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Brecht – Non è caduto col Muro perché è il più grande opportunista che la storia letteraria ricordi dopo l’Aretino – ma senza la dichiarata spregiudicatezza, né la
verve. Cantava Stalin e teneva i soldi in Svizzera, con complicati giri. Al riparo anche del passaporto della confederazione, sempre generosa con i ricchi. Mentre rubava argomenti e trattamenti alle sue amanti.
Sarà stato un amante apprezzabile. Aveva amicizie, anche, costanti. Ma il suo squallore morale è infinito: inneggia sarcastico ai carri arnati a Berlino Est, sarcastico contro i lavoratori in sciopero, quando propone di cambiare il popolo piuttosto che il Partito.
Malgrado tutto, Brecht ha lasciato buona nomea. Non solo tra gli amici, che aveva numerosi e disparati. Non di un uomo avido e violento. Era un piccolo uomo che, satirico nato, marcava “allineato e coperto”, su un regime che non si camuffava – la Repubblica Democratica era singolarmente priva di dialettica. Ma è quel totalitarismo, in nome del popolo, che è specialmente aberrante.
Critica – Perché tanto riserbo in quella letteraria? O è disattenzione? Annie Messina presentata da De Ceccaty su “Le Monde” diventa una lettura interessante. Sherlock Holmes presentato in Italia sarebbe stato sicuramente ininteressante. Citati scrive diverso su “Le Monde” e su “Repubblica”: la sua Cristina Campo del “Monde” finalmente ha preso corpo, non è più evocazione ectoplastica.
I francesi, che leggono tanto di più, forse sanno cosa vogliono. Ma gli equivalenti italiani dei grandi giornali francesi che alimentano la lettura non fanno che sterilizzare la voglia di leggere e la curiosità, con veleni potenti o sottili, volontari e involontari, somministrati perfino coi dolci e i gelati che offrono.
Gli elogi veri sono stomachevoli, quelli finti stancanti. È invidia? Insicurezza? L’eterno populismo (è sopravvissuto alla caduta del Muro)? Da che nasce questa costante propensione allo squallore? A spese in realtà della letteratura, che invece è vita.
È la pietra al collo del mercato letterario. Gli editori la loro parte la fanno, i critici forse non sanno. Due terzi della critica si esercitano su due, tre autori, nell’ordine: Pasolini, Calvino, Gadda. Due terzi del Novecento italiano sono ignoti alla critica: Soldati, Savinio, Brancati, Primo Levi, Landolfi, Flaiano, e in realtà pure Palazzeschi, Svevo e Pirandello, sui quali si fanno le tesi di laurea – sono al meglio “piccoli Manzoni”, non ci sono altri modelli.
È dominata da poco meno di un secolo dalla “sindrome Nava” – derivata dall’ultimo Manuale di Diritto Diplomatico e Consolare, del professore Nava: a) naufrago per esser povero, b) povero per essere orfano, c) orfano per esser naufrago. La letteratura è una poveretta che si deve “giustificare”. Si può esercitare se si è gay, malati gravi, casalinghe depresse, o anche spiritose, maestri-e, informatici e matematici in genere, ministri, e belle fiche, insomma dei casi umani.
Manzoni – È una trappola: si parte dall’omaggio all’insight, anche se molto rifletteva il senso comune (eh sì, la storia in Italia è peggiorata, altro che progresso…), e se ne fa un vangelo. Del suo scadentissimo mondo morale, di deprecazione e compassione, ossia semplicità e pastetta, “signora mia, che ci vuol fare?”. Il romanzo dà un buon quadro della cultura cattolica, da neofita, di quella del primo Ottocento, neo guelfa un po’ ghibellina, e nulla più. Gli spagnoli, Renzo, Lucia, como, Milano, la Lombardia, dove sono?
È per questo che è soltanto italiano. Caso unico fra gli scrittori di tanto successo: perché è il portabandiera del vecchio – l’inazione piace ai moribondi, ai delusi, ai depressi.
A quante lunghezze sta da Chateaubriand – che la maggior parte dei francesi può permettersi di non apprezzare… - che egli indirettamente imita. E che, pur essendo altrettanto volage, nonché frenetico della forma, è più brillante (più generoso con le sue donne), più appassionante (miglior scrittore) e più profondo. E quella disattenzione russoviana, tanto poco cristiana e anzi non-umana, per mogli e figli?
L’ortografia, precisina e sbagliata, soprattutto nelle lettere, non editate, è da spregiatore del genere umano, per quanto socievole. E il periodare complicato.
Mentre in Proust, che abusava di un periodare altrettanto complicato, l’ortografia è solo un problema tecnico, in Manzoni ha un’aria puntuta, dispettosa. Cerimoniosa ma piena di alterigia.
Rano gli interlocutori cnseti di Manzoni persone di cui non si fidava? Può succedere che, immerso in un ambiente non eccelso (D’Azeglio, Tommaseo, Grossi, Bonghi), uno che viene da Parigi e dai migliori salotti lo assolutizzi come fosse l’umanità intera. O non era un uomo gonfio d’orgoglio, compassione compresa?
“I Promessi sposi” come romanzo ideologico.
Sono un affresco storico e morale. Ma sono anche il testo che condiziona e caratterizza l’Italia unita, fino alla politica in questi giorni a Milano e Lombardia, tra Berlusconi, Bossi e la Procura, perché quella ricostruzione era programmatica, ed è divenuta (era?) politica. Il dis-rispetto di ogni potere, in nome non della libertà, come sarebbe di un liberalismo politico, ma della partecipe compassione – o compassione al quadrato (il perdono, l’abbracciamoci, il buon cuore). La presunta indistinzione della politica e delle scelte responsabili nella superiore Provvidenza. Che ci impedisce, certo, di creare un Terzo Reich o sprofondarvici: Ma chi ha detto che la politica va misurata sempre a questo livello, del limite con la barbarie (morte)? Manzoni.
La politica è l’arte del possibile. Di divertirsi per esempio. O di volersi bene, con o senza l’atto naturale del coito – la cui pratica costante non ha lasciato traccia nel Nostro. Manzoni è un ideologo, per questo ha scritto un romanzo senza personaggi, se non appunto le macchiette o marionette, Abbondio, Rodrigo, etc..
Marx – O dell’ironia. Con i benefici e i limiti dell’ironia. In tutti i rapporti umani, anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico sotto la forma dell’individualismo: io e gli altri. È la forma più esasperata dell’individualismo, una sorta di misantropia.
L’ironia è il lato più simpatico (allegro, burlone) di Marx, oltre che la sua grande dote conoscitiva (socratica). Ma è probabilmente il bacillo che a un certo punto ne mina la dottrina politica. Il cristiano si riscatta nella confessione, per quanto ipocrita possa la stessa confessione cristiana essere. Il comunista non può abbandonarsi mai: Pena l’ipocrisia, e cioè la malvagità. Inoltre, “scartare” sempre porta all’insensibilità, non a più conoscenza – attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie (soffriva Marx di fegato?).
Novecento – L’ambizione del scolo, penetrare la verità, la realtà, scade nella realtà virtuale, da creare con i guanti, e nel desiderio avvilito (la tv interattiva, di telefonate, telecomandi), nella ritrazione solitaria (il tocca e fuggi della Rete, l’insolenza, ironia, linguaggio bellicoso dei media).
Opinione – Ha fatto più, per liberare l’opinione in Italia, l’Adelphi, la casa editrice, che non la caduta del comunismo. Berlino, il golpe di Mosca, la dissoluzione dell’Urss e del Cominform, o Comintern, l’istantanea evaporazione di settant’anni di storia e di entusiasmi, dell’angoscia nucleare, dell’ecatombe della buona coscienza, non hanno prodotto nessun rivolgimento in Italia, nessuna revisione, nemmeno rimorsi. Quel poco che c’è, di capacità di pensare e di scrivere criticamente (liberamente), è emerso con lentezza con una proposta di cultura, per quanto limitata e sommessa, poco aggressiva, e con testi a autori vecchi, di pochi decenni ma già di epoche: Simone Weil, Canetti, Kraus, J.Roth, e perfino Nietzsche.
Erano remoti quei traumi? E come possono dirlo quelli che viaggiavano a Mosca e pensavano solo per il Partito? Senza novità è caduto anche il fascismo, e no era un fatto remoto perché seguiva una guerra rovinosa: l’efflorescenza liberaldemocratica è stata presto accantonata, senza resistenze. Mentre risorgevano (non erano mai morte) le avanguardie e le scuole. La politica – le costituzioni, i piani – è un fatto epidermico, un atteggiarsi della storia. Con estrema lentezza la storia – la forma mentis, i comportamenti sociali, etnici – si modifica. E per una lettura anche meglio che per una rivoluzione, se la storia misconosce le rivoluzioni.
Pasolini – Rivisto al cinema, che è la sua scrittura migliore, è tutto morte – come assenza di desiderio. Non c’è spiraglio. La passione è a denti stretti, declamata, e il gioco una costruzione a freddo, una geometria. Con quell’intollerabile sentimentalismo pigmalionistico – che non è compassione né populismo, e forse è l’impossibilità omosessuale di essere padre. Non regge neppure l’ipostasi borghese, punching-ball già falso nei suoi ultimi anni. Anche la disperazione (“Teorema”, “Salò”) sembra artificiosa. Di passione vera c’è solo l’odio, e il disprezzo. Gli angeli sono misantropi? Ma Pasolini si voleva troppo angelico per esserlo.
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