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sabato 9 aprile 2011

I racconti felici del Tabucchi ritrovato

“È un’allucinazione”, il lettore dirà a un certo punto con l’autore, “sono in un romanzo”. Non può essere, un romanzo non c’è, il libro raccoglie una quarantina di pezzi staccati, ma Tabucchi ci riesce. Sono una quarantina di cammei, occasionali quanto godibili, alcuni inediti, altri sparsi in venti anni, raccolti da Thea Rimini. Molti memorabili: la morte di Empedocle, la signora Multipla Seicento, il diario cretese, il viaggio onirico nel catalogo del pittore Dacosta. In una prosa sempre scorrevole, la “lacca di garanza” di un pezzo che sarà celebre, benché di elevatissima messa a punto. 
Liberato dal giornalismo - la politica è il suo Snark (“perché vogliono che io sogni questo sogno? Chi mi obbliga a sognare?”) - Tabucchi torna lo scrittore unico (solitario, sorprendente, inimitabile, familiare, “naturale”, cioè contemporaneo) del terzo Novecento. 
Antonio Tabucchi, Racconti con figure, Sellerio, pp. 363,€ 15

Roth satirico, è la sua specialità

Più che “Fragole”, un abbozzo autobiografico della bozzettistica ebraica orientale, il pezzo forte è il racconto che lo precede, un romanzo in realtà. S’intitola “Perlefter, storia di un borghese”, ed è la tragicomica storia, a metà tra Molière e Flaubert, di un borghese gentiluomo che ama le frasi fatte, l’arredamento che non apprezza, gli oggetti che non capisce, intento com’è alla ricerca della felicità, che gli compete per status.
Scritto nel 1929, prima del ciclo legittimista che poi lo ha caratterizzato, sulla perdita della patria e cioè del centro, e quindi di sé, che ne fece anche un sostenitore poco critico di Otto d’Asburgo. Con l’ambizione di scrivere “il mio romanzo più bello”. Ma non completato. Oppure sì, si può ritenere una fine la sinossi del decimo capitolo: “Nessun ricco era tanto vicino al futuro povero Leo Bidak quanto il signor Perlefter… Allora Bidak, con un po’ di speranza nel cuore, si recò da Perlefter. Quando arrivò, si stava celebrando una piccola festa di famiglia: il compleanno di Fredy. Si sarà già capito, da ciò che ho raccontato finora del signor Perlefter, che nei giorni che gli costavano denaro, anche se gli fruttavano gioie, non era proprio dell’umore adatto per spendere denaro per qualcosa che non gli avrebbe mai fruttato gioie”.
Rimasto inedito, “Perlefter” è stato ripescato nel 1978, e già tradotto vent’anni fa per la bella collana L’Ellisse della livornese Aktis da Veronica Fanelli, a cura di Fabio Canessa. Giocato sul paradosso, che è la vera cifra di J. Roth se lo si legge in tutte le sue scritture, compresi i viaggi e la saggistica letteraria, non solo nel lamento della tradizione e nella solitudine finale. Giocoso perfino: “Perlefter, storia di un borghese” è il paradosso di come si possa essere ricchi e poveri. E poveri e stupidi: “Certe persone sembrano di valore soltanto perché povere, e a un morto di fame si è propensi ad attribuire una capacità creativa, che in realtà è pura miseria. La grande ingiustizia dell’ordine mondiale ci induce a conferire ai poveri anche dei meriti, mentre già da sola la povertà sarebbe motivo sufficiente per farci amare chi ne è colpito”.
Joseph Roth, Fragole, Adelphi, pp. 178, € 14

L’emigrazione non è invasione

L’immigrazione forzosa viene affrontata, per ultimo dallo stesso presidente Napolitano, che da ministro degli Esteri ne misurò bene gli orrori, sulla base di un equivoco: gli italiani erano emigranti per bisogno ancora cinquant’anni fa. La solidarietà, che ha molti fondamenti, avrebbe in questo precedente una sorta di aggravante, di chiamata di correo. È un equivoco, che annebbia e aggrava anche la reazione di chi è contrario a ogni tipo d’immigrazione, fino al razzismo. Mentre un confronto tra le due situazioni, che sono radicalmente diverse, potrebbe consentire un approccio più razionale, se non più soddisfacente, all’immigrazione clandestina.
L’Italia non invadeva, questo è il punto. Anche quando aveva ragioni specifiche per il rifugio politico, sotto il fascismo. Emigrava. Coi documenti. Che costavano impegno e sacrificio. Non s’infiltrava, non si rivoltava, non si atteggiava a padrone della terra, rispettava il paese di destinazione, fosse pure chiuso o ostile. E l’emigrazione affrontava come un duro sacrificio e non un avventura. “Italia bella, mostrati gentile\ e i figli tuoi non li abbandonare,\ sennò ne vanno tutti ni’ Brasile\ e ‘un si rìcordon più di ritornare.\ Ancor qua ci sarebbe da lavora’,\ senza sta’ in America a emigra’…”, cantavano a fine Ottocento nel Casentino. Non c’era rivalsa, non si attaccava il paese in cui chiedeva di emigrare, per torti magari veri ma di tre o quattro generazioni fa. E l’organizzazione di questo mercato della carne, se c’era, si contentava della legalità.
Il diverso momento storico anch’esso non è dirimente. La decolonizzazione è un fatto ormai da cinquant’anni. Le responsabilità coloniali non c’entrano per nulla in queste fiumane umane che lasciano il Nord Africa e l’Africa sub sahariana. Semmai c’entrano i governi indipendenti. L’Italia, l’Europa e il mondo hanno un dovere di solidarietà, ma non di fronte a un’aggressione, qual è quella che arriva dalla Tunisia “democratica” oggi come dall’Albania “democratizzata” vent’anni fa – che Napolitano ben conosce. Soprattutto non c’è nessun obbligo di prendersi gli avanzi di galera, di cui i governi “democratizzati” tendono a liberarsi con evidente sollievo.

Quant’è ricco il Campidoglio, di case ignote

Lo scandalo degli affitti era tipicamente di destra, e implicava gente di sinistra. Ora che al Campidoglio c’è un sindaco di destra, lo scandalo implica gente di destra. È inevitabile: il Comune di Roma è ricchissimo, o potrebbe esserlo, possedendo alcune diecine di migliaia di immobili, in grande parte pregiati, che però non sa o non vuole mettere a frutto. Ma sempre se ne fa uno scandaletto più che uno scandalo, perché poi gli affitti di favore sono legali, se non regolari, e dopo qualche settimana si mette tutto a tacere.
A proposito dell’ultimo, che questo sito ricordava un mese fa,
http://www.antiit.com/2011/03/mani-sporche-sulle-case-del-campidoglio.html,
è utile rileggere quanto se ne poteva scrivere quasi vent’anni fa, a metà ottobre 1993, si capisce tutto, anche perché Roma non si può amministrare decentemente:
“Un patrimonio immobiliare di almeno 15 mila miliardi, che potrebbe dare un reddito annuo di 600-700 miliardi, invece dei 20 attuali, e mettere le ali al sindaco della capitale che verrà eletto il 21 novembre, è destinato a restare sotterrato, come ogni tesoro che si rispetti. Il Comune di Roma, che con l’ultima giunta eletta, sindaco il socialista Franco Carraro, aveva affidato due anni fa la rilevazione degli immobili al consorzio privato Census, ha sospeso l’appalto. «L’amministrazione comunale possiede le potenzialità per effettuare tale operazione con i propri mezzi, senza pesare sul bilancio comunale», ha scritto venerdì 8 (ottobre 1993) il subcommissario Angelo Canale.
“Census contesterà in tribunale la decisione della giunta commissariale. Ma a questo punto anche il consorzio, composto da Fiat-Fisia (21,5 per cento), Federici (14), Conaco-Lega delle cooperative (10), Fincasa di Renato Bocchi (7,5), Aged (6,) e numerosi altri con quote minori, tra cui Agip, Jacorossi, Ised, ritiene improbabile la ripresa del lavoro interrotto, circa un terzo del programma completo. Non è questa infatti la prima grana nella quale il censimento ha inciampato. Dapprima la contestazione dei concorrenti all’appalto, assegnato per 91,6 miliardi a trattativa privata: i consorzi Italgenco-Unisys e Sogei-Svei-Ras. Il primo sosteneva di poter fare il lavoro per 70 miliardi, il secondo per 45. Mentre il Sipac, il sistema di controllo del patrimonio nell’ambito del Ceu, il catasto elettronico unificato del Comune, affermava di potercela fare esattamente con 38 miliardi e 834 milioni. Poi la magistratura è intervenuta. Il sostituto procuratore Gloria Attanasio, finiana, ha chiesto un anno fa il rinvio a giudizio di Carraro, di nove assessori e del presidente di Census, Luciano Caruso, per abuso d’ufficio, affermando senza mezzi termini che l’appalto era «espressione del regime moribondo». Ma il Gip Antonio Trivellini le ha dato torto. Le argomentazioni del sostituto Attanasio ricalcavano peraltro quelle delle opposizioni di sinistra, che contro l’appalto a Census hanno dato battaglia senza mezzi termini.
“Che cosa resterà del censimento troncato? Non abbastanza per consentire al Sipac di aggiornare la gestione sui valori di mercato. Ma ce n’è più che abbastanza per capire forse perché il tesoro immobiliare è destinato, in una città come Roma, a restare sotterrato.
Anzitutto l’entità del patrimonio stesso. Il Sipac calcola 31 mila unità immobiliari, di cui 27 mila destinate ad alloggio. Census ne ha scoperti 10 mila in più, e ritiene che questa cifra possa raddoppiare. Si tratta di immobili che non sono stati «presi in carico». I comuni, spiega il direttore di Census, Piero Rossetti, «entrano nella proprietà di aree e fabbricati attraverso modalità molto varie, dal lascito della vecchina sola, allo scioglimento di enti di varia natura, all’esproprio per abusivismo». In molti casi gli immobili rimangono semplicemente sconosciuti al Comune proprietario.
“C’è poi, e questo non lo contesta nessuno, una gestione sicuramente inadeguata del patrimonio. Il Comune ricava ogni anno 20 miliardi di lire di affitti, pari a una media di 646 mila lire a unità immobiliare. Una cifra ridicola, considerato che il patrimonio del Comune è ricco sopratutto nel centro storico. In compenso, spende ogni anno 35 miliardi per l'«assistenza alloggiativa», a profughi, immigrati, bisognosi, e 45 miliardi di locazioni passive.
“Caruso calcola che, pur destinando a reddito solo la metà del patrimonio, per conservare all’altra metà un uso sociale, il Comune di Roma intascherebbe sui 300 miliardi, «che darebbero al bilancio un forte attivo e consentirebbero di costruire 3 mila abitazioni popolari l’anno». Né sono da trascurare gli effetti contabili: «Il Comune potrebbe mettere a bilancio un patrimonio di 15 mila miliardi, invece dei 4.750 attuali».
“Un terzo aspetto riguarda le «tipologie fraudolente», che, assicura Rossetti, sono «una miriade»: affitti a persone inesistenti, con conseguente impossibilità di effettuare qualsiasi notifica, subaffitti storici, mancata rivalutazione del canone con gli indici Istat, mancato pagamento delle spese accessorie, sopratutto per l'elettricità e l’acqua, per mancata suddivisione dei millesimi, o per contestazione delle quote millesimali, eccetera. Ma, sopratutto, Census si è imbattuta in situazioni di favore che toccano interessi potenti.
“Il Coni non paga dal 1982 il canone di concessione per l’area demaniale dell’Acqua Acetosa, limitandosi a contestarne il livello. Lo stesso sistema hanno trovato dal 1986, per non pagare, le compagnie petrolifere che occupano il suolo pubblico con le pompe di benzina. Tra gli abusivi e i morosi Caruso denuncia anche gruppi della sinistra che hanno osteggiato il censimento: «I casi di maggiore responsabilità sono stati creati dalle giunte che si sono succedute dal 1975 all'85», cioè dai sindaci comunisti. Un autoparco comprato dal Comune nel 1976 per 35 miliardi, da adibire a rimessa per tutti i propri mezzi, risulta occupato dalla Cooperativa Primo Maggio, che fa capo a un consigliere circoscrizionale dei Verdi, Dante Pomponi, e gestisce, senza licenza, un’autorimessa da 300 posti e un’officina, mentre i mezzi del Comune restano sparsi per 6 o 7 altri autoparchi. A Tor de’ Cenci una tenuta agricola da 600 ettari è occupata per un terzo abusivamente dal 1978 dalla cooperativa di estrema sinistra Agricoltura Nuova.
“Infinita la casistica degli affitti irrisori a vantaggio di singoli privati. Negozi a Via Condotti, a piazza di Trevi, a piazza Navona, dove gli affitti vanno dal milione a metro quadro in su, che pagano sui due milioni l’anno. Appena quattro volte di più paga il ristorante Panzironi, che occupa un lungo pezzo di Piazza Navona. Mentre il ristorante per turisti Ciceruacchio, che fa centinaia di coperti al giorno, risulta accatastato, perlomeno fino a qualche mese fa, come scantinato”.
Della dottoressa Attanasio non si è più saputo nulla. Il commissario Canale è invece entrato poi in politica col Pds-Ds, e si è candidato a Roma.

venerdì 8 aprile 2011

Pasolini nudo

L’album commissionato da Pasolini a Dino Pedriali nel 1975, sulla sua giornata a Roma, a Sabaudia e nel suo castello di Chia, si sapeva essere provocante. Ma pubblicato per intero, uno scatto dopo l’altro, col poeta atteggiato pure nelle foto “mosse”, è la malinconica mostra di un complesso di esibizione. Privato, anche se “a futura memoria”, non invadente, ma sì dell’immagine e della personalità dello scrittore: l’indigenza sarebbe commovente, con le pose pensose e le camiciole plissetées, se fosse ingenua, alla vigilia della morte, ma alla rabbia non si addice il compiacimento. I nudi frontali split un po’ lo salvano, la lussuria come passione.
Dino Pedriali, Pier Paolo Pasolini, Johan & Levi, € 38

Berlusconi resiste alla guerra con la Francia

Forse per i precedenti storici: le guerra alla Francia non hanno portato bene all’Italia. Sicuramente perché si sente circondato dall’imprevista alleanza laico-confessionale, Berlusconi diffida della “cacciata dei francesi” con cui le Fondazioni ex bancarie stanno diventando padrone. Di Mediobanca e di Generali, impensabile fino a ieri, nel mentre che si rafforzano in Unicredit e in Intesa. Con aumenti di capitale che lui sa non necessari, ma utili a indebolire gli altri soci.
Palazzo Chigi non marcia con le Fondazioni e i loro giornali unanimi. Berlusconi non ha la forza di opporsi. Tanto più in quanto non può privarsi di Tremonti, che invece fa sapere di essere consenziente a ogni mossa delle Fondazioni, sue nemiche dichiarate nel precedente governo. Ma tutto quanto lo porterebbe a uno scontro con la Francia è da lui, al suo modo obliquo, disinnescato. Ha voluto un contatto costante con la Francia sull’immigrazione tunisina. Non vuole un’estensione del decreto Parmalat alle assicurazioni (Fonsai) e all’energia (Edison).
Palazzo Chigi opera in silenzio perché Tremonti non è solo, il nazionalismo di rivalsa è anche il linguaggio della Lega. Ma Berlusconi è deciso a tenere duro, convinto che il passaggio di tutta la banca e di tutta l’assicurazione alle Fondazioni sia un’offensiva politica. Che lui chiama di restaurazione, ma che insomma è diretta contro di lui.

L'opinione è la falsa notizia, in guerra e in pace

La guerra è smarrimento. Il soldato sul campo non sa nulla, subisce la fatica e la paura, e più l’incertezza. Nei diari di Marc Bloch la vittoria della Marna ai primi di settembre del 1914 è solo sangue e morte. Il giorno dopo la vittoria è puzzo di cadaveri, corpi rattrappiti, arti sparsi nei campi. Lo storico dei “Re taumaturghi”, fondatore delle “Annales” si fece entrambe le grandi guerre, trovandosi come tutti i soldati spiazzato, e anzi disperso: la guerra passa sopra chi ci muore. Della prima tenne (a tratti) un diario – nella seconda fu fucilato dai tedeschi, essendo passato a capo di un fronte della Resistenza.
Ai ricordi di guerra M. Bloch fece seguire nel 1921 alcune considerazioni sulla creazione e la diffusione della “false notizie” in guerra, “Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra”. Che s’innestavano sulle ricerche già avanzate sul valore della testimonianza oculare, e fonderanno gli studi della “mentalità collettiva”. Non c’è molto, oggi come allora “la psicologia della testimonianza” resta “scienza assai giovane”. Con la differenza che un secolo fa si facevano esperimenti di psicologia applicata sull’estensione e il valore della testimonianza, oculare, memoriale, de relato, oggi siamo tutti testimoni a carico, di una colpa non detta.
M. Bloch si limita a porre il problema: i particolari, e anche l’essenziale, possono sfuggire all’osservazione (abitudine) quotidiana. L’incertezza si accresce quando si passa dalla testimonianza individuale a quella collettiva. Quando non è inganno: la falsa notizia più spesso è fabbricata. Ma “l’errore si propaga, si amplia” se “trova nella società in cui si diffonde un terreno di cultura favorevole”. Se c’è a monte, e se non c’è si costruisce, un grumo di “pregiudizi… odi… paure… forti emozioni”. Fino alla pratica giornalistica, che M.Bloch registra senza scandalo, di scrivere il “pezzo” prima di arrivare sul fatto, per comodità. La guerra è falsa, e anche la pace.
Marc Bloch, La guerra e le false notizie

La strana denuncia ritardata del caso Ruby

Il partito di Ruby è da qualche tempo senza argomenti. Non ci sono ancora le foto di Berlusconi nudo, e nemmeno la voce, che pure si era detto che c’è. Mentre mancano dai cento o duecento testimoni chiesti dagli avvocati a difesa Marco Landolfi e Luigi Ferrazzano. Sicuramente più importanti di George Clooney, che invece c’è. Sono della Polizia, ed erano capo equipaggio e agente della Volante Monforte Bis che il 27 maggio avevano fermato Ruby per furto su denuncia della sua padrona di casa. Non sono famosi, ma sono all’origine del caso Ruby. Due mesi dopo i fatti. Il 28 luglio ci hanno ripensato e hanno redatto un “seguito di annotazione all’intervento effettuato il 27 maggio”. Non è mai troppo tardi, si vede, neanche per la Polizia. I due, altra stranezza, non sono citati nemmeno dalla pubblica accusa. Che anzi non li ha nemmeno interrogati, non ce n’è traccia negli atti.
Il ruolo dei due agenti si ritrova unicamente in una nota perplessa del “Corriere della sera”:
http://archiviostorico.corriere.it/2011/marzo/01/Mai_interrogati_due_agenti_che_co_9_110301010.shtml
“Lodevoli. Ma perché dopo due mesi? Non si sa”. E non si può sapere, argomentava il giornale, “perché con scelta singolare i pm… di tutti i poliziotti non hanno interrogato proprio solo i due agenti”. Sicuramente però li hanno ascoltati, dato che si sono mossi sulla falsariga del “Seguito di annotazione”. Al Tribunale o in sezione?
E perché i legali di Berlusconi non rilevano la stranezza?

Il corriere impunito dell’illegalità

Si intercetta abusivamente il presidente del consiglio e si diffondono le intercettazioni. Illegalmente, e giusto per deriderlo, le intercettazioni sono innocue. Si intercetta illegalmente l’avvocato che parla con la sua cliente e si diffondono le intercettazioni: per impedire la difesa. Tutto ciò impunemente. Sul “Corriere della sera”, il giornale di Milano che è anche il primo giornale d’Italia. Nel quale c’è un Battista per tutto, per fare la morale agi antibellicisti, e anche ai bellicisti. Ma non per la giustizia. Che, s’insegna alle elementari, è il fondamento della democrazia. E si basa sulla legge.
Anche Ostellino, non gli fanno scrivere più nemmeno il colonnino sperso in qualche anonima pagina interna. È del resto il giornale che nel 1994 mandò in crisi il governo e la legislatura con un falso avviso di reato al presidente del consiglio, che era lo stesso di oggi, Berlusconi. Che è milanese, ma non uno bene. Dobbiamo tenerci buono Sarkozy, un giorno avremo bisogno che ci bombardi, quando decideremo di rivoltarci contro la feroce dittatura di Milano.

Ma la prescrizione, Caselli, non è un delitto?

È un ritorno, quello del giudice Caselli che dice Andreotti non assolto ma solo “prescritto” del reato di mafia. La giustizia in Italia è un fatto di opinione. Ma in questa chiave è allora utile quanto se ne scriveva mercoledì 23 novembre 2005, dopo che per la prima volta il Procuratore Caselli aveva esposto la sua:
“La Rai per una volta ha osato dire la verità sul processo politico a Palermo contro Andreotti e il giudice Caselli si è arrabbiato: «Non è vero che è stato assolto», ha preteso a sua volta di dire alla stessa Rai, «non è stato condannato a causa della prescrizione». L’avvocato di Andreotti, Giulia Bongiorno, aveva detto: «Negli anni fra il 1993 e il 1995 tutti i pentiti parlavano di Andreotti, ne ricordo almeno trenta, e dopo non hanno parlato più?» Ma anche la prescrizione non è innocente: si vogliono i processi, non si vogliono le condanne, che sarebbero comunque circostanziate, la macchia deve restare ampia a perdita d’occhio, indelebile ma imprecisabile. Questo non è lusinghiero nemmeno come atto politico, è la calunnia.
“Caselli, malgrado tutto, si vuole in buona fede. Non da politico, da giudice. Può darsi. Anzi, senz’altro è come dice lui. Ma allora è gravissimo. Forse non c’è una giustizia politicizzata. Non ci sono amici degli amici, compagni e opportunisti, pronti a balzare come un sol uomo al campanello a stormo. Allora è stravaganza. A spese della giustizia. Dei contribuenti, di cui si sperperano i miliardi. Della politica, che si rende impossibile. Dell’onestà, poiché si allarga l’impunità e quindi la corruzione. È un’indigenza che supera l’immaginabile”.
Tanto più, si può aggiungere, al Sud, e per delitti di mafia.

giovedì 7 aprile 2011

Era l’illuminismo ipocrita

Diecimila lire di ovvietà: si scrive bene, si scrive troppo, o troppo poco, c’è un momento per parlare e uno per tacere. Ha un minimo d’interesse come documento storico, dell’ipocrisia che correva a fianco dell’illuminismo. E apre un varco: era l’illuminismo ipocrita?
Abate Dinouart, L’arte di tacere

Letture - 58

letterautore

Brecht – Non è caduto col Muro perché è il più grande opportunista che la storia letteraria ricordi dopo l’Aretino – ma senza la dichiarata spregiudicatezza, né la verve. Cantava Stalin e teneva i soldi in Svizzera, con complicati giri. Al riparo anche del passaporto della confederazione, sempre generosa con i ricchi. Mentre rubava argomenti e trattamenti alle sue amanti.
Sarà stato un amante apprezzabile. Aveva amicizie, anche, costanti. Ma il suo squallore morale è infinito: inneggia sarcastico ai carri arnati a Berlino Est, sarcastico contro i lavoratori in sciopero, quando propone di cambiare il popolo piuttosto che il Partito.
Malgrado tutto, Brecht ha lasciato buona nomea. Non solo tra gli amici, che aveva numerosi e disparati. Non di un uomo avido e violento. Era un piccolo uomo che, satirico nato, marcava “allineato e coperto”, su un regime che non si camuffava – la Repubblica Democratica era singolarmente priva di dialettica. Ma è quel totalitarismo, in nome del popolo, che è specialmente aberrante.

Critica – Perché tanto riserbo in quella letteraria? O è disattenzione? Annie Messina presentata da De Ceccaty su “Le Monde” diventa una lettura interessante. Sherlock Holmes presentato in Italia sarebbe stato sicuramente ininteressante. Citati scrive diverso su “Le Monde” e su “Repubblica”: la sua Cristina Campo del “Monde” finalmente ha preso corpo, non è più evocazione ectoplastica.
I francesi, che leggono tanto di più, forse sanno cosa vogliono. Ma gli equivalenti italiani dei grandi giornali francesi che alimentano la lettura non fanno che sterilizzare la voglia di leggere e la curiosità, con veleni potenti o sottili, volontari e involontari, somministrati perfino coi dolci e i gelati che offrono.
Gli elogi veri sono stomachevoli, quelli finti stancanti. È invidia? Insicurezza? L’eterno populismo (è sopravvissuto alla caduta del Muro)? Da che nasce questa costante propensione allo squallore? A spese in realtà della letteratura, che invece è vita.
È la pietra al collo del mercato letterario. Gli editori la loro parte la fanno, i critici forse non sanno. Due terzi della critica si esercitano su due, tre autori, nell’ordine: Pasolini, Calvino, Gadda. Due terzi del Novecento italiano sono ignoti alla critica: Soldati, Savinio, Brancati, Primo Levi, Landolfi, Flaiano, e in realtà pure Palazzeschi, Svevo e Pirandello, sui quali si fanno le tesi di laurea – sono al meglio “piccoli Manzoni”, non ci sono altri modelli.

È dominata da poco meno di un secolo dalla “sindrome Nava” – derivata dall’ultimo Manuale di Diritto Diplomatico e Consolare, del professore Nava: a) naufrago per esser povero, b) povero per essere orfano, c) orfano per esser naufrago. La letteratura è una poveretta che si deve “giustificare”. Si può esercitare se si è gay, malati gravi, casalinghe depresse, o anche spiritose, maestri-e, informatici e matematici in genere, ministri, e belle fiche, insomma dei casi umani.

Manzoni – È una trappola: si parte dall’omaggio all’insight, anche se molto rifletteva il senso comune (eh sì, la storia in Italia è peggiorata, altro che progresso…), e se ne fa un vangelo. Del suo scadentissimo mondo morale, di deprecazione e compassione, ossia semplicità e pastetta, “signora mia, che ci vuol fare?”. Il romanzo dà un buon quadro della cultura cattolica, da neofita, di quella del primo Ottocento, neo guelfa un po’ ghibellina, e nulla più. Gli spagnoli, Renzo, Lucia, como, Milano, la Lombardia, dove sono?
È per questo che è soltanto italiano. Caso unico fra gli scrittori di tanto successo: perché è il portabandiera del vecchio – l’inazione piace ai moribondi, ai delusi, ai depressi.
A quante lunghezze sta da Chateaubriand – che la maggior parte dei francesi può permettersi di non apprezzare… - che egli indirettamente imita. E che, pur essendo altrettanto volage, nonché frenetico della forma, è più brillante (più generoso con le sue donne), più appassionante (miglior scrittore) e più profondo. E quella disattenzione russoviana, tanto poco cristiana e anzi non-umana, per mogli e figli?

L’ortografia, precisina e sbagliata, soprattutto nelle lettere, non editate, è da spregiatore del genere umano, per quanto socievole. E il periodare complicato.
Mentre in Proust, che abusava di un periodare altrettanto complicato, l’ortografia è solo un problema tecnico, in Manzoni ha un’aria puntuta, dispettosa. Cerimoniosa ma piena di alterigia.
Rano gli interlocutori cnseti di Manzoni persone di cui non si fidava? Può succedere che, immerso in un ambiente non eccelso (D’Azeglio, Tommaseo, Grossi, Bonghi), uno che viene da Parigi e dai migliori salotti lo assolutizzi come fosse l’umanità intera. O non era un uomo gonfio d’orgoglio, compassione compresa?

“I Promessi sposi” come romanzo ideologico.
Sono un affresco storico e morale. Ma sono anche il testo che condiziona e caratterizza l’Italia unita, fino alla politica in questi giorni a Milano e Lombardia, tra Berlusconi, Bossi e la Procura, perché quella ricostruzione era programmatica, ed è divenuta (era?) politica. Il dis-rispetto di ogni potere, in nome non della libertà, come sarebbe di un liberalismo politico, ma della partecipe compassione – o compassione al quadrato (il perdono, l’abbracciamoci, il buon cuore). La presunta indistinzione della politica e delle scelte responsabili nella superiore Provvidenza. Che ci impedisce, certo, di creare un Terzo Reich o sprofondarvici: Ma chi ha detto che la politica va misurata sempre a questo livello, del limite con la barbarie (morte)? Manzoni.
La politica è l’arte del possibile. Di divertirsi per esempio. O di volersi bene, con o senza l’atto naturale del coito – la cui pratica costante non ha lasciato traccia nel Nostro. Manzoni è un ideologo, per questo ha scritto un romanzo senza personaggi, se non appunto le macchiette o marionette, Abbondio, Rodrigo, etc..

Marx – O dell’ironia. Con i benefici e i limiti dell’ironia. In tutti i rapporti umani, anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico sotto la forma dell’individualismo: io e gli altri. È la forma più esasperata dell’individualismo, una sorta di misantropia.
L’ironia è il lato più simpatico (allegro, burlone) di Marx, oltre che la sua grande dote conoscitiva (socratica). Ma è probabilmente il bacillo che a un certo punto ne mina la dottrina politica. Il cristiano si riscatta nella confessione, per quanto ipocrita possa la stessa confessione cristiana essere. Il comunista non può abbandonarsi mai: Pena l’ipocrisia, e cioè la malvagità. Inoltre, “scartare” sempre porta all’insensibilità, non a più conoscenza – attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie (soffriva Marx di fegato?).

Novecento – L’ambizione del scolo, penetrare la verità, la realtà, scade nella realtà virtuale, da creare con i guanti, e nel desiderio avvilito (la tv interattiva, di telefonate, telecomandi), nella ritrazione solitaria (il tocca e fuggi della Rete, l’insolenza, ironia, linguaggio bellicoso dei media).

Opinione – Ha fatto più, per liberare l’opinione in Italia, l’Adelphi, la casa editrice, che non la caduta del comunismo. Berlino, il golpe di Mosca, la dissoluzione dell’Urss e del Cominform, o Comintern, l’istantanea evaporazione di settant’anni di storia e di entusiasmi, dell’angoscia nucleare, dell’ecatombe della buona coscienza, non hanno prodotto nessun rivolgimento in Italia, nessuna revisione, nemmeno rimorsi. Quel poco che c’è, di capacità di pensare e di scrivere criticamente (liberamente), è emerso con lentezza con una proposta di cultura, per quanto limitata e sommessa, poco aggressiva, e con testi a autori vecchi, di pochi decenni ma già di epoche: Simone Weil, Canetti, Kraus, J.Roth, e perfino Nietzsche.
Erano remoti quei traumi? E come possono dirlo quelli che viaggiavano a Mosca e pensavano solo per il Partito? Senza novità è caduto anche il fascismo, e no era un fatto remoto perché seguiva una guerra rovinosa: l’efflorescenza liberaldemocratica è stata presto accantonata, senza resistenze. Mentre risorgevano (non erano mai morte) le avanguardie e le scuole. La politica – le costituzioni, i piani – è un fatto epidermico, un atteggiarsi della storia. Con estrema lentezza la storia – la forma mentis, i comportamenti sociali, etnici – si modifica. E per una lettura anche meglio che per una rivoluzione, se la storia misconosce le rivoluzioni.

Pasolini – Rivisto al cinema, che è la sua scrittura migliore, è tutto morte – come assenza di desiderio. Non c’è spiraglio. La passione è a denti stretti, declamata, e il gioco una costruzione a freddo, una geometria. Con quell’intollerabile sentimentalismo pigmalionistico – che non è compassione né populismo, e forse è l’impossibilità omosessuale di essere padre. Non regge neppure l’ipostasi borghese, punching-ball già falso nei suoi ultimi anni. Anche la disperazione (“Teorema”, “Salò”) sembra artificiosa. Di passione vera c’è solo l’odio, e il disprezzo. Gli angeli sono misantropi? Ma Pasolini si voleva troppo angelico per esserlo.

letterautore@antiit.eu

mercoledì 6 aprile 2011

Il capitalismo di Weber è un’altra cosa

Viene letto come una celebrazione della superiorità del Nord. Prospero perché parco, quindi tutto virtù. Non perché ha avuto contadini servi fino a fine Settecento, perché ha praticato l’usura, perché s’è trovato con la banca pronta dove ce n’era la necessità, nelle zone carbonifere che hanno avviato lo sviluppo industriale. Weber dice invece: “Chi cerca la visione vada al cinematografo”. (p. 79). Il capitalismo – di cui peraltro propone di cambiare il nome (41) – individuando in molte cose. Quello ebraico dice speculazione di paria. Mentre il puritano è uno senza duttilità (209). Il pietismo rileva più aperto – ma è un luteranesimo cattolico.
M. Weber non apprezzava la psicanalisi, e in questo caso ha perduto un’occasione: ci avrebbe trovato il senso esagerato del denaro - il desiderio di possederne e insieme l’avarizia – che tanto spazio ha nel calvinismo imputato alla “fase anale”, immatura, dello sviluppo psicologico.
Max Weber, Sette e capitalismo

Ombre - 82

Severgnini si esibisce davanti al palazzo di Giustizia di Milano e alle televisioni nel giorno di Ruby. Per smaltire le batoste dell’Inter col Milan di Berlusconi, prima che con lo Schalke 04?
Dice che è pieno di media stranieri, anche se non si vedono. Forse è lì allora per esercitare l’inglese. Ma poi dice che i media stranieri sono seri e non cialtroneschi come in Italia. E allora si capisce.

“Il Sole 24 Ore” si promuove vendendo col giornale il “Lutero” di Febvre. L’ha fatto a dicembre in una serie Grandi Biografie, e lo rifà, in una serie Storia delle Religioni: dunque, il manager ha voglia di letture pesanti. Ma il supplemento del “Sole” si vende in edicola a € 12,90, mentre si può avere in libreria a € 6,50. Dunque il manager non entra in libreria.

Imbarazzo, incredulità, e pronto intervento della Procura di Milano. Il Procuratore Capo Bruti Liberati assicura che le intercettazioni di Berlusconi, che è pur sempre un deputato, effettuate senza autorizzazione e allegate alle carte dei processo Ruby, saranno distrutte. Il predecessore Di Bruti Liberati, Borrelli, era diretto: procedeva illegalmente e non si scusava. Bruti Liberati, milanese anche di nascita, ne sa di più: ritira le registrazioni dopo averle fatte pubblicare.
Il Procuratore fa anche sapere a Berlusconi che è stato registrato. E che presto ne avremo il sonoro sul sito dell’“Espresso” e ne leggeremo le trascrizioni su quello del “Fatto”.

Inclemenza sbirresca sul presidente del consiglio, che nelle trascrizioni è “il Berlusconi”. La giustizia era stata introdotta nei paesi civili per porre un argine agli sbirri.

Naufraga a Latina la candidatura fasciocomunista a sindaco dello scrittore Pennacchi. Ma sono gli ex fascisti a dire no.

Al processo Mediatrade il Procuratore Fabio De Pasquale lamenta di non avere avuto “la collaborazione delle autorità straniere”. Si vede che non ha capito perché.
Però, lo conoscono anche all’estero.

Il pesce d’aprile di Ryanair quest’anno, pubblicità gratuita, è che i suoi aerei non imbarcheranno più bambini. Con un sovrapprezzo: “Abbiamo effettuato indagini di mercato, e sappiamo che molti nostri passeggeri pagherebbero un sovrapprezzo per non viaggiare disturbati dai bambini”. Ma i maggiori giornali italiani ne riferiscono ampiamente, con servizi di contorno (lo psicologo, il pediatra, il massmediologo, il sociologo del turismo, l'agente di viaggio), come fosse una notizia.

C’è la guerra in Libia, Lampedusa è occupata dai tunisini, la Siria si rivolta, in Costa d’Avorio è mattanza, ma “Repubblica” ha più pagine su Ruby, con Lele Mora e Berlusconi. Le insegnanti littizzettiane sue residue lettrici sono così ingorde di sesso?

Sabina Guzzanti, che prospera dicendo l’indicibile di persone, per quanto sia, timorate, riempie di parolacce Ezio Mauro, perché “Repubblica” ha fatto il suo nome nello scandalo dell’investimento truffa col mediatore Giampi Castellacci. E insolentisce Fabrizio Roncone del “Corriere” che osa disturbarla al telefono per la stessa faccenda. Si difende per ultimo col “non confermo” che ha fatto il tema di tante sue caricature – o del fratello? Ma nessuno dei comici ci fa ridere con la comica truffata. Poi dice che non c’è il regime.

Ospitati da alcuni lampedusani nei loro modesti appartamenti, i “rifugiati” tunisini distruggono tutto in pochi giorni, letti, impianti elettrici, elettrodomestici. Lo stesso fanno in poche ore sulla nave da crociera che li trasporta in Puglia, dopo furibonde lotte per arrivare a bordo, sbarcare sul continente, e dileguarsi. Ma non si può dire che questi “rifugiati” sono in gran parte malviventi - di cui magari il governo tunisino si sbarazza.
Emigrare è una sfida che merita rispetto, fuggire, anche a rischio della vita, un altro.

S’indovina dai titoli, dai toni, dalle repentine condanne che il giornalume italiano tifa quasi quasi per Gheddafi. Ne avrebbe motivo, è una guerra stralunata quella che si fa contro il colonnello, che non si è fatta contro Saleh nello Yemen o gli ayatollah in Iran. Ma gli stessi inneggiavano alla Resistenza, quando i golpisti libici sembravano marciare su Tripoli. In realtà fanno il tifo, per il vincitore. Poi se la prenderanno con Obama e Sarkozy, nel nome dell’antimperialismo. C’è un radicalismo cattocomunista, e fa sfracelli.

Sembrava che il quartiere Parioli di Roma, notoriamente fascista, fosse passato alla sinistra per la buona faccia di Rutelli, e l’astuzia politica di Alessandra Borghese, la principessa vaticana. Invece si scopre che era abitato ultimamente da gente di sinistra: almeno 1.200 ricchi di sinistra, quelli che investivano nella truffa. Che con un familiare fanno 2.800 voti, con due 3.600: spostano la maggioranza.
Il problema è: inventare nuove finanziarie promettenti nei quartieri che votano a destra? Quanti soldi ci vorrebbero?

Il mondo com'è - 60

astolfo

Germania – “Furono i Germani, dice Guizot, a portarci l’idea di libertà personale, che era loro propria” – Goethe, “Über die Deutschen”, framm. 231. Quando la perdettero? Col luteranesimo, o meglio con la guerra dei contadini e poi dei trent’anni. Anche se, Goethe annota, è dai tedeschi che è venuta la Riforma. Ancora oggi i tedeschi non si sono assuefatti al liberalismo.

Italia – Se ne vede il tramonto, anche solo come luogo di bellezze, in molti modi. A Roma basterà resistere ancora qualche decennio e sarà fatta: l’invasione turistica cessa. Già ai giapponesi da tempo, e ora ai cinesi, non dice nulla: la civiltà romana è a loro del tutto estranea e, a differenza degli americani rozzi, non sentono neppure il bisogno di esprimere curiosità, bastano loro gli indirizzi alla moda. Nel mondo delle grandi masse asiatiche Roma non avrà nulla da dire. Firenze si è cancellata da sé, come si sa. E Venezia non vuole salvarsi.

Pluralismo – Canonizzato da Bobbio come categoria politica, sta per lottizzazione. È l’invenzione di Moro, che l’ha sperimentata coi socialisti e l’ha imposta a Berlinguer. È una carico oneroso per la democrazia, non ne è strumento.
Ma, forse, più che un’invenzione è un adattamento allo spirito del popolo: dà dignità politica alla mendicità.

Progresso – È il principio economico: adattare la tecnica al bisogno. Che è il principio di sopravvivenza.
È difficile argomentare il rapporto, per esempio con l’automobile, che costa, affatica, ammala (fumi, rumori), e brucia sostanze ricche e non riproducibili. L’automobile moltiplica la mobilità? Ma la mobilità stessa – per lavoro, scambi, svago – finisce presto di essere benefica: dilapida il tempo, è la più comune assassina, non garantisce dalle guerre (non apporta cosmopolitismo, anzi accentua il provincialismo). Prezzi troppo grandi alla libertà, che questo “cavallo di massa” ha esteso a tutti. Ma tutto un secolo, segnato dall’accelerazione dei mutamenti tecnici, si è caratterizzato per l’automobile. La quale è stata il volano del benessere di massa (fordismo).
L’automobile è il passo iniziale di una mobilità impetuosa, intercontinentale, interplanetaria? È il segno di rivolgimento sociale e territoriale (dei rivolgimenti) senza precedenti. Potrebbe anche rispondere a un bisogno di distruzione, a una pulsione d’instabilità derivata da un complesso di colpa iniziale (il peccato originale). Ma il masochismo è solo incidentale nella storia, ancora rimane deviante, o sbagliato.

Razzismo – In Francia è straordinario, perché nasce da un’incomprensione “incomprensibile” dell’islam. Incomprensione che dura da centocinquant’anni e che i francesi erano i meglio equipaggiati a superare. Il difetto è nel persistente illuminismo, che è un bene e un male. È un bene perché ha introdotto in Africa e in Asia l’ideologia, cioè una domanda di dignità parametrata a certi criteri minimi: democrazia, legge, sviluppo. È male perché è intollerante.
L’intolleranza non si rileva tanto nelle technicalities del messaggio illuminista, politiche, economiche, tecniche in senso proprio (pluralismo e partito unico, economia pianificata oppure privata, industria o servizi, etc.): non è qui il rifiuto del diverso. Il rifiuto colpisce le tradizioni, la mentalità, la cultura, i tempi, il ritmo, i linguaggi. Il francese è un linguaggio duro.

Repubblica – Non ha piantato un albero, aperto un parco. Nelle regioni bianche e in quelle rosse. Gli unici giardinetti comunali sono ovunque quelli dell’unità e del fascismo. Cemento invece a sfare: tutti i comuni sono cementificati, perfino le spiagge. È la repubblica della rendita urbana, la radice più gonfia del capitalismo, sacra e intangibile – col cemento sembra che tutti guadagnino, i consumatori in quanto sembra che possano comprare a meno prezzo.

Riforma – È libertà solo in politica. In teologia è servitù assoluta, specie in raffronto alla Scolastica dell’Alto Medio Evo: servo arbitrio, nullità delle opere, predestinazione. E ancora, quale libertà politica? Quella di staccarsi da Roma e dall’impero, la libertà cioè dei principi - con un grado di controllo-sottomissione probabilmente maggiore, se non altro per la vicinanza del centro di comando. La libertà politica moderna e contemporanea è “romana”: è quella delle città italiane del Cento-Duecento, che si ispiravano a Roma repubblicana, ripresa in Svizzera.
Dov’è allora che i protestanti sono maestri di libertà? Non le foro interiore, e questo è indiscutibile, lo si vede in guerra come in pizzeria. Non nella religione. Non nel capitalismo. E neppure in politica. Dov’è che sono maestri? Nell’operosità – alcuni. Ma operosi sono ancora di più gli asiatici.

Snobismo – Presiede in Italia all’informazione. Ma nel suo significato migliore è ritegno e preconcetto, l’opposto cioè del giornalismo.
In Italia si confonde lo snob col dandy, cioè col gentleman – disinteresse e distacco.

Socialismo – È caduto per essersi appoggiato al materialismo, becerissima bufala. Sembrano oggi inverosimili gli sproloqui infiniti, incomprimibili al modo della “filosofia tedesca”, che Berlino ha tenuto per decenni con sussiego e vasto seguito sul Diamat.
Col Muro è caduto naturalmente Marx, anch’egli vittima del materialismo scientifico. Ma quanto Marx si voleva materialista e scientifico? I suoi socialisti, più che dottrinari filosofi tedeschi, li voleva santi: operosi, utopisti.

Televisione – Il suo linguaggio è la pubblicità: messaggi semplici (uno alla volta), brevi, ripetuti, attraenti – non c’è televisione senza “veline”.
Con la frequenza dei messaggi, uno ogni pochi minuti, la pubblicità è la televisione.

Tolleranza – Nasce quando la politica, religione compresa, diventa fatto di massa. Quando cioè la politica, religione compresa, si riduce a fatto di parte, accentuando la divisione e il settarismo. Allora nasce come antidoto al tolleranza. Che in realtà è una maniera di dire: “Abbiamo scherzato”, e una forma d’indifferenza. E può non estendersi (solitamente non si estende) ai valori interni della propria ideologia, ma solamente alla sua carica missionaria.

Volontariato – Il Quarto Settore si è rapidamente imposto in Italia, già venti anni fa e in pochi anni, non perché nasce da un impulso missionario. O dall’impegno: la prima cosa che colpisce della Caritas è la freddezza, dei funzionari come dei volontari propriamente detti, e dei giovani. Si impone per gli spazi di libertà (duttilità) che riapre all’azione. Dentro la burocrazia.
È un’organizzazione, e ha tutto delle burocrazie, perfino le gelosie intestine. Ma si caratterizza per l’informalità e la flessibilità. Informalità nei metodi, flessibilità nell’organizzazione, nella struttura, nel finanziamento. Senza scadere nell’occasionale e l’erratico, anzi: il volontariato si caratterizza per costanza e continuità. Sono le sue forme di produttività, come lo erano del cooperativismo un secolo e mezzo fa. Farebbe anche un’ottima teoria del management.

astolfo@antiit.eu

martedì 5 aprile 2011

Tutto il potere alle Fondazioni

Tutte le fibrillazioni sottostanti (Generali, Mediobanca, Intesa, Unicredit, “Corriere della sera”, Ntv) si ricompongono attorno alle Fondazioni ex bancarie. Sono, e di più sono chiamati ad esserlo, i Palenzona, i Guzzetti, i Biase gli arbitri dei maggiori gruppi bancari e assicurativi. Di Intesa dopo l’aumento di capitale, di Unicredit con Fondiaria-Sai, di Generali e Mediobanca dopo la cacciata che si sta tentando dei francesi, e della Ntv di Montezemolo e Della Valle, il treno privato. Con una presa rinsaldata sul “Corriere della sera” e i suoi periodici.
La Fondazioni si propongono senza più mascherature, nel vuoto accentuato in questa fase della iniziativa politica, quale strumento di potere per eccellenza. E confessionale, benché sia stato creato da Giuliano Amato. Sancito in tale posizioni dalla Corte Costituzionale, nella persona di Gustavo Zagrebelsky. Che anche personalmente identifica la commistione di laico e confessionale, monocratico e partecipativo, assolutista e benevolo, di cui il nuovo potere si sostanzia.
Frantumato da Milano (Bossi, Berlusconi, la Procura), il potere bianco si è ricostituito, più ramificato e solido di prima, attorno al Quarto Settore e alle Fondazioni. Una modernizzazione totale - era prima politico e legato al settore pubblico dell’economia, Enti, appalti. E in linea coi tempi, che il potere vogliono diffuso.

La cacciata dei francesi

Dopo Lactalis Generali? E cioè Mediobanca. È ineluttabile che il fronte antifrancese si estenda dal latte al gigante assicurativo e al gruppo bancario. Non in virtù del decreto legge varato in fretta dal governo contro la scalata francese a Parmalat. E neppure, forse, per leghismo, o un malinteso nazionalismo, che è poi il passaggio dalla finanza internazionale aperta a quella confessionale chiusa. Ma con la stessa determinazione. Se non domani, al cda straordinario di Generali, la resa dei conti sarà di breve termine con Bolloré, il finanziere francese che per tanto tempo si è speso per l’autonomia di Mediobanca-Generali. I nuovi equilibri di potere, disegnati da Bazoli (Intesa) con Perissinotto (Generali) e Nagel (Mediobanca) attorno alle Fondazioni “bianche” o ex bancarie, muovono dalla cacciata dei francesi.
La cacciata non sarà però immediata né semplice. Il governo non gradisce. Si è fatto prendere in contropiede sul decreto anti-Lactalis, ma non si fida del fronte Bazoli. E questo vale anche per Tremonti, oltre che per Berlusconi. Né ha interesse a una cacciata in massa dei francesi. Che bene o male hanno investito in Italia. Si inariderebbe una delle poche fonti d’investimento estero in Italia ancora aperte, dopo il congelamento di quelle arabe. Le fuoriuscite da Generali di Del Vecchio, grande investitore internazionale, e della spagnola Santander hanno aggravato il senso di allarme.
Le partite aperte sono molte, e in alcune la parte italiana ha tutto da perdere dalla cacciata dei francesi anche sul piano pratico, aziendale. Le prime difficoltà si creerebbero nello stesso gruppo Generali, e in particolare per Perissinotto. Non è più sicuro che Sncf, le ferrovie francesi, vogliano mettere mano al loro 20 per cento di capitale impegnato nella Ntv, la società concorrente di Trenitalia che dovrebbe partire a fine anno. In questo caso Perissinotto avrebbe difficoltà a giustificare un impegno di Generali per il 15 per cento della stessa Ntv, qual è quello da lui sottoscritto, tanto più che Ntv fa capo a Della Valle.
Altri fronti sono la Edison, dove le prospettive si sono rabbuiate dacché Edf, il colosso francese dell’elettricità, si è messo in disparte, lasciando il gruppo alle guasconate di A2A, l’azienda elettrica milanese. La ristrutturazione è infinita nell’ex Bnl, e l’acquirente Bnp Paribas volentieri la dismetterebbe. Solo da Intesa il socio francese, il Crédit Agricole, sta uscendo senza polemiche, per fare spazio alle Fondazioni amiche di Bazoli. Ma non senza recriminazioni: i francesi si pentono della disponibilità data a Bazoli per creare il maggior gruppo bancario italiano, che ora ritengono “eccessiva, e non adeguatamente remunerata”.

Il treno di carta bollata

Il treno privato di Montezemolo e Della Valle incrementa le cause in attesa del decollo. Le cause in Tribunale, penale e civile, che la Ntv, Nuovo trasporto ferroviario, ha promosso contro Fs e contro Trenitalia, e che Trenitalia e Fs stanno promuovendo contro Ntv. Una vicenda apparentemente implausibile, poiché Montezemolo e Della Valle hanno dalla loro, come soci con quote rilevanti (20 e 15 per cento), e come sponsor politici, Intesa e Generali, i due maggiori gruppi finanziari del Paese. E Della Valle è frequentatore diuturno, come egli stesso rivendica nelle sue quotidiane esternazioni, di Perissinotto, l’uomo azienda di Generali. Non si capisce cioè perché il treno Ntv non parta. Ma ci sono due ma.
Uno è che il governo, bene o male, c’è. E Berlusconi, la Lega e Tremonti si tengono distinti dalla galassia Intesa-Corriere della sera, alla quale Montezemolo e Della Valle sono ascritti. Non si fanno la guerra ma stanno in guardia. L’altro è, secondo molti, nella natura stessa di Bazoli e Perissinotto, gli uomini azienda dei due gruppi, Intesa e Generali, che amano le cordate ma non si fidano. Sarebbero loro stessi a tenere sulla corda Montezemolo e Della Valle. E un terzo “ma” si potrbbe aggiungere: che i 25 treni della flotta Ntv non sono ancora pronti, non quanti sono necessari per avviare il servizio almeno sulla Roma-Milano. Non prima della data prevista, a fine anno.

Problemi di base - 56

spock

Ma il 6 dobbiamo tifare per Ruby o per Geronzi?

E Belén: è la fidanzata di Borriello o di Corona?

O di tutt’e due?

E perché non c’è agli atti Ruby nuda? Non sarà un travestito?

Ridono tutti da Fazio quando c’è la Litizzetto: hanno un linguaggio cifrato?

Che ci fa uno in paradiso, se non sa nemmeno che è felice?

I figli pagano per i padri, i padri per i figli: la legge della famiglia è quella dei rapimenti di persona?

Quando al ristorante c’è una rapina a mano armata, con feriti e magari anche morti, gli avventori devono pagare il conto?

Se io sono anche l’altro, faccio carriera doppia?

spock@antiit.eu

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (85)

Giuseppe Leuzzi 

Berlusconi va a Lampedusa e promette un campo di golf. Anche se c’è stato per pochi minuti, il prefetto gli avrà pure spiegato che nell’isola non c’è l’acqua. Berlusconi è molto superficiale in genere, e più per il Sud, che accascia di calorose pacche e smaglianti sorrisi, e delle prime scemenze che gli vengono a mente (il Ponte, l’Alta Velocità, Napoli pulita). Ma una gaffe così al Nord non l’avrebbe fatta: avrebbe saputo che gliela facevano pagare, mentre al Sud tutto quello che viene dal Nord, l’insopportabile Berlusconi compreso, è buono. I temibili Piromalli di Gioia Tauro erano tra i maggiori clienti del “Madoff dei Parioli”, la truffa dei soldi spariti, con 14 milioni. Dunque, non è difficile. Il Procuratore Capo Caselli va in tv a dire che Andreotti non è stato assolto a Palermo dall’imputazione di mafia ma solo “prescritto”. Questo non è vero. Ma Andreotti non obietta, né il suo avvocato a Palermo, l’onorevole Pina Bongiorno, del partito di Fini, presidente della commissione Giustizia alla Camera. C’è dunque una giustizia, anche in Italia? Nelle celebrazioni del centocinquantenario il Sud scopre di aver dato più martiri, in Calabria, a Napoli e nel napoletano, e in Sicilia, per l’idea di unità e di democrazia, che tutto il resto d’Italia. Prima di essere liberato dal Piemonte e da Garibaldi.
 
Calabria
Ancora cinquant’anni fa, chi ne faceva il giro in ferrovia, sulla Roma-Reggio e per l’infinita Reggio-Taranto, aveva la sensazione d’inoltrarsi in un mondo di silenzi e quasi ascetico, tra coste disabitate e la montagna incombente, per quanto distante. Incontrava rade borgate, stazioni che sembravano caselli abbandonati, e un paesaggio quale Omero forse lo aveva visto tremila anni prima, se non era cieco. L’ombra chiusa dei boschi inframmezzava la coltivazione di ogni centimetro quadrato delle erte coste in cui era possibile raccogliere terra fertile. L’economia, dei trasporti, delle abitazioni, degli usi, ha poi trasformato il paesaggio, ma la natura è lenta ad adattarsi, e con essa il linguaggio (la mentalità, le passioni). Tra le persistenze è il linguaggio, il più lento forse alle mutazioni, che è umorale. L’umoralità è il tratto distintivo forse di tutto il Meridione, l’instabilità relazionale. È il problema maggiore per il turista, per il residente una fatica quotidiana. La risposta non è mai netta, e non è consequenziale. Non è detto che in questa trattoria si mangi, non alle ore canoniche, né che abbiano memoria di una prelibatezza che vi hanno servito il giorno prima. Non è detto che l’amico o il familiare che avevate lasciato la sera prima di ottimo umore e buona disposizione oggi non sia invece scorbutico e aggressivo. Ma ci sono delle differenze. Nelle aree di corte, o metropolitane, o che prima si sono addentrate nella modernizzazione, la Sicilia, il Napoletano, dov’era documentata dai viaggiatori ancora all’indomani dell’unità, l’umoralità si è stabilizzata: c’è un galateo comune dei modi, e un’esplicitazione del linguaggio. Se non il sentimento, che resta sempre imprevedibilmente variabile, almeno il modo di porsi e di porgere si adegua a certi standard attesi. Sono qui le radici del “riso” che caratterizza la poesia e la scrittura in genere del meridione e in particolare della Calabria, sotto le forme del grottesco, del sarcasmo, della beffa, dell’ira sconsiderata, e si realizza nell’alternanza rapida, improvvisa, dei registri alto e basso, di toni elevati, epici, elegiaci, idilliaci, e di volgarità. A partire dall’“Aspramonte”, il poema in ottave del Quattrocento su cui l’Ariosto si è modellato, che è una ripresa della canzone analoga del Duecento, in lasse romanze, di ambito normanno, calabro-siculo (fu cantata a Messina nel 1192, alla partenza della Crociata). Non si può non dire il Mediterraneo una frontiera. La frontiera dell’Italia, del Sud dell’Italia, con l’Africa. Non da ora, per gli sbarchi, lo è sempre stato – ora semmai si tende a dimenticarlo, insieme con la geografia elementare. A fine Duecento la “Chanson d’Aspremont”, commissionata dai re normanni per i Crociati che partivano da Messina nel 1192, faceva dell’Aspromonte il baluardo della cristianità contro gli “Africanti” che avevano invaso il meridione. “L’estrema frontiera dell’occidente era collocata a sud e lì convenivano tutti gli eserciti d’Europa al seguito di Carlomagno”, scrive la massima conoscitrice del poema, Carmelina Sicari, nel saggio “Il Sud e la lingua”: “In Aspromonte Orlando vince Almonte e salva Carlo che sta già per soccombere”. Non senza conseguenze, spiega la studiosa: “Il nome dell’Aspromonte risuona per tutta Europa giacché entra nel novero delle canzoni di gesta, veri e propri manuali di formazione umana e cavalleresca”. Ora, certo, gli echi si sono affievoliti. Non c’è il mare, in Calabria, nella memoria e nella tradizione, nella favolistica raccolta da Calvino e da Strati, nei canti popolari. Ma non c’è neanche la campagna, né la montagna, in questa forma di memoria che è oblio. C’è un modo d’essere interiore, etico, di rapporti morali, e per quanto concerne la natura astratti. La condizione mentale del calabrese, faticatore, testardo, collerico, insomma ben materiato, fisico, è la metafisica. La grande tradizione calabrese è del resto speculativa. Si può dire il silenzio il linguaggio della Calabria, il linguaggio prevalente, di cui l’eminente antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani delinea incidentalmente gli originalissimi connotati ne “Il silenzio, la memoria e lo sguardo”. Benché di una memoria ancora indistinta. Il silenzio e la memoria sono più forti in un popolo cui la natura consentì di conservare pochi e incerti segni del suo passato, impegnandolo per terremoti, tempeste, alluvioni, e anche l’incuria politica, a una costante ripartenza. Non ci sono calabresi di mare. Né di terra, la terra non fa passione: è sinonimo da millenni di fatica, ci stiamo malvolentieri (nessuno ci abita più). Oggi meno di prima: un tempo, malgrado il rifiuto, si ricreava la campagna nelle condizioni più ardue, bonificando i suoli di pietre lungo i torrenti, sui pianori in montagna, strappando alle coste strisce pure minime di terra con faticosi muri in pietra, concimando e riconcimando terre aride, alluvionali. E tuttavia respiriamo bene, con pienezza, solo a contatto con la natura. Si può forse dire così: i calabresi sono attorniati dal mare e troppo pieni di storia, che rifiutano – non la rifiutano propriamente, non in coscienza, la rimuovono. Civilizzati che vogliono essere istintivi, e respirano con agio nella natura. Che peraltro non conoscono (classificano, nominano, rispettano) ma nella quale si immedesimano. “Bruna Alessi è Calabrese”, titolava il 2 maggio 2004 “Le Matin” di Losanna, rispettabile giornale svizzero. Fatto non eccezionale, si presume, se non che Bruna, scriveva “Le Matin”, “possiede un dono divinatorio”, e da quattordici anni organizza (organizzava) il Salone internazionale della veggenza a Ginevra. Tra una ventina di operatori, medium, tarologi, astrologi, numerologi e altri parapsicologi. Da lei scelti personalmente. Con che metodo? “Li sento”. La scelta “non è facile, e talvolta molto difficile, ma in tanti anni non ci sono stati imbrogli”. Niente ciarlataneria, insomma: di proposito sono esclusi “gli adepti della magia nera, della magia virtuale, e dei malefici”. Benché, sussurri Bruna, “personalmente ci creda”. Da buona credente: “Per me credere nella magia e in Dio non è contraddittorio”. Una doppia certificazione d’integrità, di cui il giornale non dubita (“imparabile!”), non può dubitare. “Città d’arte”, “Museo a cielo aperto”, “Memorie di poesie e d’arte”, s’incontrano spesso girando queste indicazioni all’ingresso di paesi che poi si manifestano poveri, soprattutto di gusto, tra casoni non finiti e strade rotte. Indicazioni non di segrete pulsioni ma della politica locale, che una maldestra concezione della democrazia lascia agli sprovveduti. Un “ciarlatano calabrese”, originario di Taverna, tenne in apprensione la Spagna a fine Seicento, riscoperto da uno studioso americano, Eric Olsen, “Calabrian Charlatan, 1598-1603”. Tenne in apprensione la Spagna, dicendosi l’erede dei re di Portogallo. “Nel 1958 un uomo, detto «il Ciarlatano Calabrese» dalla Spagna nemica, apparve a Venezia pretendendosi il re Sebastiano, il sovrano portoghese scomparso in battaglia due anni prima. Per cinque anni Veneziani, Spagnoli e Portoghesi si affannarono sulla vera personalità e identità dell’uomo. Era un pazzo? Era un impostore?”, si chiede Olsen. Ravvivò il “millenarismo portoghese” e acutizzò la lotta per liberare il Portogallo dalla Spagna. “Ricordo anche di essere andata a casa di Ruby, viveva con un’amica calabrese, con la quale divideva un appartamento squallidissimo al piano terra…”. Nelle inesauribili incarnazioni agli atti della sua breve vita, Ruby ha avuto due amici nemici, Sergio Randazzo e sua mamma Grazia, informa Piero Colaprico su “Repubblica”: lei li ha invitati a Milano e loro ne parlano male. Dal nome, i due dovrebbero essere siciliani. Il loro disprezzo diventa acuto alla vista dell’“appartamento squallidissimo” condiviso con “un’amica calabrese”. Che il caposervizio di Colaprico rende esplicito in un sommarietto sintetizzando: “La casa nella quale viveva con una calabrese era uno squallidissimo piano terra”. Senz’altro, senza nome né professione, o età, o altro segno di umanità: vivere con una calabrese al piano terra è il massimo dello schifo per il capo servizio di “Repubblica” e per la N.D.Randazzo. La Calabria ha 140 vitigni autoctoni. Ne avessero un decimo a Franciacorta, e magari un po’ di un decimo dell’insolazione della Calabria, conquisterebbero il mondo – oggi si dice il mercato mondiale. Nonché greca, la Calabria ha avuto un lunga storia ebraica. La più antica sinagoga rintracciata in Occidente, del Terzo-Quinto Secolo, a San Pasquale di Bova, ora Archeoderi. Il primo libro stampato in ebraico, a Reggio nel 1475. Il primo “intellettuale” ebraico che si ricordi in Occidente, il medico scrittore Donnolo di Rossano (originario di Oria nel Salento, ostaggio dei saraceni, riscattato dai parenti calabresi), coetaneo e ammiratore-concorrente di san Nilo. Il redazionale dedicato dal “Corriere della sera-Mezzogiorno” alla Calabria a fine marzo è all’insegna del lusso: “Calabria, roba da ricchi”. In Calabria si gioca a golf, pare. E si va in barca: “Gli ottocento chilometri di costa portano i calabresi a desiderare in automatico uno yacht”. È vero che la provincia di Reggio ha la più alta “densità” di telefonini in Italia. Ma non sarà che bisogna avere più contratti, il segnale essendo incerto? 

leuzzi@antiit.eu

All’Urbanistica Milano voleva l’immobiliarista

Questo era possibile annotare vent’anni fa, nell’aprile del 1992:
“Vogliono assessore all’Urbanistica il più grande immobiliarista di Milano: «Così non ha bisogno di arricchirsi», dicono, credendoci. Gioviale, estroverso, capriccioso, simpatico come un vero ricco, per di più amato in Curia, essendo la famiglia di solide tradizioni borromeiane: Carlo Radice Fossati. È perciò un moralista, che accusa tutti di essere dei parvenus corrotti. Non ha bisogno di dimostrarlo, gli basta dirlo. E fa felice la gente.
“Dalla sua posizione bloccherebbe la concorrenza. Ma chi se ne frega della concorrenza fra immobiliaristi?
“È bizzarro come degli scandali Milano dia la colpa agli «altri», che sarebbero i politici, e cioè «Roma». La Lega non è fascista (non è squadrista, non è agraria), ma è per i padani come il fascismo: la voglia di dare una lezione agli altri. E fra 20 o 30 anni diranno: «I leghisti non eravamo noi»”.

lunedì 4 aprile 2011

Mal di Quirinale, sette anni sono troppi

Il presidente della Repubblica ha lasciato perplessi perfino i suoi nelle sue ultime mosse politiche. Ha convocato al Quirinale, per assicurare un corretto svolgimento dei lavori parlamentari i capigruppo dei partiti invece che i presidenti delle Camere. In particolare non ha convocato il presidente della Camera dei Deputati, responsabile in più occasioni di osteggiare il governo, con procedure palesemente irregolari. Dopo avere sottovalutato l’immigrazione clandestina dalla Libia, sia nei numero che nella qualità della stessa. Che non è politica, ma solo contrabbando di clandestini, e forse anche un atto ostile del nuovo governo tunisino. E senza una parola di comprensione per Lampedusa, né alcuna iniziativa di persuasione sulle autorità locali nelle varie regioni che dovrebbero accogliere i clandestini provvisoriamente. Né, si può aggiungere, per le diecine di morti annegati a beneficio dei mercanti di carne umana.
Fuori del Quirinale, tutto ciò sembra ancora più strano in un presidente che è stato titolare dell’Interno, dove ha affrontato con decisione l’immigrazione forzosa dall’Albania. La Lega continua a difendere Napolitano, perché lo ritiene convintamente federalista. Ma ora con qualche dubbio. Anche la Lega teme, come il partito di Berlusconi, che Napolitano voglia accelerare la fine della legislatura, dopo averla difesa. Per un motivo che i due partiti non sanno. Che opinano possa essere legato alla riforma della giustizia. Oppure alla permanenza al Quirinale, giudicata troppo lunga.
È questo un motivo ricorrente di perplessità sulla presidenza della Repubblica: sette anni di mandato sarebbero troppi. Per persone in là con l’età. Per un incarico che non è onorifico o notarile ma politico, e anzi in questi ultimi 20-25 anni di supplenza al Parlamento e al governo. Solo Ciampi, e non del tutto, ha concluso il suo mandato indenne dalle critiche, che invece hanno accompagnato Cossiga e Scalfaro.

Le due Italia

C’erano prima e ci sono più che mai, dopo venti ani di governo milanese. Sono le due Italie. Non c’è solo il sottosegretario Mantovano che protesta inascoltato e si dimette, girando per il Sud si rileva ovunque la convinzione di essere la pattumiera dell’Italia. Non eversiva, nemmeno polemica, è una constatazione, perfino rassegnata: ci mandano gli immigrati e ce li teniamo. Le regioni del Nord dicono no, non li vogliamo, le regioni rosse del Centro dicono ni, ma non se li prendono, gli immigrati sono destinati alla Sicilia, alla Calabria e alla Puglia. Il turismo? L’ordine pubblico? La pulizia? Al Centro e al Nord sono interessi locali dirimenti, nessuno si vuole “sporcare” con questi immigrati che arrivano a frotte, al Sud invece vengono imposti.
I tunisini stessi mostrano di averne percezione, che imbastiscono proteste e accampano pretese come se si trovassero in una qualsiasi colonia e non nel territorio di un rispettabile paese europeo. Sono peraltro immigrati che tutto ormai mostra essere non rifugiati politici, ma clandestini, e forse evasi dalla carceri tunisine – se non avviati a una comoda evasione dallo stesso governo di Tunisi che ora si vuole democratico. Che uno Stato cioè dovrebbe respingere, mentre in Italia li addossa al Sud, sul quale carica furbesco un dovere di solidarietà.
Non è una novità. Le regioni rosse del Centro rifiutarono a suo tempo i meridionali, quando ci fu la grande emigrazione interna. Ora c’è la rassegnata constatazione che il fatto non si sottace e non si camuffa. E che nessuno propone di correggerlo, nemmeno la presidenza della Repubblica, benché assicurata da un illustre napoletano. Nel pieno del centocinquantenario. Nelle cui celebrazioni il Sud ha scoperto di aver dato più martiri (in Calabria, a Napoli e nel napoletano, in Sicilia) per l’idea di unità che il resto d’Italia, prima di essere “liberato” da Cavour e Garibaldi.

I morti fanno notizia se amici

Da quando sono iniziati i bombardamenti sulla Libia sicuramente molti libici sono morti per le bombe dell’Onu. Ma se ne ha notizia raramente, e solo quando le bombe Onu colpiscono i ribelli a Gheddafi, provocando “vittime da fuoco amico”. Ciò risponde alla pratica del giornalismo – alla professionalità – ma in modo improprio, e non corrisponde alla deontologia, a ciò che il giornalismo dovrebbe essere.
Un giornalismo leale o veritiero dovrebbe dire che le bombe Onu fanno morti civili, e cercare anche di sapere quanti e in che modo sono morti. Sul piano professionale, è senz’altro vero che è l’uomo che morde il cane a fare notizia piuttosto che il contrario, giacché da sempre il cane ha morso l’uomo, e quindi non c’è la novità. Ma allora allo stesso modo si dovrebbe dire e sottintendere che le cosiddette guerre umanitarie o per i diritti civili sono guerre come le altre, con morti innocenti. Mentre si presuppone (nell’impaginazione, la titolazione, le illustrazioni, i commenti) che siano guerre chirurgiche, mirate a estirpare i tiranni, e che ci riescano.

Perché comprare una squadra di calcio?

Arriva un imprenditore d’America di cui nessuno sa nulla. Che si compra la Roma ma non ha i soldi. Nemmeno per un terzo della Roma quanto in realtà si comprerebbe (il sessanta per cento del sessanta per cento). Che vuole uno stadio suo, cioè una bella operazione immobiliare, che non avrà. Che parla con questo e con quello come se li conoscesse, e invece non li conosce. In particolare, va a Firenze a parlare con l’indimenticato Franco Baldini, che dopo aver fatto fallire la Juventus e la nazionale inglese, da tre anni lavora a smobilitare la Roma. E poi se ne va: gli affari spesso sono squallidi, ma questo supera ogni altro. Senza cattiveria, proprio per lo squallore.
Si portano al confronto gli oligarchi russi e gli sceicchi arabi, che invece altrove investono senza bisogno di fidejussioni, con soldi veri. Ma questo altro è solo l’Inghilterra, dove oligarchi e sceicchi fanno i mecenati per avere la residenza fiscale. In un paese cioè poco fiscale, oltreche pieno di casinò e castelli. E soprattutto stabile, rispetto agli incerti regimi d’origine.
La verità è che il calcio non fa impresa. Unicredit è finita sull’incerto acquirente italo-americano perché non ha trovato altri. Il calcio può essere business, ma per motivi extracalcistici. Ultimamente alcuni imprenditori si sono avvicinati al calcio, come i Della Valle, come questo Di Benedetto, nell’ipotesi di grandi operazioni immobiliari legate a uno stadio. Tantomeno il calcio è ritenuto profittevole in Italia, dove è dominato (Federazione, Lega e Arbitri) dal Milan e dall’Inter.

Come vincono le milanesi

Gianni Dragoni (“Sole 24 Ore” di domenica) dà al Milan lo scudetto sui conti. Ma dà in realtà lo spaccato di due società tecnicamente fallite: l’Inter e anche il Milan. Due società senza patrimonio, piene di debiti, e senza capitale. Tenute su dai ricchi Moratti e Berlusconi, ma giuridicamente inconsistenti e anzi inesistenti: due “aziende” che fatturano sui 250 milioni, hanno debiti sui 450 milioni, bilanci sempre in perdita, e un patrimonio netto negativo, di 72 milioni il Milan, di 7,36 l’Inter.
I numeri di Dragoni sono eccezionali perché diradano l’opacità in cui i conti delle due squadre sono tenuti. Grazie a una Lega e a una Federazione compiacenti, dominate delle stesse Inter e Milan. I conti delle due milanesi sono peggiori di quelli della Roma, che pure viene svenduta da Unicredit come bene inservibile, con un patrimonio negativo per 28 milioni. Mentre la Juventus, pur spendendo più di quanto incassa, e la Lazio, le società di calcio quotate, così come la Roma, e quindi dai conti attendibili, hanno ancora un patrimonio, rispettivamente per 51 e 8 milioni.

Brusca si ricorda

Nella battaglia del giudice Ingroia contro Berlusconi si schiera anche Brusca. Non con Berlusconi, come ci si spetterebbe da un essere abietto, ma col giudice. Dopo quindici anni di pentimento, Brusca si è ricordato che aveva conosciuto Berlusconi e aveva fatto affari con lui. Se ne è ricordato al telefono, informa “Repubblica”, la scorsa estate, sapendo di essere intercettato.
Ma è un Brusca politologo più che affaristico, quello che la scorsa estate parla al telefono, e anche massmediologo: “La guerra non è fra Berlusconi e questi della sinistra”, spiega al suo compare, un altro pentito: “La guerra è tra Berlusconi e De Benedetti con Repubblica e tutto il resto”.
Questo riferisce da Palermo “la Repubblica”. Che fa di Brusca “un fan di Berlusconi”, ma lo illustra con foto lusinghiere, dimagrendolo, ombreggiandolo, mentre è un rospo con gli occhi esorbitanti. E imbolsendo invece le guardie penitenziarie che lo circondano.
Brusca è anche un killer specialmente abietto, l’assassino di Falcone. Uccise tra i tanti il ragazzo Di Matteo, che sciolse personalmente nell’acido. Per punirne il padre, reo di collaborare con la giustizia. Di cui è diventato, come si vede, il confidente apprezzato. Benché abbia commesso vari altri reati nel corso del suo pentimento, e abbia sempre occultato i soldi del malaffare. Il problema del Sud è sempre più lo Stato, lo Stato della giustizia.