di quelle pallide, oggi rispetto a uno-due decenni fa. Ma la tendenza resta solida.
L’unico filone vivo del Mediterraneo è il rinato ebraismo. Mette insieme il fondamentalismo, cioè il recupero totale della tradizione, con il suo opposto, il modernismo, anzi con una sorta di bulimia delle novità. È rinascente, quindi pieno di energia e di stimoli. Se si confermerà un fenomeno mediterraneo, il che però è dubbio. È nato in Germania e viene dall’America - dall’America come luogo culturale più che geografico: l’università di Gerusalemme potrebbe trovarsi nella Nuova Inghilterra. Tende anche a saltare la sua millenaria storia mediterranea – latina e cristiana.

Riforma – L’uomo della riforma è l’uomo divinizzato del Rinascimento. Divinizzato più propriamente, attraverso la fede e la grazia e non attraverso l’erudizione e Orazio – l’erudizione certo non manca, nel culto della parola sacra. È l’uomo pre-Copernico, ancora tolemaico: l’uomo della Riforma è come quello del Rinascimento sempre al centro dell’universo.
O anche. È l’uomo copernicano nel senso più vero, se non più proprio. Copernico, Galileo danno l’orgoglio di possedere il mondo – di capirlo, cioè di dominarlo.

astolfo@antiit.eu

giovedì 24 marzo 2011

La scoperta della "Libya", e delle tribù

È più semplice, e più classico, Libia, ma nelle cartine della Rai si legge Libya. Per non dire di Agedabia, che si scrive e si pronuncia più corretto così, ma gli inviati dei grandi giornali trovano il tempo, nelle corrispondenze che s’immaginano concitate, di compitare Ajdabiiya. Questa guerra avrà avuto il merito, si dice per dire, di portare alla luce la Grande Ignoranza che ha colpito l’Italia. Una sorta di analfabetismo di ritorno, se neanche Bernardo Valli si ricorda più che, bene o male, è l’Italia che ha introdotto la Libia alla contemporaneità.
Con tanti fini arabisti e islamisti nei suoi ranghi, “Repubblica” affida a Thomas L. Friedman, un giornalista americano, la grande novità, che tutti sanno, che alcuni paesi arabi sono sempre tribali, e cioè la Libia e l’Iraq, oltre alla penisola arabica. In aggiunta, va ricordato, fuori dalla cornice araba, all’Afghanistan. È un caso che siano i tre paesi nei quali gli Usa ci hanno convitato alla guerra? Non si vince mai con i paesi tribali, questo è un dato che qualsiasi contemporaneista sa per certo.

I missili italiani non sono innocui

Sono missioni delicate, quelle dei caccia italiani, e non innocue. Molto più complesse e difficili che il rapido puntamento dell’obiettivo e sganciamento. I piloti di Trapani Pirgi sono specializzati nella caccia ai radar avversari attraverso l’uso di missili Harm (High-Speed Anti Radiation Missile), e ai siti avversari di missili anti-aerei. In questo secondo caso, l’armamento Harm è corredato anche di bombe a grappolo (cluster bombs), che s’indirizzano sullo stesso obiettivo individuato dalle radiazioni captate degli Harm, ma non con la stessa precisione.
I caccia Tornado, equipaggiati con gli Harm, sono peraltro scortati da altri caccia, Amx o F-104 Starfighter, pronti a colpire qualsiasi bersaglio si manifesti che contrasti i puntamento e l’attacco Harm. Nel 1999, com’è noto, nei tre mesi di guerra alla Serbia, furono lanciati 115 missili Harm, e “alcune centinaia” di bombe di vario tipo, comprese le micidiali cluster bomb.

I barboni meglio di un giallo

Un esercizio di abilità del noto giallista - che si dimena per uscire dal genere, e dall’incongruo nome di penna: un vocabolario scintillante di argot giovanile e dei rimbombi di aulici riferimenti, attorno agli emarginati di qualsiasi periferia, barboni o dementi, qui specialmente maleodorante, tra terreni di riporto, una scogliera impervia, una discarica. Una favola, a volte calco esopico dichiarato, di destini perduti, compreso il Ben Adam che tutto ha visto e sa nel candido paramento della nota pubblicità. Che tuttavia si legge, un bozzetto senza bozzettismo.
Yasmina Khadra, L’Olympe des infortunes, Pocket, pp. 188, € 6,20

Il giudice Usa ordina la fine del libero mercato Internet

La sentenza del giudice americano Chin che condanna la libreria-biblioteca online di Google, su iniziativa degli editori, malgrado la transazione già definita tra le parti in causa, non condannerà forse Google, ma certamente sì il mercato Internet come mercato free, a costo zero o limitato. La sentenza del giudice Chin è a vantaggio dei concorrenti di Google sull’online, e imporrà a Google una transazione più onerosa con gli editori, a spese dei fruitori – i navigatori. È d’altra parte singolare che un giudice si pronunci su una materia che non è più oggetto di contesa, se non appunto nel senso di favorire una delle due parti in causa. Ma si restringe ulteriormente il mercato libero di Internet.
Lo stesso giudice lo riconosce. “La creazione della biblioteca digitale (Google) sarebbe stata un’ iniziativa a vantaggio di molti, tra cui biblioteche, scuole, ricercatori e popolazioni svantaggiate”, ammette. Riconoscendo che l’accordo intercorso “avrebbe consentito ad autori ed editori di trovare nuove audience e fonti di guadagno”. Nonché assicura “ai libri rari e antichi” di “essere preservati, trovando nuova vita”, a vantaggio dei molti che sono esclusi dalle biblioteche. Ma “l’accordo intercorso va troppo in là”, sentenzia, in quanto dà a Google “un vantaggio sleale rispetto ai suoi concorrenti”.
La procedura contro google-books era stata avviata ne 2005 dagli editori e dagli autori congiuntamente, a protezione dei propri diritti. La vertenza si era conclusa tre anni dopo con una transazione, con la quale Google s’impegnava a pagare fino a 125 milioni di dollari a editori e autori le cui opere fossero finite, senza il loro consenso, nella sua libera libreria online. Nell’occasione la biblioteca si trasformava in libreria, offendo l’opportunità a editori e autori di utilizzare anche la libreria virtuale, con una ripartzione a tre degli utili, circa il 33 per cento a ognuno dei tre soggetti interessati.
Apparentemente il giudice apre nuovi spazi agli autori. Criticato aspramente dagli autori, che ne giudicano la sentenza tardiva e inopportuna, il giudice Chin chiede un nuovo accordo che consente ai titoli dei diritti d’autore di poter decidere autonomamente se partecipare agli accordi fra Google e gli editori. Ma in realtà, gli autori e i loro aventi diritto avevano già questa facoltà: Chin ha voluto soltanto rendere più oneroso l’accesso a Internet.

mercoledì 23 marzo 2011

La guerra del giornalista inutile

Succede in Libia all’opposto che nella guerra del Golfo, “la guerra che non c’è mai stata”. Lì i giornalisti non sapevano nulla di quanto succedeva. In Libia invece, che si trovino a Bengasi invece che a Tripoli, i giornalisti sono inondati di “notizie”. Da molto prima che la guerra cominciasse. Anche di fotomontaggi e foto di scena – si ricorderà che la Reuters dovette ritirare una trentina di foto che scoprì esserle state fornite dai servizi segreti britannici. E non è tutto: sono anche obbligati a “recitarle”. Non a riscontrare notizie e immagini, o comunque a dire quello che vedono, sentono, capiscono, come sempre hanno fatto i giornalisti: devono limitarsi a dire quello che viene loro detto di dire, dalla redazione.
Questo non avviene solo alla Rai. Anche gli inviati delle reti satellitari americani danno netta l’impressione di riferire quello che ascoltano in auricolare, o che gli è stato detto di dire prima del collegamento: sono incerti, si confondono, s’impappinano. Di vero nella guerra c’è solo quello che la Coalizione vuole che si vero. Che forse è normale in tutte le guerre, l’informazione al fronte è sempre stata regolata. Ma all’epoca della televisione e della diretta, il giornalista si scopre specialmente indigente, solo utile.

La Nato non c’è perché non c’era

Se n’è accorto presto anche il segretario generale Rasmussen, che la Nato non esiste, nei resoconti delle sue intemperanze che il “Financial Times” ieri ha riferito. Perché il fatto è noto da tempo. Solo in Italia persiste il simulacro della Nato come alleanza occidentale, per un’opinione pubblica che troppo a lungo è stata antiamericana, e adesso intende recuperare con manifestazioni esagerate di americanismo.
Il fatto era emerso in pieno nelle celebrazione dodici anni fa del cinquantenario. Ed è confermato dalla dottrina internazionalista: la Nato ha esaurito la sua funzione di alleanza militare con la fine della guerra fredda. Nell’ambito della quale era nata, benché concepita nel 1944, nel pieno della guerra al nazismo. È la proiezione della politica estera americana nella forma wilsoniana: del dominio attraverso la democrazia.
È stata rilanciata dopo il crollo dell’Urss come forza di polizia internazionale. Ma allora esplicitamente alle dipendenze degli Usa: per gli obiettivi cioè che di volta in volta gli Usa indicano, sia pure attraverso l’Onu, e non per fini istituzionali, previsti cioè dai patti di alleanza. Con una distimnta funzione antirussa e antislava inizialmente, che poi si è appannata. E sempre con una estensione deisuoi compiti, sia territoriale, sia funzionae, che nulla hanno della allenza militare contro le aggressioni esterne quale statutariamente ancora è. La Francia e la Germania che, a diverso titolo, si sotraggono, in realtà non si sottraggono ai vincoli dell’Alleanza – non alla lettera, ma certo al comando americano.

Non è più nell’interesse dell’Italia

Arrivata dentro il Mediterraneo, dove avrà prevedibilmente più di un caso da fronteggiare, la Nato post-guerra fredda non è nell’interesse dell’Italia. Una linea dissociativa, per ora minoritaria,si fa strada anche in Italia tra gli specialisti di politica estera – che è come dire la Farnesina, in Italia non c’è una grande cultura di politica internazionale. Che per ora si limita a riflettere le posizioni della Germania e della Francia. Due paesi e due governi non avventuristi, che però si sono riservati un’ampia zona di discrezionalità nella Nato post-guerra fredda. Ossia, detto brutalmente, nella Nato intesa come forza di polizia. Di cui sono state ipotizzate come aree di interesse anche il Golfo, oltre all’Afghanistan, Iran compreso, e l’Africa.
In precedenza la Nato aveva evitato d’intervenire nel Mediterraneo, area sensibile, anche se gli stati l’avrebbero obbligata. A Cipro non intervenne perché le due parti in causa erano entrambe della Nato. In precedenza, però, non era intervenuta in Grecia, che pure era sua “area di competenza” post Yalta. Dopo la caduta dell’Urss, invece, il Mediterraneo è diventato teatro d’operazioni privilegiato. In Libano più volte. Poi contro la Serbia. Ora contro la Libia. Senza effetti positivi, e con molti danni agli assetti dell’area. Dove i punti di crisi sono potenzialmente numerosi, in tutto il Nord Africa, e non esclusa Cipro, se la Turchia fosse lasciata fuori dall’Ue.
L’Italia finora è sempre stata allineata agli Stati Uniti. Senza se e senza ma. Senza alcun beneficio peraltro, nemmeno di sostegno diplomatico. L’autonomia di decisione che la diplomazia rivendica nei confronti della Nato è in realtà una presa di distanza dall’acquiescenza non contrattata con gli Stati Uniti.

Gheddafi non è solo

La Libia non è il solo paese del Mediterraneo senza democrazia. Con vari gradi di legalità, tutto il Nord Africa e il Medio Oriente sono materia di esercitazione per i diritti civili e politici. Per non dire dell’area del Golfo, dove una dozzina di Stati si reggono su regimi autoritari e anzi totalitari, nella politica, nella religione, nei diritti civili.
La risoluzione dell’Onu anti-Gheddafi si applicherebbe a questi stati del Golfo più a ragione che alla Libia del Colonnello. E anzi, a leggerla bene, si applicherebbe con ragione anche a regimi ormai consolidati nell’equilibrio mediorientale, quali quello siriano e quello egiziano (dopo Mubarak è cambiato poco o nulla). E perfino all’Algeria, e ai due paesi meglio integrati nell’area d’influenza americana, la Giordania e il Marocco.
Il panorama dei troppi rischi di un’estensione non calcolata della “guerra umanitaria” è stata fatta non per prendere le distanze dalla guerra alla Libia, della quale l’Italia ormai è parte, ma in vista di un riallineamento della politica estera italiana.

Perché Napolitano è oltranzista

L’Onu parla chiaro: la risoluzione del Consiglio di sicurezza che ha avviato la Coalizione anti-Libia vuole un’azione limitata. Lo sanno anche tutti gli italiani perché Vespa l’ha letta alla televisione. Invece il presidente Nap0olutano è per la guerra, per la guerra cioè a oltranza, e questo stupisce la politica, i politico di ogni schieramento. Il presidente della Repubblica continua a insistere, non richiesto, sul capitolo VII dello statuto dell’Onu, dove sono previste “risposte militari” per assicurare la pace e la sicurezza. Tralasciando la lettera e le intenzioni della Risoluzione anti-Libia del Consiglio di sicurezza.
Se ne danno letture variate. Una vorrebbe Napolitano capo militante, piuttosto che notarile, dello Stato negli ultimi due anni del suo mandato. Un’altra all’opposto lo vorrebbe vittima della sindrome del ruolo e dell’età, che aveva colpito anche Scalfaro. Ma finire a sinistra il mandato, in armonia con una vita politica, collide col militarismo, sia pure contro una dittatura. E con una scelta anche politica molto di parte.

Secondi pensieri - (66)

zeulig

Amore – Eterno ma ben mutevole, più di ogni altra nozione. Non c’è più l’abbandono né la sorpresa. Né i “grati rispetti” né la fedeltà. È un gioco di scacchi, che è poi una volgare one-upmanhip e un braccio di ferro, “ti tengo a bada”. Fra gli adulti, fra i giovani e i giovanissimi. Il fatto economico (consumo) è prevalente, esplicito Ersatz o compensatore universale. Perfino fra gli ecologisti: chi offrirebbe con gioia, e chi riceverebbe con gioia, dei fiori?
Non c’è più il gusto del’intimità perché non c’è più la passione? Non più rapporto a due, l’amore è una delle tante cadenze sociali. Meno apprezzato, meno apprezzabile, perfino del lavoro, che un tempo era semplicemente “rifiutato” – del lavoro nelle condizioni degradate della globalizzazione e della produzione di massa.
È l’effetto delle leggi? Le leggi che disseccano la coppia avrebbero reso la coppia stessa insignificante di fronte agli altri rapporti sociali. Non è così in Francia o negli Usa, dove il divorzio è normale da un paio di secoli. È l’effetto di un certo femminismo, che ha appiattito, con cristiana voglia di purificazione – purificare è sterilizzare (desertificare) – i rapporti personali. Senza tramutarli in amicizia o in comprensione – se non sempre entro lo schema dell’one-upmanship(ogni gioco di superbia si rifà a Dio). Un femminismo autoctono, già di seconda o terza generazione, anteriore dunque a quello politico, in cui i genitori hanno abbondantemente disseccato i figli.

Famiglia - È – dovrebbe essere – il luogo dell’amore. Per questo è in crisi: vi si scaricano tutte le tensioni, vere, somatizzate, storiche (femminismo) della contemporaneità. Il fattore generazionale può contribuirvi, soprattutto ora che il ricambio si accelera, ma solo in teoria: i ragazzi d’oggi sono molto più legati ai genitori di quelli degli anni Sessanta, della modernizzazione intesa come fuga o autonomia. Quello che manca è l’istinto dell’amore, supplito dalle pulsioni al mercato (consumo), ostensive-gratificanti.
L’amore genitori-figli, sottostimato da Freud come ogni altra pulsioni positiva e non distruttiva, è probabilmente il più bello (naturale): la famiglia africana e quella araba ne ricevono una particolare luce. È fiducia, è intelligenza, è ricchezza. Non essere amati è la dinamo della nostra nevrosi – dell’incapacità di amare.

Fantasia - È la dote più economica (cheap) che ci sia, un bene da magazzino popolare. Eppure molti ne mancano.

Femminilità – In tutte le epoche, e molto prima dell’ideologia mediterranea della sottomissione, o della Madre Divorante, è stata ritenuta fonte pura del piacere (gaudio), non come vaso ma come presenza. Solo oggi, per la prima volta, viene negata e derisa.

Fenomenologia – È vivace ma è falsa. E poiché si pone sulla via della verità, è insopportabile.
È opportuno liberarsi della sua pretesa di verità: strutturalismo, semiologia, anche l’ermeneutica. Nessun segno ha significato, vedi il linguaggio. Tutto, anche i segni, è opus incertum Che la fenomenologia però rischiara in modo sgradevole, come uno sciamano goffo.

Filosofia – È da tempo grammatica: morfologia, sintassi, etimologia. Lo stesso estetismo trito postmoderno è grammaticale (retorico). Il pensiero debole riedita la questione umanistica fra grammatica e filosofia, risolvendo questa in quella – all’opposto di Marsilio Ficino e Pico, che volevano risollevare, nonché la filosofia, la stessa retorica dalle trovatine dei grammatistae.
Molto faticosa questa identificazione nei francesi, Foucault, Barthes, Serres, Derrida, Blanchot… Laboriosa e inutile. Non appassionante anche, a parte le battute di spirito.

Finzione – Non è artificio. La finzione è un sistema conoscitivo parallelo: come se, rebus sic stantibus, lo specchio… L’artificio è una tecnica, basata sul falso (fake), la finzione è un sistema (trappola) di verità.

Foucault – Sesso, da intendersi membro virile, metafora del potere. Proprio oggi che la virilità non conta più nulla. O è quello del gay per (e contro) il gay? Un potere circoscritto, categoriale. E un potere plurale, in questo senso condiviso.
Ecco perché il pluralismo era – è – del membro virile. È anche un potere-contro – vedi il Foucault gioioso untore di Aids. Una democrazia del c. - doppio - si potrebbe anche dire. Gadda e il suo priapo mussoliniano sono un caso di sudditanza. Mano ai manici!

Futuro – È sempre “migliore”. Consente di aggiustare il tiro sulle cose che non vanno. E un’idea: l’idea del futuro, equivalente della speranza.

Identità - Non si può essere se stessi da soli: nelle epoche di riflusso – di microidentificazione, di stanchezza – è quindi un problema, insolubile. Anche perché, tema del Novecento, non è stato preso per i capi giusti, lungo tutto il secolo, da Freud (animalità), Pirandello (relazione), Joyce (disintegrazione), Heidegger (piccolo nazionalismo), Hesse, beat, Vattimo (adolescenza).

Freud l’identità vuole confliggente. È un tentativo di uscire dall’indistinto della natura in cui egli stesso precipita l’umanità, quindi di comprensione. L’identità conflittuale come una forma di assertion, di esercizio di potere. Perché tutte le forme conoscitive nostre, occidentali, anche i rapporti più intimi, sono forme di controllo, e quindi di dominio.
Ma resta forte l’identificazione di gruppo: la famiglia, il genos, la storia (cultura). Residuo dell’identificazione panica, fra terrore e rilassamento totale. Nella spinta all’individualismo (isolamento) che ha preso l’ansia di conoscenza-controllo, quell’identificazione beneficia anche dell’attrattiva della nostalgia.

Kant dice il senso della comunità forte presso i poveri, gli svizzeri per esempio, e i tedeschi di Vestfalia “Antropologia dal punto di vista pragmatico”: quanta ingenuità in questo pragmatismo), mentre per i ricchi patria ut bene. È lo spirito del rinascente capitalismo (mobilità, urbanizzazione, intrapresa). Non c’è nessuno che sia felice da solo. Né c’è cosmopolitismo senza radici.

La commozione e il “chissà se ci rivediamo” delle persone gravemente inferme esprimono il dispiacere per la perdita incombente degli affetti, la non oscura paura della morte. È il timore di un’attesa deprivazione, ma riguarda il rapporto con gli altri e non la perdita di se stessi.

Intolleranza - È connaturata più spesso ai migliori (puri, disinteressati, modesti, angelici). Intollerantissimi sono stai i Fraticelli, eredi di san Francesco, antisemiti, dispensatori di patenti di eresia e ogni ombra, che volevano semplicemente una chiesa povera. Se avessero vinto, il mondo avrebbero bruciato con i roghi. Lo stesso poi con i domenicani. E ora con i khomeinismi, i qaedisti, i salafiti.

Neo Impero – L’equilibrio del terrore necessiterebbe la moltiplicazione e la diffusione delle armi nucleari, testate e vettori: finita l’era dei due gendarmi, l’equilibrio non può che essere pluralistico. Una forma di democrazia nucleare, che però sarebbe incontrollabile, e quindi per se stessa nemica dell’equilibrio.
L’alternativa sarebbe sempe il disarmo generalizzato. Ma se Hobbes ha ragione, se un disarmo non è possibile, allora ecco l’imperialismo imporsi, nella forma dantesca o tardo-medievale del dominio dell’Uno, Astrea.

zeulig@antiit.eu

martedì 22 marzo 2011

La Libia costerà caro

L’Ue sorridente a Parigi alla decisione di attaccare la Libia lo ha dimenticato per un attimo, ma il vincolo di bilancio già pesa più di ogni altra incognita nella guerra. Da dove tirare fuori i soldi per fare la guerra a Gheddafi? Tremonti si era appena impegnato col maestro Muti ad allentare i cordoni della Borsa verso la cultura che deve provvedere ora a esigenze ben più cospicue per finanziare la guerra.
Per la guerra Napolitano non ha preteso copertura. Del resto in Italia si va in guerra senza nemmeno un atto del Parlamento. Ma una variazione s’impone, una nota di bilancio: il dibattito domani in Parlamento sarà unanimistico, ma sullo sfondo dei prossimi tagli, o di una qualche imposizione fiscale, per finanziare la partecipazione alla guera. Non se ne parla perché anche l’opposizione, schierata dietro il presidente Napolitano, non vuole affrontare il rischio di un dibattito. Mentre Tremonti non ha interesse malgrado tutto a parlarne.
Il superministro dell’Economia sa che altre spese militari lo esporrebbero a una fine politica anticipata – da qualche tempo Tremonti dirada la presenza pubblica, i sondaggi gli imputano l’impopolarità dei tagli all’università e alla cultura, quasi un novello Amato. E tuttavia le spese militari vanno aumentate, a scapito di altre poste di bilancio. Né c’è elasticità possibile all’interno del bilancio della Difesa: le spese militari erano già state dichiarate intangibili a settembre, sebbene potessero consentire tagli ben più cospicui e meno dolorosi che quelli alla ricerca e alla cultura.
Poi ci saranno gli effetti collaterali. Uno, immediato, è qualche migliaio di libici morti sotto i bombardamenti. Non molti, certo, rispetto ai centomila, circa, uccisi dall’Italia nei vent’anni di colonialismo. E certo non è colpa dell’Italia. Ma l’altro effetto collaterale sarà il rincaro dell’energia – magari in coincidenza anche col blocco del nucleare che s’imporrà dopo Fukushima. Che sembra un’inezia – cos’è a fronte della democrazia in Libia (la democrazia in Libia…)? - ma riaccenderà l’inflazione: la ripresa, se c’era, sarà strangolata, la disoccupazione crescerà, i salari si ridurranno ulteriormente e il potere d’acquisto. E si complicherà la già complicata crisi finanziaria con l’aggressione all’euro. Senza complotto naturalmente, è la maniera d’essere dell’Occidente non più sfidato dall’Urss.

Verso una guerra di usura

Dopo quattro giornate di bombardamenti, con 70-80 missioni al giorno, tutti gli obiettivi militari in Libia dovrebbe essere fuori uso. La Libia, si ricordi, pur avendo un territorio molto vasto, ha una popolazione di appena cinque milioni di abitanti, agglomerati in pochi centri urbani. È così che a poche ore dall’intervento aereo massiccio delle forze della coalizione l’opinione prevalente tra i militari che ci andrà a una guerra d’attrito. Impropria, poiché la Coalizione non potrà comunque impiegare forze di terra, ma non lampo.
Pesano in realtà sull’interveto armato una serie di equivoci. La risoluzione dell’Onu è imprecisa e comunque debole: non consente un intervento massiccio (la risposta limitata è, com’è noto, poco apprezzata dalla manualistica). La Coalizione è avventizia, tra forze disparate. E non ha coesione politica, né di comando. La Libia è un territorio immenso. Gheddafi si manifesta sempre al comando, l’opposizione è confinata a Bengasi – e non avrebbe dimostrato speciale consistenza, i rapporti dall’interno della Libia non sarebbero più ottimisti come un mese fa.

Che fare in Libia?

Fallito il primo colpo e cominciata quella che potrebbe essere una guerra d’attrito, ci si interroga ovunque in Europa e negli Usa sugli obiettivi della Risoluzione dell’Onu. Che ora si scopre imprecisa, ma soprattutto debole, sia sulle regole militari d’intervento sia sugli obiettivi politici. La singolarità maggiore, tra le tante di questa guerra, è che nessun riconoscimento è stato effettuato del Consiglio popolare o rivoluzionario di Bengasi, in favore del quale la risoluzione Onu in teoria è stata presa.
Sul piano militare, nessun bombardamento a terra sarebbe consentito, non giuridicamente fodnato. Si tratterebbe solo di un’azione limitata, per impedire all’aviazione di Gheddafi di bombardare i ribelli. In particolare non è precisata l’“estensione” dell’intervento. Quali capacità militari si possono utilizzare, con che intensità, con che durata, e a quale scopo. Rovesciare Gheddafi? Impedirgli di abbattere la resistenza? Dividere la Libia? I precedenti non aiutano la discussione, perché gli obiettivi vi figurano fissati in anticipo rispetto all’intervento, sia nel 1991 nel Golfo, che nel 2001 e nel 2003 in Afghanistan e in Iraq. Ora invece devono essere elaborati.
Smaltite le pressioni Usa per il voto alle Nazioni Unite, ovunque ci si interroga su che cosa si è in realtà deciso e cosa si vuole fare. Non si fa la guerra per la guerra, ma per un obiettivo di pace. In questa guerra, se si sa chi è Gheddafi, ma si sa da quaranta e più anni, non si sa invece per che cosa si combatte. Come in Afghanistan e in Iraq. Quello ch si vede è la Francia impegnata, con l’Inghilterra, a prendersi il petrolio libico, lasciando l’Italia in un mare di profughi - che è la lettura volgare dell’uomo della strada ma non ce ne è una migliore.

È un’esercitazione

Non è una missione umanitaria, ovviamente, ma non è nemmeno una guerra. È un’esercitazione aerea, e dei mezzi aeronavali, che Francia e Usa eseguono dal vivo: invece che contro obiettivi simulati contro obiettivi veri. Servono a sperimentare i mezzi e i materiali, oltre che i piloti e i navigatori. Privilegiati sono gli obiettivi in movimento, automobili, bus, barche. Militari e non: non c’è abbastanza spionaggio a terra per individuare gli obiettivi militari, e la guerra aerea senza un’osservazione attenta a terra è forzatamente indiscriminata.
Gli interventi militari procedono da quattro giorno così, senza una strategia. Non c’è coordinamento tra le forze aeree che intervengono. Né c’è una selezione degli obiettivi a un fine predeterminato. I cacciabombardieri della Coalizione vanno in ordine sparso, i risultati giudicando dalla risposta degli strumenti, di dinamica, puntamento, eccetera, e dell’armamento, in sostanza le varie tipologie di missili, di puntamento e di captazione (calore, radio, luminosità). Nonché dall’addestramento dei piloti e navigatori.

Obama rincorre la destra, di malavoglia

Non vuole il comando dell’intervento in Libia, si tiene fuori dalla diatribe della Nato, e non vuole nemmeno una relazione privilegiata con Sarkozy. Il presidente americano Obama ritiene il suo ruolo finito in questa crisi con la Risoluzione dell’Onu, che ha quasi imposto agli altri membri del Consiglio di sicurezza.
Obama avrebbe assunto peraltro di malavoglia una posizione d’intransigenza all’Onu sulla Libia. In linea con la decisione, presa dalla casa Bianca e del partito Democratico dopo le elezioni di Mid-Term all’inizio di novembre, di rincorrere l’ondata conservatrice. Ma senza trasporto. E anzi con la sensazione netta che un’altra guerra americana sarebbe vista male negli Usa anche dalla destra. Sarebbe dovuto a questa incertezza il ruolo sfocato assunto dall’amministrazione Usa, e da Hillary Clinton in specie, nel corso della crisi fuori dell’Onu.

Attacco boomerang per Sarkozy

Ha recuperato le Forze Armate, orgogliose del ritorno sul campo. Ma è rimasto isolato, con pochi sostenitori nei media. Mentre accumula incidenti diplomatici e rischia l’isolamento. Non tanto nella Nato, dove la Francia si fa un onore di essere isolata, quanto in Europa e con i paesi arabi.
Non ha invitato la Turchia al vertice di Parigi – pur avendo invitato la Norvegia, paese che anch’esso come la Turchia non fa parte dell’Unione europea. E ha irritato Cameron, il premier britannico, sferrando il suo primo attacco qualche minuto dopo un vertice a tre, con la segretaria di Stato Clinton, nel quale non aveva fatto cenno ai suoi caccia pronti al decollo. Ha trattato perfino con insolenza l’Italia, con un unilateralismo che perfino Frattini, detto dai suoi “il vaselina”, non è riuscito ad ingoiare. Ma soprattutto si è isolato nel mondo arabo. Qui naturalmente con il solito equivoco.
La Lega Araba (la parte della Lega Araba) che ha chiesto la No Fly Zone, ha anche chiesto un intervento non-Nato. Un intervento Onu, che a suo modo di vedere doveva essere controllato da un comando Onu. Sarkozy ha invece agito senza alcun coordinamento, e questo è dispiaciuto all’Egitto e all’Arabia Saudita, che gestiscono la Lega. Inoltre, gli aerei francesi non si sono limitati a impedire all’aviazione libica di entrare in azione contro i ribelli, ma hanno proceduto a reiterati bombardamenti. Che naturalmente i paesi arabi si affrettano a sconfessare.

Crociati e colonie

Il richiamo ai crociati della propaganda libica si sta manifestando l’arma più insidiosa di Gheddafi. Di fronte ai bombardamenti della coalizione i suoi più forti nemici nella Lega Araba, l’Egitto e l’Arabia Saudita, hanno subito fatto marcia indietro. Il richiamo all’invasione italiana un secolo fa, e alla dura resistenza-repressione che seguì, è anch’esso di richiamo. Questa è d’altra parte la lettura che dell’interveto in Libia danno i giornali in gran Bretagna e in Francia.
In Francia la stampa locale vive l’intervento come una “lezione agli arabi”. In questo senso essa viene anche presentata, come una risposta di Sarkozy ai sentimenti sciovinisti che hanno riportato a galla il Front National e i Le Pen. A Londra si sprecano i richiami a Lawrence d’Arabia, anche nel “Times” e nel “Financial Times”, e agli exploits del marescialo Montgomery (sempre molto popolare sul Tamigi). Mentre il ministro della difesa Liam Fox ha poto l’obiettivo della coalizione nell’assassinio di Gheddafi.

Che commedia si rappresenta

La partecipazione attiva del Qatar ai bombardamenti in Libia ha fatto sorridere qualche generale: non si sapeva che l’emirato avesse – potesse avere – un’aviazione da combattimento, con piloti addestrati e logistica adeguata. Un paese di mezzo milione di abitanti (800 mila con gli immigrati, che sono quelli che lavorano), beduini e pescatori di recentissima ricchezza. Ma ha fatto venire qualche dubbio ai politici. Perché il Qatar è anche il paese di Al Jazeera, l’emittente più oltranzista della massimalismo islamico e arabo, e comunque antioccidentale.
Il radicalismo dell’emittente si riteneva una sorta di scudo politico dell’emirato, cioè una difesa dal radicalismo stesso. Ma la partecipazione attiva ai bombardamenti in Libia, contro ogni regola di prudenza di fronte al nazionalismo arabo e islamico, ha riacceso i dubbi su cosa stia in realtà succedendo - “in che commedia stiamo recitando”, dice un diplomatico. Il dubbio è sempre che tra il Golfo e gli Usa ci sia un ponte, per alimentare, malgrado l’11 settembre, un fronte antioccidentale che in realtà sarebbe antieuropeo.

Porta aperta all'immigrazione clandestina

Un’accoglienza predisposta per 50 mila è naturalmente un invito. Non tanto l’accoglienza in sé, che sarebbe anche necessario predisporre, per una politica dell’immigrazione che si voglia ordinata. Ma sbandierare la cosa, che si sappia in ogni dove, e in particolare nei luoghi dove il mercato degli uomini è più fiorente, in questi giorni in Tunisia. Senza fare neppure la burocratica distinzione tra clandestini e rifugiati politici. Cinquantamila è peraltro un numero evocativo: vuole dire c’è posto per tutti.
L’annuncio di Maroni ha sollevato il dubbio: forse che in realtà si vogliano molti immigrati, per alimentare il lavoro nero a basso costo. Ma è solo approssimazione e confusione: l’immigrazione e l’accoglienza non sono mai stati un punto forte per nessun governo in Italia, e in questa fase l’approssimazione è massima. Tra un capo dello Stato che minimizza, e un potenziale immigratorio che equivale a un’invasione. La guerra preclude in questi giorni la porta d’accesso della Libia, il paese che confina con sei o sette paesi in Africa, con frontiere non controllabili, ma un minimo di stabilizzazione sotto la Sirte aprirebbe un flusso incontenibile.

Nessuna pietà per Lampedusa

Fra i tanti appelli di Napolitano, uno si degnala per l’assenza. E non da oggi. Una parola di comprensione, se non un aiuto tangibile e un ‘organizzazione efficiente, per i cinquemila italiani di Lampedusa che da un paio di mesi non vivono più. E che il governo voleva anche occupare con una tendopoli: Lampedusa cioè peggio della Libia, dove perlomeno l’Onu non consente di sbarcare. In questi giorni di feste e entusiasmi per il tricolore e l’unità, prim’attore il primo cittadino, questa questione viva dell’italianità stessa dà fastidio: l’italianità si vuole tricche e ballacche.
Ma è giusto dire che, nonché Napolitano, nessuno va a Pantelleria. Giusto Margherita Boniver, che c’entra poco, e giusto per vedere come vanno gli appalti dei lavori. E la polizia giudiziaria, che i giudici di Agrigento mandano a notificare periodiche accuse al sindaco dell’isola, l’attività principale e anzi unica di quella Procura – in attesa che Berlusconi liberi qualche seggio di parlamentare? Ah, e naturalmente tutte le anime belle, le caritas, i preti, le onu dei profughi, tutto il business della cooperazione allo sviluppo e dell’accoglienza, in larga misura padano, dove ci sono soldi c’è sempre un volontario al di sopra dell’Appennino, sia pure in quel’isola africana, e i democratici senza altra idea, che quella di farsi belli sulla pelle degli altri, e anzi un po’ disprezzandoli – vuoi mettere un bel ragazzo tunisino con la madre di famiglia lampedusana? Traffico di carne umana? La Tunisia è ora democratica, dopo la rivoluzione in piazza, eccetera.
C’è molta approssimazione, certo, e confusione più che malanimo. Ma la superficialità allora è proprio italiana? Si può capire che i primi pensieri della politica italiana, quando si sveglia la mattina, siano per Ruby: manterrà la ragazza le promesse? Ma nel prosieguo della giornata cosa fa questa politica, cosa fa la Rai, cosa fanno gli italiani, oltre ad ascoltare la perfida Rai?

Letture - 56

letterautore

Barocco – I suoi temi sono quelli di oggi: la morte, la paura, il tempo, e l’irrefrenabile passione manierista. L’epoca ci ha aggiunge il sesso, peraltro con tanta morte) e poco di più Anche il pietismo è di riporto.

Dante – “Una «Commedia» senza (tanti) commenti”. Pasticciando un titolo di Cesare Segre (“Perché sostenere gli studi su Dante”, nel “Corriere della sera” del 21 marzo) si ha un’idea di cosa Dante è stato quando la “Divina Commedia” per prima fu letta: una lettura esilarante. Quale ultimamente ha rinnovato Benigni naturalmente. E prima ancora Jacqueline Risset, nella nuova traduzione francese pubblicata da Flammarion venticinque anni fa: di grande lettura per essere puntata sul ritmo e, appunto, per non essere ingombrata dai commenti (le note sono confinate in fondo al testo, e servono a delucidare fatti e personaggi oggi poco noti).

Facebook – Prospera sul senso tribale e la nostalgia della genealogia. Su ciò che è perduto: il senso identitario, e la storia, sia pure del tipo “com’eravamo”, la memoria personale.
Sembra inventata da McLuhan.

Sogno – Nel sogno, diceva Baudelaire trascrivendo un suo sogno, “vale l’assurdo e l’inverosimile”. Ma molti sogni non valgono niente.

Sud - Contro il mito dello scrittore Solitario, Sofferente, Ribelle – l’Eroe (“particolarmente sbagliato nei confronti degli scrittori di narrativa, perché gli scrittori di narrativa sono impegnati nella più umile, nella più concreta e nella meno romanticizzabile delle forme d’arte”), Flannery O’Connor, scrittrice americana del Sud e cattolica, che si riterrebbe per questo doppiamente emarginata, porta il caso dello scrittore del Sud. Perché è parte di “una comunità”, grazie alla quale ha “un accesso alla realtà”. A meno che l’emigrazione non sia stata totale – “Faulkner era di casa a Oxford”, dice O’Connor, la Oxford puzzolente del Mississippi, o Carson McCullers e la stessa Flannery O’Connor in Georgia: “Quando effettivamente parte e rimane lontano”, lo scrittore del Sud “lo fa mettendo a rischio quell’equilibrio tra principio e fatti, giudizio e osservazione, che è fondamentale mantenere se si vuole che la narrativa sia vera”.
In America certo è diverso: “Da sempre i migliori romanzi americani sono stati quelli regionali”, nota la scrittrice (ma questo è vero di tutte le letterature che non sono state risucchiate da un centro metropolitano asfissiante, come in Europa sono state Londra e Parigi): “Il predominio è passato grosso modo dal New England al Midwest fino al Sud”. Il Sud ha “un certo vantaggio”, dice poi sardonica ma non del tutto, “perché abbiamo perso la guerra”. Che è la battuta di un vincitore del National book Award, Walker Percy, alla cerimonia di premiazione, ma ha un senso: “Abbiamo avuto la nostra Caduta. Entriamo nella contemporaneità con marchiata dentro la coscienza dei limiti umani e un senso del mistero che non si sarebbe potuto sviluppare nello stato d’innocenza originario – come non si è sufficientemente sviluppato nel resto del paese”.
In Italia il Sud è vittima dei romanzi sociali, che sono uniformi e gelidi, a differenza di Faulkner, McCullers e O’Connor, perché semplificano le passioni – la riducono a una sola, il risentimento (non nobile: è l’invidia sociale, da vittime volontarie e anzi militanti del possesso che si odia). Anche il Sud mescola la collera alla risata, e canta, balla, tuba trepidante, fa l’amore furioso (le “fughe”, le sconvolgenti passioni bovarine), guarda il mare, cammina in montagna. Quanto cammina, troppo… Gli pace la fannullaggine.
Gli italo-americani portano in letteratura e al cinema il Sud molto più realisticamente, cioè con verità. Perché allargano il campo dalla violenza all’amicizia, tra maschi, tra donne, tra fratelli, ai segreti inconfessabili, alle forsennate passioni dei padri per i figli, a una persistente fisicità (cibo, fatica, nascite, morti, contiguità, di mente e di corpo), ai suoni, a dialetti precisi e non folkloristici. Un mondo certo diverso dalle città invisibili, dai numero primi, e dalla vita che suona col postino, carnale, volgare forse, ma non disprezzato – negli Usa.

Tabù – Hanif Kureishi, “Kama Sutra senza peccato”, su “Internazionale” del 18 febbraio svolge lungamente il non nuovo argomento che, come non c’è sport senza regole, così non c’è “divertimento serio” – anche l’ossimoro ha lunga vita – senza tabù: “Se spariscono l’autorità e i tabù, non aumenta il divertimento, aumenta il nulla”. Che peccato che non sia un peccato, come diceva la contessa – ci mancherà Hitler?.

Vittorianesimo – L’epitome è Herbert Spencer naturalmente, che si dimentica troppo. Ma ne sono parte John Russell (tutti i Russell, fino a Bertrand) e J.S.Mill, Darwin e Livingstone, Tennyson e i Browning, Thackeray, purtroppo, e George Eliot, e perfino Oscar Wilde e E.M.Forster. Coevi – l’età non è senza influenza – sono Wilkie Collins e tutta la detective novel, Stevenson e Swinburne. E Sherlock Holmes, seppure a modo suo – il conformismo del non conformismo. Sono vittoriani Mazzini, Garibaldi e Gladstone (romanticismo della libertà), Engels (per confermato status, coniugale, reddituale), Marx, i Webbs. Marx perché lo era nella vita ogni giorno, e per l’ottimismo, il razionalismo politico, e lo statalismo – non prussiano ma anglo-indiano: fosse rimasto in Germania sarebbe finito nell’anarchismo?
È tempo di dottrine, teorie, filosofie, movimenti, letterari e non – che Thomas Carlyle, il primo vittoriano, ridicolizza d’emblée- nel 1833 (“Sartor Resartus”). Lo spirito dell’Ottocento, romantico, esotico, scapigliato, progressista, robustamente erotico, è vittoriano. Non è a Parigi, una successione di drammi politici, né nella Germania cupa e trafficona di Wagner, Bismarck e Guglielmo. Meglio vede l’epoca Bertrand Russell, che si vanta di essere nato “vittoriano” (“Ritratti a memoria”, p. 225): “Solo coloro che ricordano il mondo prima del 1914 possono rendersi conto in modo adeguato di quanto già si sia perso. In quell’epoca felice si poteva viaggiare senza passaporto, dappertutto tranne in Russia. Si poteva esprimere liberamente qualsiasi opinione politica tranne in Russia. La censura della stampa era sconosciuta, tranne in Russia. Qualunque uomo bianco poteva emigrare liberamente in qualunque parte del mondo”.
Era l’epoca del felice impero britannico - impero dei mari, quindi, direbbe Jünger, fantasioso, vaporoso. E bianco, certo – ma oggi niente è più concesso, nemmeno ai bianchi.

letterautore@antiit.eu

lunedì 21 marzo 2011

Problemi di base - 54

spock

Come fu che il latte di mucca, così inaffidabile, sostituì il buon latte di capra?

Sono quelli della “Seconda Repubblica” secondini?

Perché non si può fare, dopo centocinquant’anni, la storia dell’unità d’Italia?

Marcegaglia licenzia Riotta dalla direzione del “Sole 24 Ore”, ma la notizia non fa notizia: indovinare perché.

“Fra tutte le ipocrisie”, lamenta Nietzsche, “questa mi parve la peggiore: che anche quelli che comandavano simulavano le virtù dei servi”. E quando ne imitano i vizi?

Quanto può soffrire chi non soffre nulla?

Indiziare di reato i testimoni a difesa, che giustizia è questa?

Perché la vacanza sarebbe intelligente?

spock@antiit.eu

Il nuovo neutralismo è delle potenze economiche

La Germania con la Russia e le potenze asiatiche, Cina, India e Giappone, sul fronte neutralista di fronte all’attivismo americano disegnano un altro scenario internazionale. Gettando una lue sinistra sull’Onu, che torna a essere, come alle origini nel 1944, un paravento americano.
Nella folle accelerazione impressa all’opinione e ai governi dall’interventismo da una ventina d’anni, questo fronte neo neutralista segna una grande novità. E la novità è impressa dalla Germania della cancelliera Merkel – che per questo capitalizza politicamente a casa e non viene “fischiata2, come si fa credere ai lettori italiani. Timido fino a ieri, benché preciso, il neutralismo asiatico e russo ha trovato una sponda di notevole spessore: la Germania continua a professarsi riconoscente verso gli stati uniti, più di qualsiasi altro Paese europeo, ma dice no alla guerre per procura.

Terrorismo di Stato

Ci si interroga a ogni guerra sulla “guerra giusta”. Soprattutto da quando la nuova tipologia di guerra, la “guerra umanitaria”, è stata proposta e imposta dagli Stati uniti alla fine della guerra fredda negli anni 1980. Scomodando i filosofi, da S. Agostino a S.Tommaso, Hobbes, Bobbio e Walzer. Ma il vero filone nuovo di studi è quello che la guerra “umanitaria” vuole interpretare come terrorismo di stato. Che sia l’Onu a decretarla non cambia, poiché l’Organizzazione sempre più dopo la fine della guerra fredda è ritenuta un organismo americano, d’influenza politica e di manipolazione dell’opinione pubblica.
Questi i punti controversi su cui si vorrebbe basare la nuova categoria:
1. Si decide selettivamente. Le decisioni d’intervento a favore dei diritti di giustizia sono dettate dalla ragione politica. Non si sono applicate per esempio a Cuba, all’Iran, alla Cina.
2. Si decide unilateralmente, in assenza della controparte, senza nemmeno sentirne le ragioni.
3. Su base di considerazioni di realpolitik (equilibrio delle forze) e non umanitarie o di pace.
4. Si interviene non in casi di guerra ma negli affari interni di un paese.
5. Gli interventi si configurano come manifestazioni di forza, con armi e tattiche militari non confacenti ai dichiarati fini umanitari.
6. Ogni intervento è al comando degli Usa.
7. Le tattiche e le tecniche d’intervento sono esclusivamente belliche, e di guerre tecnologiche: che gli obiettivi siano solo militari non è giustificato da nessuna arte della guerra.
8. Si portano all’Onu interventi preventivamente preparati dagli Usa, sotto tutti gli aspetti, militare, politico e di intelligence.

Ne ha ammazzati di più il Pakistan

Fra i paesi che l’Onu non ha mai considerato di attaccare, e nemmeno di censurare, è il Pakistan. Che ha fatto più assassinii nell’ultimo anno che Gheddafi in quaranta. Anche se di cristiani. Non è tata presa bene in Vaticano la lievità di spirito del cardinale Bagnasco, che ha benedetto la guerra alla Libia: nella curia, e di più nelle gerarchie locali, c’è molto risentimento verso le miopie dell’Onu in fatto di diritti umani.
La posizione ufficiale del vaticano è pro-europea e pro-Onu: la Santa Sede non vuole tenersi fuori da nessuno dei processi politici in corso. Ma nei riguardi dei due organismi, sia la Ue che l’Onu, c’è “sofferta vigilanza”, essendo esse ritenute roccaforti di forse laiche non altrimenti precisate, ma sicuramente anticristiane.

Per Obama la Libia è lontana

Barak Obama che passa la sua prima giornata di guerra alla Libia giocando al pallone coi ragazzi brasiliani (facendo sapere al mondo che gioca al pallone) ha indisposto l’opinione, e anche alla Casa Bianca si parloa di “errore di comunicazione”. In realtà il presidente americano non ha fatto che attestare la realtà delle cose: che la Libia per gli Usa è remota, che la guerra riguarda una “lontana provincia dell’impero”, che serve ad addestrare i caccia americani. Tutto in puro stile “Star trek”, che Obama irresistibilmente evoca. Una guerra aerea è peraltro necessaria periodicamente per testare nuovi mezzi e materiali, il settore aero-missilistico continua a crescere malgrado la fine della guerra fredda, ed è quello che innova di più.

Il centenario della Libia

L’Italia ha sulla coscienza la vita di diecine di migliaia, se non furono centinaia di migliaia, di cittadini libici, alcuni uccisi in modo orrendo, in trent'anni di dura resistenza e repressione a partire dalla invasione nel 1911, e ancora continua. Non c’è libico a Roma che gioisca per l’intervento italiano, sia pure per liberare la Libia dal tiranno.
La presenza attiva dell’Italia nella coalizione ha particolarmente messo in difficoltà gli oppositori di Gheddafi. Secondo i quali non c’è purtroppo differenza: a un secolo esatto dall’invasione della Libia l’Italia si ripete, e sempre guerra porta nella costa nordafricana, benché Napolitano la chiami pace. Da Giolitti a Mussolini, col famigerato maresciallo Graziani, e ora a Napolitano, per i libici non c’è differenza. Nel 1911 l’Italia pretendeva di liberare la Libia dai turchi, oggi la pretesa rinnova con Gheddafi. Ma sempre portando morte e distruzione.

L’onore dell’Aeronautica

Fra “incursioni senza limiti”, le regole d’ingaggio date ai piloti dei cacciabombardieri, e gli obiettivi mirati” delle risoluzioni Onu, l’Aeronautica festeggia infine anch’essa. Ha fermamente voluto intervenire tra i primi contro la Libia, ha approfittato per questo del ministro la Russa, ha forzato i dubbi del governo. Ma non sa ancora se menarne vanto, oppure dissimulare.
Le spinte dell’Aeronautica sono state fortissime negli ultimi giorni per un’Italia interventista in Libia. Per i legami con gli Stati maggiori Usa. E per riequilibrare l peso fra le tre armi. L’Aeronautica è da parecchio tempo a secco, dalla guerra alla Serbia nel 1999, nel quadro delle “missioni di pace” che vedono privilegiato l’Esercito, ma anche la Marina attivamente impegnata. Beneficiari cioè delle indennità di missione e di guerra.

L’Italia perderà la guerra

L’Italia confina con tutti i paesi del nord Africa, a differenza degli altri paese della Coalizione di Sarkozy, ed è il Paese che ha il maggiore dare-avere con la Libia. Per il suo passato di potenza coloniale, e per il suo presente di partner economico.
Fatti i conti, alla Farnesina il lutto è generale: l’Italia si è lasciata imbracare in una guerra – per il ministero degli Esteri è una guerra, checché ne dica il presidente Napolitano – in cui ha tutto da perdere e nulla da guadagnare, si afferma: l’onore, l’influenza politica, l’influenza economica. Il ministro Frattini cerca di accreditarsi come protagonista della storia, ma nel suo ministero e a palazzo Chigi l’irritazione è esplicita. Berlusconi, passato il primo smarrimento, ce l’ha col suo ministro degli Esteri perché l’avrebbe portato a subire un diktat che ritiene umiliante da Sarkozy. E, di più, non gli avrebbe consentito di svolgere una mediazione, o dissuasione, nei confronti di Gheddafi, come a suo dire avrebbe in passato esercitato con successo fra gli Usa e la Russia.

Si teme la minaccia terroristica

Uno dei primi effetti, si teme, dell’impegno in prima linea nella guerra alla Libia è la ripresa del terrorismo arabo-islamico, da cui l’Italia è andata esente da quasi quarant’anni. I paesi arabi, com’era prevedibile, si sono subito defilati della Coalizione anti-libica. E questo è il prodromo di un nuovo antioccidentalismo. Che nel Mediterraneo significa via libera ai gruppi armati, arabi e islamici.
Con la guerra alla Libia sono saltati anche molti collegamenti con i servizi d’informazione del Mediterraneo. Che finora avevano contribuito “in misura determinante”, secondo i nostri diplomatici, a consentire all’Italia una relativa immunità rispetto alle stragi perpetrate nell’umtimo decennio in Europa, in Gran Bretagna, in Spagna e in Germania.

La guerra di Napolitano

Ha colpito molti, nella tre giorni di Napolitano al Nord, il suo bellicismo, ai più apparso disinvolto. Il presidente della Repubblica ha passato i primi tre giorni di guerra tra strette di mano e brindisi con i grandi imprenditori, Marchionne, Tronchetti Povera, l’ex sindacalista Moretti ora ad di Trenitalia. Ma più di tutti Napolitano ha lasciato sgomenti i politici a Roma. Compresi molti Democratici, e anche il fronte dei costituzionalisti, che pure gli era fedele e anzi fedelissimo.
Gli si imputa di avere prevenuto ogni decisione del governo sabato pomeriggio anticipando la mattina a Torino l’entrata in guerra dell’Italia (il famoso paragone della “rivoluzione” libica col Risorgimento). Di avere forzato e forzare l’art. 11 della costituzione, che parla di guerre e non di “missioni di pace”, cioè d’intromissione negli affari interni degli altri Paese. Di voler forzare il cap. VII dell’Onu, che non prevede neanch’esso “missioni di pace” ma solo “stati di guerra”.
L’art. 11 della Costituzione è chiaro: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. È chiaro nel dettato, oltre che nelle intenzioni dei costituenti. Ma Napolitano dice che ci consente di andare in giro a bombardare questo e quello, eminando molte perplessità.
Sul governo pesa peraltro, più che il suo interventismo, la superficialità con cui continua a proporre la questione dell’immigrazione clandestina. Come se si trattasse di rifugiati politici, e di numeri piccoli. Mentre si tratta di traffico di uomini, accertato sotto ogni profilo in Tunisia, e di numeri ingenti. Questa superficialità, di un ex ministro dell’Interno che si era segnalato per i “respingimenti” degli albanesi, e per la creazione dei famigerati Cet, centri temporanei di accoglienza, ha lasciato perplessi molti anche a prescindere dagli schieramenti.

La sinistra che incalza la destra, e ritorno

“Tardi e controvoglia”: il primo giorno si fece un vanto del decisionismo di Napolitano e del voto senza condizioni alla Camera per l’intervento in Libia. Ora al Pd si mordono la lingua: tra ipocrisia e incompetenza (mancanza in realtà d’interesse: la sola passione è per la politica intestina, di gruppi, gruppetti, correnti e correntine) la parola d’ordine è subito passata di essere “vigili e critici”. Nei giornali, nei telegiornali, e nei tantissimi talk show.
Una sinistra guerrafondaia è presto sembrata un eccesso, prima ancora che un errore. Anche a considerare che Gheddafi non è simpatico - non era simpatico nemmeno Saddam, che invece la stessa sinistra, allora diessina, difese nel 2003. Ma di più ha bizzarramente inciso nel ripensamento del Pd il fatto di trovarsi schierati con Sarkozy e per Sarkozy. Bizzarramente per una sinistra che da sempre è succube dell’ambasciata francese. Si tratta dunque di un rivolgimento. Anche se, dopotutto, Sarkozy è un presidente di destra

domenica 20 marzo 2011

Berlusconi solo e incerto

Non ha partecipato alla riunione a tre Clinton-Sarkozy-Cameron. Forse perché non invitato, benché l’Italia sia il fronte della guerra. Forse perché non ha voluto. Ha parlato invece sia con Clinton che con Cameron. Non con Sarkozy perché lo conosce, e sa anche che la guerra dei servizi segreti francesi è in realtà all’Italia. Ma alla fine non può che dire: “L’Italia non si è potuta astenere come la Germania perché è in prima fila”. Che vuol dire: per controllare in qualche modo gli affreux di Sarkozy. Ma soprattutto vuol dire: “Non posso”. La decisione essendo stata già presa da Napolitano.
Era grande lo sconforto di Berlusconi nel viaggio di ritorno da Parigi. Per essere stato giocato, ritiene, dal presidente della Repubblica. E non protetto da due ministri che più volte ha detto incapaci, La Russa e Frattini. Non protetto nemmeno contro le gerarchie militari, che schiumano per doversi sottomettere ai francesi spacconi. E sempre più convinto che De Gennaro, il “suo” capo dei servizi segreti, da lui personalmente protetto per i fatti di Genova e dopo, faccia il doppio gioco, passando informazioni a giornalisti e politici avversi.
Ma il fatto che un’azione così scoperta dei servizi francesi e inglesi, come quella in Libia, e antitaliana, non sia stata nemmeno segnalata è all’origine dell’incertezza, oltre che della solitudine, di Berlusconi. Il capitolo De Gennaro è delicato perché il prefetto fa capo a Gianni Letta, di cui Berlusconi ritiene di non poter fare a meno.

La guerra europea è una risata

Venticinque pirla che ridono mentre dichiarano la guerra, più la ruota di scorta Ban-ki-moon e la Incredibile Clinton Doppio Grasso. Più due facce ingrugnite, della Merkel e di Berlusconi. È la foto di gruppo dell’Europa ieri a Parigi, convocata altezzosamente dal presidente più sciocco ed equivoco che la Francia abbia avuto da quando c’è la Quinta Repubblica. Per coronarlo Grande Capo della guerra che ha preparato per mesi. Per la quale i suoi aerei sono decollati ( se è vero che partivano dal territorio francese) prima della fine della cerimonia d’incoronazione.
Sul piano dei fatti l’Ue marca nell’occasione le sue note dissimmetrie, o faglie. La presunta uguaglianza dei suoi membri, anche di quella ventina che non contano nulla. L’assenza di una politica estera e di difesa comune. L’Italia sta con gli Stati uniti, la Germania per i fatti suoi, la Francia si diverte al capriccio di un presidente non più legittimato, eccetera. Il vecchio mercantilismo all’opera, sotto i proclami delle politiche comuni – si può investire, o fare una guerra, in alleanza con gli Usa ma non con la Francia. E su tutto l’indifferenza, quasi la cecità - si capisce che l’Europa venga da un Novecento così disastroso.

Il filosofo dei servizi

L’ultima guerra dell’Europa sarà stata dei servizi segreti. Agenti francesi e inglesi sono entrati da Bengasi in tutta la Libia da prima della “rivoluzione”. Insieme con le molte facce non libiche che hanno occupato la capitale della Cirenaica. Che, benché rasate, si sa che vengono dai campi sauditi di addestramento dei terroristi islamici, veicolati dall’Egitto di Tantawi. È questa rete spionistica che ha costituito e segnalato la rete di obiettivi libici che americani, francesi e inglesi erano pronti a colpire e hanno colpito ieri subito dopo il vertice di Parigi.
Niente di onorevole, dunque, in una guerra di spie e bombe aeree. Ma con una novità: l’attivismo a Bengasi, come in altre “guerre umanitarie”, del giornalista francese Bernard-Henry Lévy. Nominato filosofo in Italia, dove è eminente collaboratore di vari giornali di sinistra. Ai quali ora crea imbarazzo: i suoi articoli, sempre prontamente tradotti e pubblicati con evidenza, sono da un paio di settimane in giacenza.

Ombre - 81

Strana domenica del “Sole 24 Ore” nuova gestione, senza direttore. Giuliano Amato retrocesso in pagina interna, e un articolo porno su Ruby, l'ultimo di una serie dopo la defenestrazione di Riotta martedì. Col supporto, nel supplemento culturale, della courbettiana “Origine del mondo”, tagliata e iluminata in primo piano. Che Marcegaglia non punti a rilanciarsi col porno? Non era allieva di Casini?

Il Procuratore di Bergamo Massimo Meroni, uno dei Procuratori milanesi che si è illustrato per avere inquisito Berlusconi, nonché un “colpo di Stato” a Cabinda, Angola, da parte di una onlus napoletana, messo di fronte a un delitto vero balbetta e dice scemenze. Si deve a lui se Yara è stata scoperta dopo due mesi, morta e abbandonata in un campo. Ma dobbiamo sempre pagargli lo stipendio.
A Cabinda e con Berlusconi aveva collezionato non luoghi a procedere. Perché ha fatto carriera, per meriti politici?

Sarkozy riserva al “Corriere della sera” il privilegio della prima dell’attacco dei suoi missili alla Libia: “Abbiamo colpito un tank libico”, ha comunicato ieri il suo portavoce in esclusiva. Esclusiva di cui il “Corriere della sera” mena vanto ancora oggi. Ridicolo?
E a quando la foto del carro armato colpito?

“Non hanno un modello, un progetto, uno studio”, l’ingegner Ghidella confidò alla moglie alla fine del primo giorno di lavoro come amministratore delegato della Fiat nel 1979. La Fiat che ancora si celebra dell’Avvocato e di Romiti. Che hanno distrutto l’azienda.
Una Famiglia particolarmente incapace, bisogna dire, si vede dalla Juventus. Dove hanno vinto molto ma con la gestione di Boniperti prima e di Moggi dopo.

Un’azienda francese in fallimento, Lactalis, si compra, si fa per dire, Parmalat. Un’ottima azienda italiana. Risanata, dopo gli ammanchi proprietari, con sacrifici, anche di denaro pubblico. Succede in affari, ma in questo caso con un’ombra sinistra: la Francia che sempre è padrona di spacciare patacche in Italia, dalle politiche culturali alle guerre.

Edda Ciano e il conte Galeazzo, in piccolo. Fabrizio Roncone fa parlare sul “Corriere della sera” alla vigilia del centocinquantenario Gabriella Lonardi Buontempo, sposa di Italo Bocchino, il deputato moralista e un po’ bruttino che si fa, dice, tutte le ministre – tutte quelle che non si fa Berlusconi, evidentemente. E sembra di essere tornati indietro di settant’anni, o che il tempo non si muova. L’unica fuori quadro è l’ultima Mussolini, che deride le carriere a letto.

Grillo attacca De Magistris, non si sa perché. De Magistris gli risponde accusandolo di fare l’antipolitica, per conto di “ben noti gruppi imprenditoriali e della comunicazione che lavorano con lui”. Bel match, ma l’ex magistrato non dice chi sono i ben noti.

Si è divertito, più stagioni, con le foto degli ospiti discinti di Berlusconi nelle sue varie ville – magari a opera del compagno Zappadu, il fotografo che paga le tasse alle Bahamas. Facendole vedere e rivedere ai suoi cinque, o sono cinquanta?, milioni di spettatori. Poi uno dei soliti turisti che fotografano ogni cosa voleva fotografare il giardino della sua villa a Amalfi, e Santoro lo ha dissuaso a male parole.

Berlusconi si giustifica, di fronte alla riforma giudiziaria di così vasta popolarità, dicendo che Fini gliela bloccava. Magari non è vero ma è verosimile: Fini è il cavallo di Troia del vero partito dei veri giudici, autoritari, vendicativi.

Il governo vara la riforma della magistratura, e il “Corriere della sera” ne informa in prima pagina con due articoli contrari e uno, del colorista Verderami, sul papà del ministro Alfano. La giustizia secondo Milano è tutta da scrivere.
C’è anche un commento di Battista nella prima pagina del “Corriere”, ma lui lo mettono, come Diogene, a rotolare la botte quando il nemico è alle porte.

“Italia sul banco degli imputati a New York”, titola “Repubblica” giovedì: “Condizione delle donne da Terzo mondo”. Ma per chi scrive queste cose “Repubblica”? Nella propaganda del Komintern l’avrebbero bocciata: il Terzo mondo va rispettato – la ricchezza è (era) insolente, la povertà si vuole dignitosa.

L’onorevole Pisanu, inaffondabile e ora capo della commissione Antimafia, viene intervistato a giorni alterni dal “Corriere della sera”, mezze pagine, su tutti gli argomenti – ultimamente dice che bisogna invadere la Libia. Ci sarà sotto qualche segreto? Mafioso?

Ferrarella e Guastella pubblicano sul “Corriere della sera” anche i conti della spesa, naturalmente miliardaria, di Berlusconi. Che però non ha rubato i miliardi a nessuno. Oppure sì? E perché Ferrarella e Guastella non ce lo dicono?