venerdì 1 aprile 2011

La storia ignobile dei briganti

Sui briganti molto si ridice per il centocinquantenario, in chiave di liberazione o di resistenza all’unità. Rifacendosi a Hobsbawm, il marxista buono a tutto, che cinquant’anni fa ne celebrava in “Banditi” alcune forme, in chiave Robin Hood. Ma erano solo un fatto di delinquenza. Poteva appassionare gli idealisti, come il giovanissimo Ricciotti Garibaldi, per l’estrema povertà che li esprimeva ed essi stessi esprimevano, che l’Italia unita non sapeva fronteggiare se non con le armi. I briganti circondavano i luoghi abitati per le rapine e i rapimenti di persone a scopo di riscatto - molti lampo, il tempo per un congiunto o un amico di andare a casa e tornare coi soldi. Non c’è mai stata un’epopea dei briganti, un trasporto popolare, Croco e Musolino sono eroi di questure e cronisti giudiziari, nessuno li conosce.
Questa narrazione già famosa del finanziere londinese William Moens e consorte (tradotta da Tea quindici anni fa ma ancora in commercio, pp. 251, € 7,75) è rivelatrice anche di un’altra verità involontaria: il turismo inutile. Il cosiddetto Grand Tour, anche quando si fa in epoca recente, il 1865, è più spesso d gente gravida di pregiudizi – al punto, in questo caso, di non saper entrare in una chiesa. Poiché, come si sa, fuori niente va bene come a casa. La narrazione gira tutta attorno al rapimento di cui il marito fu vittima nel salernitano alla fine del viaggio. Una prigionia lunga, ma a lieto fine. Col brigante cattivo e quello buono, le minacce, le orecchie mozzate, e col riscatto. Ma fin dall’approdo a Palermo la signora Moens, soprattutto lei, benché fresca sposina, non vede che feroci briganti. La fine insomma è preannunciata. Ma le vicende banditesche di cui la signora fa la cronaca non consentono altra storia.
William Moens, Briganti italiani e viaggiatori inglesi

Secondi pensieri - (67)

zeulig

Adulterio – È irragionevole che i matrimoni si rompano prevalentemente a causa dell’adulterio. L’adulterio è una relazione sessuale. E origina nell’inappetenza sessuale dell’altro coniuge. Il coniuge che non ama il sesso non avrebbe nulla da rimproverare all’adultero. Dovrebbe anzi essergli riconoscente di sgravarsi altrove, e poi di tornare comunque a casa. Una persona frigida dovrebbe avere piacere di poter evitare i gravosi “doveri coniugali”. Lo stesso se si fosse in presenza di volagerie compulsiva: se entrambi i coniugi amano il sesso, essa è aperta a tutt’e due, altrimenti si torna al primo caso.
Perché dunque l’adulterio è causa di tante rotture, di malinconie, tragedie e perfino delitti? Perché vi si è costruito sopra un tabù. Non sul danno psicologico, che non ha ragione di essere, ma attorno all’unità della famiglia, elevata a sacramento. Oppure per un senso dominante del possesso, per cui si vuole poter respingere l’altro e contemporaneamente tenerlo sotto controllo.
Entrambe le cose non hanno nulla da spartire con l’amore: sia il sesso, con l’uno o con l’altro, sia il tabù che vi si è costruito attorno.

Etnia – La specificità porta all’inferno. L’etnografia arricchisce, come la tradizione e la conservazione (restauro), ma alla fine imbuca in un vicolo senza uscita – il nazismo si condannava da sé. L’animo ha bisogno di vie d’uscita: varchi sentieri, prati, appigli, contatti, divagazioni.

Infinito– Se il mondo è infinito la vita è ghirigoro. Se il mondo è finito, allora Dio e la scienza hanno senso.
Se non c’è limite valgono le discipline indiane alla Borges: muoriamo ma non muoriamo perché tanto ci reincarniamo in altra specie (in realtà non siamo mai nati), con un po’ di tecnica raffinata del gusto e del piacere, e un po’ di pazienza, o compiacimento, e maniera. Una scenetta tra persone beneducate in salotto,. È solo nell’altra ipotesi che sorgono le passioni, prima fra esse la conoscenza, o desiderio d’infinito.
Cmabiano in queta ipotesi alcune cosette, ma fondamentali-...:
1. L’infinito è il vaso del materialismo. Della materia inspiegabile, quindi inerte.
2. 1 bis. Eh sì: se non siamo mai nati, bisogna rivedere l’ideologia della mamma.
3. 2. La scienza non è materialistica – lo è la tecnica.
4. 3 Scienza e fede vanno insieme, come si fa a dividerle? È per la diatriba ottocentesca tra positivismo e catechismo – il positivismo della fede – o si va più indietro? Al tempo di Galileo non c’era contarsto.

Lingua – Dovrebbe essere strumento di crescita e sviluppo, è nata per questo, ma è diventata strumento di censura. Molto più espressivi sono sempre stati, e sono, i dialetti in Italia, e le koiné (argot, slang, lingua furbesca, etc.), di Parigi, Londra, New York, San Francisco. L’invenzione linguistica in lingua suona d’altra parte falsa: i “brerismi” dei cronisti sportivi, o la tecnica bancaria dei giornalisti economici.
La lingua, strumento comune (medio) di comunicazione si arricchisce per semplificazione, non per ridondanze. Semplificazione delle strutture, quindi arricchimento dei modi espressivi – diventano più significanti e meno artificiosi. Su una struttura semplificata diventano significanti anche le forme elaborate: consecutio, inversioni, understatement….

Sola salva la poesia. La filosofia di Dante è rabberciata e noiosa, senza la lingua. Le storie di omero, che di più insulso? O quelle di Shakespeare? Dentro c’è il miracolo di scritture che stanno in piedi perfino senza storia: Savinio, Borges e Stendhal, l’incredibile Cinquecento italiano, quello serio e quello faceto, l’ellenismo.

La sua perdita di significato, fino all’insignificanza, per esempio in Italia da qualche tempo (prima tutti “fascisti”, poi tutti “ladri”, ora tutti “mafiosi”, è il segno di una polverizzazione del potere. Di una democrazia che si potrebbe ben dire “all’italiana”, nella quale detriti hanno speciali diritti di galleggiamento (di protezione e perfino di sopraffazione). Ma come forma di potere e non di dissoluzione del potere.
La lingua va certamente legata al potere, secondo l’intuizione di Lévi-Strauss (“Primitivi e civilizzati”, et. al.). Ma in Italia il legame si può vedere nell’altro senso, del potere che provoca e gestisce l’insignificanza del linguaggio – secondo la geniale tecnica democristiana, di Moro e Andreotti per una volta concordi, del “governo attraverso la crisi”, a mezzo della crisi (verifica, formula, rinvio, aggiornamento). L’entropia della lingua non è l’entropia del potere ma un suo effetto. È un altro linguaggio, quello dell’insignificanza.

Masochismo – Individualmente è purificatore: sacrifica a una colpa originaria (oggettivata). Ma nella storia resta sempre marginale, come devianza o errore. La storia non ha pscologia? O una ragione c’è? non giustificazioni sta, non relativista.

Matrimonio – Per la chiesa è solo un fatto corporeo: consanguineità, impotenza (coëundi, procreandi), frigidità, mancanza di prole, adulterio (coito, non corrispondenza amorosa, meglio se in “flagranza di reato”). È un sacramento – l’unico per la verità – in cui la volontà non conta, solo la cosa fatta, anzi la cosa fatta dagli organi genitali.

Montesquieu – I rapporti, le analisi, le descrizioni mantengono estrema vivacità. Per una capacità di osservazione sempre rinnovata, grazie alla scrittura. Ma la base filosofica è all’opposto dumb. Si dicano pure le leggi rapporti necessari. Ma come derivano dalla natura delle cose? Le leggi si oppongono alla natura. È l’evidenza l’ordine naturale animale è carnivoro e perfino cannibalesco. L’istinto porta alla violenza. I fenomeni naturali – acqua, elettricità, terremoti – sono distruttivi. E non è una contraddizione che Dio stesso, nel suo essere, sia sottoposto alle leggi?
L’ha tradito la scrittura – Montesquieu, naturalmente.

Morte – La condanna a morte che la chiesa infliggeva era una bestemmia una sfida a Dio.

Natura – Straordinaria tenaglia, finché vige il principio che “nulla si crea e nulla si distrugge”.

Numero – È astrazione. Ma viene in uso, nella magia, l’esoterismo, la numerologia, come conforto, sotto forma di dottrina, destino, simbolo – una stampella psichica. È cioè umanizzato.
Ogni astrazione è frutto di logica. Estrapolazione del reale. Ma la si effettua e la si usa per conoscere. O farsene un appoggio - l’astrazione è un pizzico prolungato sulla pelle del reale, come le carezze erotizzanti fra gli amanti.

È il mondo della finzione per eccellenza. È come tale che ha valore conoscitivo: per abbandonare il reale (la natura, il mondo) in direzione dell’inconoscibile, cioè del vago e dell’indistinto. Questa è la via delle scienze umane, della letterature e delle scienze politiche. Più si conosce quanto meno ci si attiene a formule o leggi, statistiche, logiche, seriali. È anche la via delle scienze fisiche, l’indeterminatezza, l’incostanza?

L’immaginario dei grandi numeri (tot mila miliardi di anni luce, sei milioni di froci e lesbiche – Aldo Busi – su una popolazione di sessanta milioni, tre milioni di obesi, o trenta, un milione di orfani, un milione di candidati politici… - è oppressivo. È catastrofico. Dovrebbe consentire di partecipare e invece esclude.

Paradiso – È immateriale. Quindi non è umano: non è conoscibile (comparabile). O, se i sentimenti vi sono possibili, come vi si può essere felici sapendo che propri amati o amici stanno all’inferno e soffrono? Ma è tutta l’eternità un teorema irresolubile.

zeulig@antiit.eu

giovedì 31 marzo 2011

L’elaborazione difficile del lutto dopo il terremoto

Contro il terremoto non c’è rimedio, è noto, né prevenzione. Né c’è colpa. C’è solo da ricostruire con la massima accortezza consentita dalla tecnica, ma dando per scontato che il prossimo terremoto-maremoto troverà sempre il modo di rendersi assassino. Non c’è colpa in particolare in Giappone, dove la massima attenzione viene data da sempre alle tecniche antisismiche. Eppure anche lì, dopo un primo momento di reazione composta, infuriano la deprecazione e la polemica. Si può dire un fatto connesso al terremoto, una delle sue non minori perfidie. Lo abbiamo visto anche all’Aquila, dove a una prima reazione “giapponese” è presto subentrata la deprecazione, e la guerra di tutti contro tutti.
Si usa dire che le polemiche sono politiche, legate alle scelte della ricostruzione. E si porta l’esempio del Friuli, dove i cittadini hanno preso su di sé gli oneri della ricostruzione, limitando l’intervento dello Stato alle sovvenzioni, e così, “privatamente”, si sono ricostruiti dopo il terremoto con una certa celerità e, soprattutto, come volevano, in pace con se stessi. Ma è una falsa impressione: anche il Friuli ha sofferto di molte angosciate polemiche, su quanto poteva essere fatto, prima e dopo, e non fu fatto, eccetera. Il terremoto destabilizza gli animi. Dapprima la certezza di poter costruire, avendo domato la natura. Poi ogni propria personale sicurezza.
Un volume straordinario della Città del Sole, “Il terremoto di Messina”, pubblicato nel 2008 per i cento anni dell’evento, un migliaio di pagine di “corrispondenze, testimonianze e polemiche giornalistiche”, è un susseguirsi di introiezioni della catastrofe. Le migliori intelligenze dell’epoca si lasciano andare a scoramenti e invettive, apparentemente contro questo o contro quello, in realtà contro la propria inabilità: Prezzolini, Bissolati, Salvemini, Luzzatti, Barzini, Einaudi, Treves, Colajanni. E gli scrittori: Gorkij, Verga, Pirandello, Serao, Papini, Ojetti, Ada Negri, Fogazzaro, Borgese, Goffredo Bellonci. E più dopo il primo momento di commozione, di partecipazione al dolore. L’elaborazione del lutto interviene con una constatazione deprimente d’impossibilità, sottaciuta ma evidente.

La giustizia puzza alla testa, al Csm

Dopo Why Not, Toghe Lucane: De Magistris colleziona assoluzioni. Tutte, a diverso motivo, gravi. Perché con Why Nord il deputato di Di Pietro ha rovinato il governo Prodi, con testimoni falsi: parti in causa o pregiudicati. Con Toghe Lucane perché ha infangato trenta personaggi in vista in Basilicata, con 24 capi d’accusa, alcuni molto gravi, tutti insussistenti, rovinandone la vita e la carriera. Tra essi Elisabetta Spuitz, che all’epoca era direttore generale al Demanio. Uno degli imputati, Felicia Genovese, Procuratore anti mafia a potenza, fu trasferita dal Csm a Roma, giudice al Tribunale. Non per altro, riferisce M.Antonietta Calabrò sul “Corriere della sera”, che le voci messe in giro da De Magistris: “Nella sentenza, che valutava unicamente il profilo cautelare…., il Csm giustificava la scelta del trasferimento anche alla luce della diffusione mediatica che, su scala nazionale, avevano ricevuto le notizie relative all’indagine di Catanzaro”. Come dire: De Magistris aveva già condannato con le tante interviste e i talkshow.
E questo è il vero problema, il Csm. La sua composizione, le sue funzioni. Se il giudice si muove per interesse personale, o per pregiudizio, la colpa non è verificabile in tribunale. Sta alla sensibilità
del Csm prevenire o sanzionare questi comportamenti. Il Csm da vent’anni persegue invece la politica sistematica di non sanzionare gli abusi. E anzi, nel caso della giudice Genovese, a colpevolizzare la vittima: non era stata Felicia Genovese a suscitare la “diffusione mediatica” ma De Magistris.
Il problema è in realtà la giustizia politica. Che da vent’anni è irrefrenabile. E che, bisogna prenderne atto, ingloba anche la più alta carica dello Stato, la presidenza della Repubblica. Per l’inamovibilità che ha in comune con la giudicatura, essendo la massima giurisdizione dello Stato eletta per sette anni. Non si saprebbe trovare altra ragione per l’accondiscendenza allo straordinario golpismo del Csm - fatto di evidenza assoluta - di personaggi quali Scalfaro, Ciampi e Napolitano, che dello stesso Csm sono costituzionalmente i presidenti.

Letture - 57

letterautore

Baudelaire – Il wagnerismo, depurato del desiderio di essere à la page con le nuove tendenze della musica, e filotedesco per anticonformismo, è preoccupante: c’è un doppio (triplo) Baudelaire, uno di Poe e uno di Wagner? Ma, mentre non scrive come Poe, scrive come Wagner: della marcia del Tannhaüser dice che, col “ritmo sontuoso e cadenzato” e le “fanfare regali”, crea “uno sfarzo fantasmagorico, una processione di eroi in rutilanti costumi, tutti di altissima statura, di volontà ferma e di fede ingenua, splendidi nei loro amplessi quanto tremendi nei loro duelli”. Gli “amplessi splendidi” impongono una revisione di Baudelaire, partendo dal wagnerismo.

Cicli - Ricorrono anche in letteratura. Un europeo arrivato alla lettura nel 1932 avrebbe trovato pronti la “Ricerca”, l’“Ulisse”, il “Viaggio” di Céline, le “Elegie Duinesi”, Freud in full swing, Pirandello, e perfino Zeno e Montale, con i quali probabilmente si sarebbe formato, perché erano letture nuove e insieme conclamate. Chi fosse nato una generazione prima si sarebbe invece formato con le letture epidemiche, da scaffale riservato, e giornalistiche che coronavano la Belle Époque, i buoni scrittori, Henry James, Thomas Mann trovando limitata accoglienza, e non nella critica militante e nell’industria editoriale. Negli anni 1960, sempre in Europa, c’era più sostanza ma grande confusione: Sartre, Camus, Pasternak, Solgenizin, Pasolini, Gadda, Ionesco, Böll, Grass, Osborne, Albee. Oggi?

Favola – Ha il ritmo del pensiero. I traslati spesso anche, l’immaginario. Ma soprattutto il ritmo: non la scansione, il ritmo mentale (fantastico, cioè libero), figurativo.
Per il suo tramite si rivaluta la poesia – che si rifà a una grammatica più complessa di quella della prosa? Dal ba-ba, linguaggio cantilenante, poco più che inarticolato, al linguaggio magico, e quindi inventivo, ordinato da una logica superiore.

È la fonte più ricca di trame e di tropi. E di anti-tropi.

Giallo – Il razionalismo vi è a buon mercato, consolatorio, complice, anche nel noir: i cattivi sono gli altri.
Ma sempre dimentica la vittima: l’assassinio è un pretesto.

È il mondo hobbesiano senza Dio, dell’uomo contro l’uomo, la specialità animale. Motiva il male, e in questo senso è redentorio, nella versione logica non solo (A. Christie) ma anche in quella irrazionale (S.Holmes). Il vero giallo è scià Abbas, Ugolino, Stalin, il cannibalismo ben motivato del genere umano.

Hölderlin – Il mondo orizzontale (adagiato), femminile, dello stoicismo, del naturismo, dei misteri (con i fratelli di gioventù, Hegel compreso) di contro all’aristocrazia, all’antimodernismo, all’antiscientismo, all’antiaccademismo che sarà di Schopenhauer, Burckhardt, Nietzsche. La poesia è l’abbandono voluttuoso del missionario (Gottesreich). La follia è la reazione delusa, l’orgoglio che si rinchiude – conseguente ma luciferino. Perché la follia non è stata anch’essa poesia? Per paura.

Ha avvertito la semplificazione dell’ateismo – della storia. V. E. Jünger, “Al muro del tempo”, 42: “Il mitico deve avere un suo particolare posto nello spazio storico”. E mette in guardia contro il ritorno dell’“antichissima confusione” (“Il Reno”).

Italiano – Lingua difficile perché per ogni sfumatura – anche se non ce ne sono molte: il dizionario dei sinonimi è magro – bisogna imparare altrettanti radicali. Imparare, letteralmente, inventare in italiano non si può, suona falso perfino nelle avanguardie. Differenza del tedesco, dove le parole si possono comporre a volontà, o dall’inglese, ricco di gerghi, locali e settoriali, che moltiplicano le caratterizzazioni idiomatiche. L’italiano dovrebbe ripartire senza purismi, arricchendosi dei dialettismi, che sono carichi di senso e non suonano artefatti.
Il purismo lo ha semplificato a nessun effetto pratico e impoverito. Per fare chiarezza il vocabolario è stato potato troppo. Sinonimi, localismo, colloquialismi danno più chiarezza che non il linguaggio mono-televisivo.

Le tante (tutte: le eccezioni si contano) traduzioni i classici, da Gòngora a Shakespeare, Gorthe, Hölderlin, e a Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, che sono più vecchie (datate, insignificanti) dell’originale. Non è un problema di capacità espressiva della lingua: il castigliano, per esempio, ha le stesse matrici, e perfino le stesse cadenze, dell’italiano. Né di una maggiore anzianità o gioventù della lingua nazionale rispetto alle altre, giacché l’italiano letterario viene storicamente prima. È il vezzo che vuole la parola nella poesia desueta, o rara, o incomprensibile.
Si spiega perché tanta cultura è sterile – in Italia c’è sovrabbondanza di “cultura” (tutto anzi è cultura) rispetto agli effetti: non sa esperimersi, e sceglie le forme esoteriche per coprirsi..

Joyce – Il plurilinguismo di “Finnegan’s” sarà pure derivato come vuole Folena (“Il linguaggio del caos”) dal suo amato italo-veneto. Ma con quale risultato, se comparato con i testi del Quattro-Cinquecento, e col “Mistero buffo” di Fo?

Libro - È un manufatto, ma è anche un’idea, delle storie, degli eventi, dei personaggi, delle narrazioni. L’idea del libro si può trasmettere anche senza il manufatto, per esempio per sentito dire. O anche nelle idee-libro, per esempio i repertori o i digesti delle opere perdute, Quérard, Suida. O si possono avere idee senza libro: Socrate, che non scrisse, ci è ben noto. Ma questa è la “normalità”.
Tuttavia, il libro è un’altra cosa dalle sue idee, o dalle idee in generale. Sopravviva, o muoia, è una cosa reale che sopravvive o muore. La biblioteca di Alessandria che brucia è un fatto reale. Può darsi che tutti i testi in essa raccolti ci siano stati tramandati attraverso altre copie, ma la perdita non per questo si cancella.
Il libro è una creatura vivente. Sembra azzardato dirlo quando una macchina Timson è in grado doi stampare ventimila copie in un giorno, e le copie giacciono senza nome nei magazzini, avvolte in carta da pacchi o in nastri di plastica, designati con una sigla. Ma ogni libro, anche il più svelto gialletto erotico stampato in carta da macero, ha una sua esistenza. Del resto non va meglio, quanto a selettività e qualità, nel mondo animale e umano. I libri scomparsi dei cataloghi di Quérard e di Suida suscitano la stessa nostalgia che i dinosauri e le altre specie scomparse. Tutti gli esseri viventi vorremmo averli con noi, è qui il senso di perdita che viene dalla morte – e l’attrattiva della storia, che tutto recupera e fa rivivere.

Proust– Alla “spirituale coterie dei Guermantes” attribuisce, onore supremo (“Swann”, p. 334 della Pléiade 1982), la sopravvivenza di “qualcosa dello spirito svelto, scarnito di luoghi comuni e sentimenti di circostanza, che discende da Mérimée e ha trovato la sua ultima espressione nel teatro di Meilhac e Halévy”. Nell’operetta cioè. Senza ironia.

“Swann”, riletto, è accasciante di gelosia più di Albertine. Insulsa, noiosa.
Dopo un migliaio di pagine, tra i due romanzi, non si saprebbe che dirne, se non che è passione del tutto incongrua. Posto che le donne (o sono travestiti?) in entrambi i casi sono di piccola virtù.

Rileggere – Si rileggono con più disponibilità di un autore le scritture più personali o estenuate. Rileggere non è andare per il corpo centrale, ma arrampicarsi sui ami marginali, anche secchi.
Seguono lo stesso filo le passioni senili, per la Bibbia, per Manzoni?

letterautore@antiit.eu

mercoledì 30 marzo 2011

Meno guerre per gli Usa, più soldi per scuola e lavoro

L’Occidente di Londra, che riunisce trenta, o quaranta, potenze, per dirsi che condanna Gheddafi ma non sa che fare in Libia, non è evidentemente una potenza di cui si vorrebbe fare parte. Tanto più che si agita per fare contento Sarkozy, il suo leader meno qualificato, reduce da quattro anni di sconfitte politiche. E nel caso si capisce perché: il presidente francese è il tipo che sempre “vuole tutto, ma non sa che cosa”, è così che ha portato alla dissoluzione lo storico partito Gollista. Non minore l’inconveniente di associare a questo Occidente una diecina di paesi arabi in nessuna forma democratici. Ma il vertice è stato preceduto dal conclave a quattro, che si segnala per l’esclusione dell’Italia, mentre partecipa la Germania, che invece si è esclusa dalla punizione di Gheddafi, e questo è un fatto politico.
Essere esclusi da Sarkozy non pesa. La decisione, ogni decisione, si fa a Washington: è sugli Usa che l’Occidente, e quindi anche l’Italia, si sintonizza. Si dovrebbe sintonizzare anche sull’Europa, ma un anno fa, con la scelta della baronessa Ashton alla politica estera e di difesa dell’Unione, si è deciso di no. È con gli Usa che qualcosa non funziona. Si potrebbe pensare per le intemperanze di Berlusconi. Ma non sono una novità di queste ultime settimane – senza contare che Berlusconi potrebbe usare i processi a suo vantaggio. Il nodo, secondo la Farnesina, è che l’Italia conta meno per gli Usa dopo le elezioni di novembre.
L’Italia ha contato molto per gli Usa in questo primo decennio quale alleato volenteroso nelle cosiddette missioni umanitarie. Ma dopo la sconfitta di novembre, e in vista della campagna elettorale che già si può dire aperta per le presidenziali dell’anno prossimo, Obama vuole chiaramente sganciarsi da queste missioni, in Afghanistan e Iraq. Giustificandosi col passaggio dei poteri alle forze militari e di polizia locali, ma in ogni caso chiudendo le costose guerre umanitarie. Per ragioni di bilancio, e perché il sentimento prevalente negli Usa, sbollito il risentimento post-11 settembre, è al ritorno a casa.
In questo quadro l’Italia perde il peso che aveva per le tante missioni militari al seguito del Pentagono. Una prima conseguenza dell’esclusione dal conclave a quattro dovrebbe essere la revisione del legame finora privilegiato con gli Usa. Tanto più che la revisione potrebbe consentire un allentamento dei vincoli di bilancio. L’Italia non spende molto per la Difesa, meno che ogni altra media potenza europea, Francia, Germania, Gran Bretagna. Ma le missioni militari, in Libano e in Afghanistan, assorbono risorse notevoli, il cu risparmio potrebbe consentire al governo di allentare la stretta su altri settori, le scuole di ogni ordine, e il mercato del lavoro che si sta studiando di rilanciare con la riduzione degli oneri sociali.

Ombre - 82

Si ripubblica Mandeville, “La favola delle api”, con prefazione di Carlo De Benedetti. Il teorico dei “vizi privati pubbliche virtù” meglio si attaglierebbe però al Nemico Berlusconi: De Benedetti ha tentato la stessa strada, ma l’ha fallita quasi ovunque - anzi, con una sola eccezione: Omnitel. Benché con qualche vizio in più, come lo strozzinaggio, su Calvi, per esempio, e su Caracciolo e Scalfari. Ma anche qui con vistosi fallimenti, il più noto su Formenton e Leonardo Mondadori.
Pubblicare la “Favola” come se fosse un testo ritrovato, mentre è stata disponibile fino a qualche anno fa in edizione economica per le scuole, è un vizio minore.

Caso Why Not, De Magistris non va dal giudice e invoca il legittimo impedimento. La cosa non fa notizia per molti giornali, e invece è importante: chiamato a rispondere delle intercettazioni abusive di alcuni parlamentari, tra essi Prodi e Mastella, l’ex magistrato non si presenta – il suo legittimo impedimento è l’impegno di parlamentare a Bruxelles, dove non va mai.

Tre anni di scandali, incancellabili, e la Procura di Firenze finalmente trova il colpevole, Salvatore Ligresti. Lo scandalo è quello dell'area di Castello, di proprietà della Fondiaria, e quindi della Sai, ma lottizzato con sicure tangenti dalle giunte di Firenze. Tutta la città lo sa e ne parla. Ora finalmente la Procura, che il Procuratore Capo Quattrocchi gestisce con imparzialità e inflessibilità, ha trovato il colpevole: Ligresti. Che non c'entra, né personalmente né come società.

I due avvocati deputati di Fini, Consolo e Bongiorno, surclassano in reddito tutti gli altri avvocati, e quasi tutti i deputati, meno Berlusconi e altri tre. Naturalmente il partito di Fini non è il partito dei giudici.

Potrebbe essere una sceneggiata napoletana, benché tra N.H., quella tra l’onorevole Bocchino, il giovane di bottega di Fini, e la moglie passatella, sugli amori extraconiugali del marito. Con dichiarazioni, interviste, talkshow. E invece Fazio la illustra contrito alla sua tribuna di successo “Che tempo che fa”. Neanche questo è nuovo, Fazio è noto. Ma che tempo fa per i democratici?

Nessuna pietà da Fazio per la signorina Carfagna, presa e lasciata dai coniugi Bocchino, dall’onorevole definita “un errore”. Ma questa, più che ipocrisia, è l’albagia napoletana.

Massimo Gramellini va da Fazio e insieme irridono la proposta di Frattini di rimpatriare i tunisini con un regale do 1.500 euro. Trascurando di dire che la cosa fu inventata da Napolitano, quando era ministro dell’Interno. Col capo della Polizia Parisi, rimpatriavano gli albanesi col pacco dono degli abitanti di Brindisi, e 50 mila lire. In aereo, è vero, invece che con la nave.

Dice il “Corriere della sera” di venerdì, sia pure per l’autorità di Severino Salvemini, che “per i grandi investitori Bogotà vale più di Parigi o Londra”. Dobbiamo proprio credere a tutto?

Napolitano ha messo in guardia, poi ha preso le distanze. Berlusconi ha preso tempo, per cercare di sapere, poi ha nominato ministro Romano. Che il giorno dopo la nomina risulta, sui giornali, nuovamente inquisito. Napolitano sa dalla Procura di Palermo cose che gli altri non possono sapere. Questo in una democrazia non sarebbe lecito.

La Bocconi rifiuta la Santanché come sua ex allieva. La Bocconi all’opposizione non è male. L’università dei rampanti, dai denti ferini.

“Gradimento, Alemanno scende al 59,1 per cento dei consensi”, titola il “Corriere della sera-Roma” a caratteri cubitali, nel suo facinoroso sinistrismo anni Sessanta. Alemanno cioè sioè al 60 per cento. Scende?

Pietro Ingrao vive felice, a 96 anni, con Leopardi e con Garibaldi. Con Paolo di Stefano si ricorda, sul “Corriere della sera” di lunedì, che quando i russi invasero Budapest girovagò a lungo confuso per Roma, e quando finì da Togliatti per conforto, il Migliore gli disse. “Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più”. Senza rimorsi.
Nei ricordi di tutti i 1956 sembra la fine, e invece il Pci visse e prosperò ancora per trent’anni. Con gli stessi anche ancora ricordano. Con Praga e col “Manifesto”.

Milano non dà informazioni

Provate a chiedere un’informazione a Milano, molti vi passeranno davanti senza nemmeno guardarvi, altri vi diranno “non so” prima ancora che abbiate finito la domanda. Non è casuale l’avventura, chiamiamola così, del maratoneta kenyano Kanyanjua domenica, che dopo aver partecipato alla Stramilano ha vagato ventiquattro ore per Milano perché nessuno gli diceva come arrivare a piazza Firenze. Nessuno dei tanti interlocutori che l’atleta ha avuto cura di selezionare, evitando le spaventate dal negro: vigili, poliziotti, autisti di tram, tassisti, lettighieri. Lo hanno trovato prima, dopo ventiquattro ore, attraverso Facebook. Qualcuno che lo aveva visto su Facebook, o che “ama l’Africa”, e sa l’inglese, si diletta a conversare con Kanyanjua la mattina di lunedì, e gli regala infine due euro (l’atleta aveva indosso solo la tuta). Con i quali Kanyanjua chiama il fratello in Kenya. Che avvisa la società di atletica austriaca on cui Kanyanjua si allena.
Il milanese non risponde. Magari ora Milano vanterà la generosità del tizio che “ama l’Africa”. Ma chiedere una strada o un indirizzo a Milano è impossibile. Sembrano tutti immigrati, estranei alla città.

martedì 29 marzo 2011

Problemi di base - 55

spock

Perché nessuna Onu vuole portare la democrazia in Siria e nello Yemen?

Perché l’Onu lancia le cluster bomb, bombe a grappolo, se non vuole ammazzare i libici?

Perché i Democratici italiani sono per la guerra? Vogliono fare il partito dell’Odio di Berlusconi?

Nicola Tranfaglia è professore emerito e barbuto di Storia dell’Europa e di Storia del Giornalismo: le due storie si sovrappongono?

Il professore Tranfaglia ha “girato l’Italia in lungo e in largo”, dice, per promuovere Di Pietro, e ora deluso lo lascia. Ma che cosa promuoveva di Di Pietro? Quale vino?

L’avvocatessa onorevole Bongiorno guadagna il doppio dell’avvocato onorevole Ghedini: con Andreotti si guadagna il doppio che con Berlusconi?

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L'odio madre-figlia è un capolavoro

La madre bambina, capricciosa, il marito-padre, e nel mezzo l’infanzia e l’adolescenza che Hélène-Irène non ha avuto: il libro dei conti più amaro della scrittrice col suo passato. Quello più vero anche sul suo rapporto, contestato, con l’ebraismo (e con la chiesa: l’unico senso religioso percepito da Hélène-Irène è quello della sua istitutrice francese, Rose). Vocabolario semplice e passioni forti: l’“allucinazione del ricordo” è vissuta impietosamente, troppo vivi essendo sempre i torti. E tuttavia la narrazione non ne soffre, questo lungo racconto autobiografico in quattro scene, la vita a Kiev, la vita a Pietroburgo, la vita sui ghiacci sotto il cielo di latte in Finlandia (qui c’è la prima metà di “Kaputt”, in forma più concisa e sorridente che in Malaparte), e infine Parigi, è un unicum, materia sorprendente a prescindere dalla storia vera, anche se è l’opera più studiata dai biografi della scrittrice – la storia semmai si segnala per la sua assenza: la grande guerra, la rivoluzione russa. La rivolta – l’odio – oblitera il tono elegiaco del fondo biografico. Le stesse città, Pietroburgo, Parigi, rivivono sorprendentemente reali: sorde, anemiche.
Un “Senza famiglia” di russi ricchi - arricchiti: senza patria e senz’anima - ma di ottimo taglio. Sul genere horror, sotto le apparenze benpensanti. La stessa piccola vittima Hélène entra nella vita con un “amore colpevole”, il gigolò della madre, anzi con due. Il mantenuto della madre è per di più un altezzoso cugino che le trattava anche lui da ragazzo, come la sua famiglia, con disprezzo.
Il racconto, del 1935, libera Irène Némirovsky dalla faticosa etichetta di scrittrice etnica – che la sua etnicissima fine a Auschwitz nel 1942, provocata dalle denunce della Francia “profonda” nella quale credeva e s’era rifugiata, ha proiettato sull’opera. L’antisemitismo di cui fa uso deliberato, anche in questo racconto, vale al contrario, come protesta contro una separatezza che la scrittrice non ha vissuto in alcuna forma se non negativa, e che ne minaccia il gusto di vivere.
Irène Némirovsky, Il vino della solitudine, Adelphi, pp. 245, € 18