venerdì 22 aprile 2011

Tre Pd al posto di due

Una terza insidia potrebbe dissolvere il Pd a breve, imprevista: quella radicale. Si era dichiarata,e ora si propone a ogni occasione – a Firenze su ogni questione, anche irrilevante, e a Bologna - la divisione tra le due componenti “storiche” del partito Democratico, gli ex Pci e gli ex democristiani. Che se non ci fosse Berlusconi si sarebbero già divisi dopo la sconfitta di Franceschini, silurato dai democratici diessini. E E non è detto che la divisione non sia a breve, se alle elezione fra tre settimane alla perdita prevista di Napoli si dovesse aggiungere qualche altra città, Bologna per esempio. Ma la maggiore insidia in questo momento viene al Pd dalla terza anima, non prevista e invadente, quella radicale. Che suscita perplessità sempre più vaste in entrambe le componenti “storiche”.
Se ne era avuta indicazione un anno fa, quando alla Bonino candidata alla Regione Lazio mancò un consistente numero di voti. I radicali superarono allora le perplessità con le tattiche legalistiche d cui sono specialisti applicate alla presentazione delle liste. Che portarono all’esclusione o alla contestazione di alcune liste del centro-destra, a Roma e Milano. A Roma proprio quella della candidata Polverini. Ma ora c’è insofferenza per questa tattiche: in Toscana, dove sono state escluse con le tattiche regolamentari due liste sicuramente vittoriose, una di centro-destra a Castiglione, e una di sinistra a Gavorrano.
C’è insofferenza nel Pd locale. La previsione è infatti che il Pd perda ugualmente, a Castiglione contro un’anonima lista civica, e a Gavorrano contro il centro-destra.

giovedì 21 aprile 2011

Donne che odiano gli uomini

Si ripropone in economica questo strano romanzo – non nel senso dell’ordine, cioè, che si dà alle cose. Che nel 1925 si costruisce sull’aggressività femminile, verso i mariti, gli amanti e i padri, e tra madri e figlie. Appena temperata dal saldo egoismo che è il senso del tempo, o la devozione a un dio. All’ombra del Cammino, la superiore saggezza del Tao, ambientandosi la vicenda in colonia in Cina.
La storia Maugham vuole quella di Pia de’ Tolomei. Quella di Dante, non quella brutale della storia (come è stata raccontata allo stesso Maugham: il marito che punisce la moglie adultera esponendola alla malaria alla fine, la malaria rivelandosi inefficace, la fa buttare da una finestra). Una storia che la scrittura asciutta (molata sulla lettura di Ibsen, assicura Maugham, mentre a Firenze passava un’estate squattrinata, a modica pensione da una signora in via Laura) mantiene viva. Anche perché rilibera i generi dalla castrazione – ma a questo punto, è da dire, nello stesso filone che gli studi di genere si danno, di affermare e approfondire le specificità invece di appiattirle o negarle.
W. Somerset Maugham, Il velo dipinto, Adelphi, pp. 234 € 10

Ombre - 85

Ciancimino figlio è dunque ar gabbio. Era ovvio, per uno che inventa facile. Ed era facile previsione che gli sarebbe finita male dopo che ha tentato di ricattare il prefetto De Gennaro. Meno prevedibile era che l’arresto fosse ordinato dallo stesso giudice che ha sfruttato Ciancimino in tutti i modi, fino al ricatto al capo dei servizi segreti. Il dottor Ingroia se ne è avvalso per tre anni in indiscrezioni pilotate, processi, articoli, e talk show.

Ciancimino figlio è stato arrestato a Fidenza. strana location, per rinchiuderlo nel carcere di Parma? Con Provenzano e uno dei Graviano. C’è bisogno di supporto per addebitare le stragi del 1993 allo Stato, o meglio ancora a Berlusconi? Il teologo Spatuzza, il centokiller, certo non basta. Altrimenti la Procura di Palermo si costringerebbe magari a indagare la mafia a Palermo, e questo attenterebbe al mercato, in uno dei pochi posti immuni alla crisi.

L’Italia è in guerra contro la Libia, ma Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri, solo si preoccupa della moglie di Berlusconi. Stefania non si è nemmeno laureata, ma il padre l’avrebbe per questo licenziata.
“Nessuno ha mai amato il marito come lei”, assicura Stefania Craxi. Poveri mariti?

Cecilia Malmstrom, commissario nordico dell’Unione Europea agli Affari Interni, convoca una conferenza stampa a Bruxelles per dire che la Francia fa bene a bloccare i treni dall’Italia: potrebbero contenere tunisini. Nel mentre che la Francia non solo fa ripartire i treni, ma si prende anche alcuni tunisini. La commissaria non si scusa della papera: non ci sono scuse nel galateo del Nord.
Ma se invece che giovani tunisini doveva bloccare brutti ceffi mafiosi?

Si ripropone per le amministrative la furbata leguleistica dei radicali A Grosseto la vice-prefetto Vincenza Filippi esclude due liste vincenti in due grossi comuni, del centro-destra a Castiglione della Pescaia, della sinistra Gavorrano. Con una differenza: che la sinistra a Gavorrano verrè recuperata, si sa già, dopo la strizzata al morso del beneamato sindaco uscente, che ha il torto di non essere del Pd. Anzi con due differemze: le liste del centro-sinistra a Castiglione presentano vere e proprie illegalità (candidati cancellati, altri aggiunti con la biro), rispetto alle anomalie formali del centro-destra.
Tutto questo si legge nel "Tirreno", giornali di sinistra. Strafottenza?
Qui non si tratta più delle furberie radicali, questo è un raggiro. Purché non troviamo la vice-prefettao candidata - non a queste elezioni, alle politiche. candidata.

Il sindaco di Firenze, il giovane Renzi, rilancia la città tenendo i negozi aperti il giorno di Pasquetta e il Primo Maggio. E perché non anche a Pasqua? I centri commerciali pagherebbero di più. Potrebbero anche innalzare altari e celebravi la santa messa.
Festeggiare al centro commerciale sarà la ricetta risolutiva della nuova sinistra?

Il giovane Renzi, il rottamatore, porta anche Lady Gaga in concerto e un Grande Fratello americano in passerella a piazza Santa Croce. Festeggia così i centocinquant’anni dell’unità: C’erano a Firenze i tanti personaggi illustri sepolti nella basilica, ci sono ora chioschi di bibite e pizzerie al taglio. E nella piazza della basilica lo spaccio libero di ogni tipo di droga.

Roberta De Monticelli, sicura lombarda e forse svizzera, ha lasciato la “Domenica” del “Sole 24 Ore” per filosofare sul “Fatto”. Lei, interprete autorizzata di Jeanne Hersch, persona specchiatissima. E sul “Fatto” svolge la mozione degli affetti a D’Alema, suo compagno d’università, perché autorizzi il processo al senatore del suo partito e della sua Regione, Tedesco. Filosofia?
D’Alema, se anche volesse, non potrebbe votare contro Tedesco, non tocca a lui. Ma, appunto, la mozione degli affetti è in realtà una messa in guardia. Poi si dice che la mafia sta a Sud.

L’onorevole Pina Bongiorno, molto moralista seguace del presidente della Camera, il moralissimo Fini, rassicura il “Corriere della sera” giovedì che la riforma della giustizia non si farà, meno che mai la separazione della carriere. È così che si diventa l’avvocato più ricco di Roma.
L’avvocatessa si annette anche il Pd. Qui forse senza soldi.

Veltroni fa con Pisanu sul “Corriere della sera” un appello a salvare la democrazia. Con Pisanu? È la colpa di Veltroni, o del “Corriere della sera”?

Nell’ultimo libro, “Racconti con figure”, Tabucchi ripubblica una prosa del 1994 in cui dice Giuliano Ferrara, per una lunga pagina, un cul-de-jatte: “Il suo ventre enorme trabordava sugli inguini, che poggiavano su una piccola piattaforma di legno”. Anche i comici di partito, Crozza, Littizzetto, privilegiano i difetti fisici - al secondo posto dopo la coprolalia. Che oggi tra l’altro non si possono più chiamare difetti, non essendoci più handicappati né down.
Da Fazio Luciana Littizzetto irride Maroni perché è “bassino” (non lo dice, lo indica con la mano) – cosa di cui lei notoriamente ha il complesso.

mercoledì 20 aprile 2011

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (87)

Giuseppe Leuzzi

Milano
Paolo Isotta si gode all’Opera di Roma “Il ratto del serraglio”, malgrado la regia, che riprova. Di un regista Vick famigerato, dice, per i tanti flop alla Scala. Ma la materia dev’essere controversa, sul “Sole 24 Ore” Carla Moreni ne fa invece un elogio oltre ogni convenienza, insistito, polemico. E anche questa è Milano: invadere l’Italia Roma con i propri vezzi.
Isotta, che non è milanese, una soddisfazione però se la toglie. In forma di rimprovero agli spettatori che non hanno contestato il regista: “Ma il pubblico delle «prime» del teatro dell’Opera”, che gli viene detto consistere essenzialmente delle consorti dei proprietari di cliniche, “non è diverso da quello delle «prime» fuori abbonamento della Scala: accetta tutto”, ragiona. E si consola: “Almeno esse pagano il biglietto”.

Il vezzo di gravare gli altri dei propri torti e delle debolezze – i lombardi o trionfanti o vittime – è il marchio del romanzo con cui Milano governa l’Italia, quello di Manzoni. Si governa attraverso il linguaggio e il mondo morale, il nazionalpopolare famoso di Gramsci. Manzoni ributta il peggio, nel romanzo, sulla Spagna, anche a costo del ridicolo – del Seicento, che fu per la Spagna il secolo d’oro, fa un tempo vuoto, deridendolo. Mentre ci vuol poco per sapere che tutte le istituzioni e le leggi sotto gli spagnoli erano in realtà lombarde, lombardi i governanti (amministratori, giudici, sbirri), lombardi ovviamente i preti e i vescovi, molto influenti, e che il re di Spagna, che non prendeva nulla dalla Lombardia, vi profondeva rendite e capitali, a fini di rappresentanza, beneficenza, difesa militare.

Il verbalismo, o eccesso di espressività linguistica, con conio di parole nuove e costrutti deformanti, è padano, anzi lombardo: Paolo Giovio, Teofilo Folengo, la Scapigliatura, Dossi, Gadda, Testori. Perché il lombardo, così ordinato, ha bisogno per esprimersi di rompere la forme?

Anche Cicco Simonetta, il cancelliere di Francesco Sforza che salvò la signoria negli anni del suo volubile erede Galeazzo Maria e della reggenza della vedova Bona di Savoia, alla fine fu fatto processare dai signori milanesi. Da giudici notoriamente avversi: “Tutti inimici e di factione contrarii”, li dice Bernardino Corio, Storia di Milano, p. 1428. Ma Cicco era calabrese.
Anche nel caso di Cicco i maggiorenti milanesi ne vollero l’esecuzione per spartirsene le rendite, le attività, e le ville – una era proprio ad Arcore.

Provate a chiedere un’informazione a Milano, molti vi passeranno davanti senza nemmeno guardarvi, altri vi diranno “non so” prima ancora che abbiate finito la domanda. Non è casuale l’avventura, chiamiamola così, del maratoneta kenyano Kanyanjua domenica 27 marzo, che dopo aver partecipato alla Stramilano ha vagato ventiquattro ore per Milano perché nessuno gli diceva come arrivare a piazza Firenze. Nessuno dei tanti interlocutori che l’atleta ha avuto cura di selezionare, evitando le spaventate dal negro: vigili, poliziotti, autisti di tram, tassisti, lettighieri. Lo hanno trovato prima, dopo ventiquattro ore, attraverso Facebook. Qualcuno che lo aveva visto su Facebook, o che “ama l’Africa”, e sa l’inglese, si diletta a conversare con Kanyanjua la mattina di lunedì, e gli regala infine due euro (l’atleta aveva indosso solo la tuta). Con i quali Kanyanjua chiama il fratello in Kenya. Che avvisa la società di atletica austriaca on cui Kanyanjua si allena.
Il milanese non risponde. Magari ora Milano vanterà la generosità del tizio che “ama l’Africa”. Ma chiedere una strada o un indirizzo a Milano è impossibile. Sembrano tutti immigrati, estranei alla città.

La Lombardia è razzista, si sa. A Varese, Como, nella stessa Milano, e anzi tra gli interisti contro Balotelli, italiano nero. Ora di nuovo a Como, contro la cestista Abiola, che è di Parma, ma anch’essa nera. Ma Severgnini e il “Corriere della sera” dicono che non ci sono razzisti, solo “stupidi”.

Pentiti
Nella battaglia del giudice Ingroia contro Berlusconi si schiera anche Brusca. Non con Berlusconi, come ci si aspetterebbe da un essere abietto, ma col giudice. Dopo quindici anni di pentimento, Brusca si è ricordato che aveva conosciuto Berlusconi e aveva fatto affari con lui. Se ne è ricordato al telefono, informa “Repubblica”, la scorsa estate, sapendo di essere intercettato.
È un Brusca politologo, quello che la scorsa estate parla al telefono, e anche massmediologo: “La guerra non è fra Berlusconi e questi della sinistra”, spiega al suo compare, un altro pentito: “La guerra è tra Berlusconi e De Benedetti con Repubblica e tutto il resto”.
Questo riferisce da Palermo “la Repubblica” il 5 aprile. Che fa di Brusca “un fan di Berlusconi”, ma lo illustra con foto lusinghiere, dimagrendolo, ombreggiandolo, mentre è un rospo con gli occhi esorbitanti. E imbolsendo invece le guardie penitenziarie che lo circondano.
Brusca è anche un killer specialmente abietto, l’assassino di Falcone. Uccise tra i tanti il ragazzo Di Matteo, che sciolse personalmente nell’acido. Per punirne il padre, reo di collaborare con la giustizia. Di cui è diventato, come si vede, il confidente apprezzato. Benché abbia commesso vari altri reati nel corso del suo pentimento, e abbia sempre occultato i soldi del malaffare. Il problema del Sud è sempre più lo Stato, lo Stato della giustizia.

Un non pentito, il figlio Ciancimino, ha il trattamento del testimone eccellente, protetto, spesato. Riverito nelle corti, i giudici sono sempre molto buoni con lui, e nei giornali. Uno che palesemente è un testimone falso. Che imbroglia le carte e le fabbrica. E non solo non è processato per falsa testimonianza, ma non è nemmeno “ristretto”. L’arresto è obbligatorio per chi può inquinare le prove, per Ciancimino jr., che mostra di inquinarle, no. Per inquinare l’antimafia?

“Forza Inter” scritto a “Quelli che il calcio” pare che volesse dire: “Ammazza il tale”. Lo assicura un “pentito”. Che naturalmente è creduto. Ma la cosa non è inverosimile: Moratti e la sua squadra hanno qualcosa del killer.

Autobio – 2
Il ritorno

Della storia greca qualcosa comincia a riemergere. Che è stata così lunga e anche recente, se il Barrio, “De antiquitate et situ Calabriae”, nel tardo Cinquecento ci classificava di parlata ancora grecanica, in chiesa e fuori, ma la voglia di moderno aveva cancellato. Dell’altra storia non si sa nulla, ma s’indovina. Tutto fa parte d’altronde di un ritorno, uno studio non è consentito e forse nemmeno gradito, solo le sensazioni, e i ricordi: il paese è una realtà distinta, a cui si ritorna, per periodi più o meno brevi, ma da visitatori, forestieri seppure non estranei. Per i quali il raffronto è soverchiante, non vivendo il giorno per giorno, le realtà in trasformazione, le trasformazioni stesse nel loro farsi.
Non c’è altra realtà che il come siamo in rapporto al com’eravamo. Come per un emigrato in terra lontana, o un carcerato di lungo periodo, che ritorni dopo molti anni, così è per l’intellettuale anche se sempre è tornato e torna spesso: c’è una radicalità nella scelta del distacco, più che nella lunga lontananza dopo un distacco non voluto. L’emigrato per scelta inevitabilmente assume il punto il vista del comparatista – il ritorno si fa in rapporto a una realtà “altra” dove si sono messe radici – e del giudice. Con la possibilità dell’errore, e il sospetto sempre dell’ingenerosità. Benché inevitabile, e talvolta utile.
Il ritorno a casa è ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”. Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”. Un po’ come Aldo Maria Morace, storico della letteratura, presenta due racconti di Alvaro “novecentista” sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”. Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Il racconto bello della plaquette, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dalla raccolta “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Il ritorno-rifiuto delle origini è uno dei problemi biografici acclarati di Corrado Alvaro, lo scrittore che deve la sua fama all’Aspromonte e a San Luca, il suo paese, dove però non è mai tornato dopo i vent’anni, se non rade volte, di notte, per poche ore. Più spesso invece se ne è alimentato, di un ritorno fantastico e mitico all’infanzia e al passato, alla montagna, al mare, agli elementi – colori, odori, sapori, luci, miti, leggende, persone, modi d’essere e di dire. Senza però un ritorno reale, anzi nella mancanza ricercata di contatti: la sintonia è con l’infanzia immaginata, il passato supposto, una natura peraltro sconosciuta, e in definitiva estranea. Compresa la famiglia, con la quale il legame è fattuale – beneducato - e non affettivo. Al funerale del padre Alvaro arrivò a esequie già fatte, e ripartì subito – di un padre che l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato. Alvaro esemplifica la commistione di radicamento e sradicamento. È grande scrittore per il radicamento in San Luca, Polsi, l’Aspromonte, lo Jonio, ovunque nei suoi scritti, perfino nella tragedia “Medea”. Ma questo mondo propone avulso, un reperto senza contesto, e dai significati servili: trascuratezza, asocialità, violenza. Mentre più vivacemente è sradicato, a suo agio a Berlino, Parigi, Mosca, Istanbul, lo scrittore più cosmopolita del Novecento italiano.
Il ritorno a casa può essere fonte di vita. La superintellettuale Lou Salomé così lo ricorderà di sé e del sensitivo Rilke in morte di quest’ultimo, con il quale s’era accompagnata amante, lei di cinquant’anni, lui della metà, in un lungo viaggio di ritorno in Russia, la sua patria, aprendolo all’amore: “Molti anni dopo… mi dicevi talvolta del tuo sforzo per raggiungere, in qualunque cosa o circostanza, la dimensione mitica, mistica, cercata in modo simile ad un tentativo di anestesia, per far scivolare i dolori e le angosce. E pensavi a quei comuni accadimenti come fossero stati dei miracoli mancati, che pure avrebbero potuto essersi prodotti. Così assolutamente certi e tangibili si produssero per noi, per niente mistici, più reali anzi di ogni realtà, tanto che, anche quando volevamo allontanarcene, dovevamo poi sempre farvi ritorno come ad una casa”. La casa dell’amore ma anche la natura comune. Che Rilke, continua Lou, siglò con queste “felici parole”, una volta che sul Volga avevano rischiato d’imbarcarsi su due battelli diversi: “Anche navigando su due navi separate, avremo una medesima via a ricondurci indietro – perché comune è la sorgente”.
Ritrovare una persona per ritrovare un passato, dei personaggi, degli scorci, degli avvenimenti. Perché la tradizione è grande parte di noi stessi. Ed è un’occasione per avere interlocutori esclusivi personaggi illustri.
C’è comunque un “riconoscimento” in ogni ritorno. Personale e circostanziale, delle cose, dell’ambiente, delle persone, che più spesso negli anni sono nuove o sconosciute. Compresa l’estraneità che il paese sente verso chi è emigrato. Anche contro le intenzioni, che magari sono amichevoli: non c’è interscambio fra chi è andato via e chi rimane, se non limitato: sporadico, occasionale, di circostanza.

leuzzi@antiit.eu

Novecento, pianista senza gusto

Si riedita a celebrazione del Centocinquantenario il libro maestro delle scuole di scrittura. Sull’uomo, il pianista, il ragazzo, che nessuno sa chi sia e fa la spola suonando sui transatlantici senza mai mettere piede a terra. Fa di nome Danny Boodmann T.D.Lemon Novecento e ha divertito molto il suo autore, contagiandone anche i lettori. Ma non si vede perché, tanto è insipido.
Novecento passa la vita a bordo come già Ismaele, cui Melville ha dato questo destino nella caccia alla balena: è un esercizio postmoderno?
Alessandro Baricco, Novecento, Feltrinelli\Coop, Edizione speciale per il 150 anniversario dell’unità d’Italia, pp. 62, € 3

martedì 19 aprile 2011

Leso giudice o lesa giustizia? Il diritto a Milano

Il processo milanese alle banche americane che hanno speculato su Parmalat sarebbe andato in prescrizione lo stesso, anche senza la prescrizione breve, e forse sarebbe stato meglio. Non è stata una bella assoluzione, quella delle tre giudici della Seconda sezione penale di Milano, quale che ne sia la motivazione: le banche hanno rifilato i titoli Parmalat ai propri risparmiatori sapendo che erano spazzatura, questo è il fatto. Escono così dal crac tutte le banche – la Procura di Milano di suo aveva esentato le banche italiane, soprattutto Intesa e Banca di Roma (ora Unicredit), che avevano venduto le obbligazioni Parmalat ai correntisti dopo esserne uscite di corsa. Resta la procedura fallimentare a Parma, che ha tempi lunghi, ma i maggiori speculatori sul fallimento, dopo la famiglia Tanzi, si sono a questo punto sfilati dal processo.
Milano ha sfilato le banche dal crack Parmalat. Senza nemmeno giustificazioni. Così come esenta la Saras dalle morti sul lavoro nei suoi stabilimenti sardi. In parallelo con la condanna a Torino senza attenuanti invece, sulla base delle stesse norme, dei dirigenti della Thyssen.
C’è con tutta evidenza qualcosa di marcio nella giustizia a Milano, che pure si pretende a giudice dell’Italia. Dell’autore dei manifesti “Fuori le Br dalle Procure”, Roberto Lassini, si tace che è stato sotto processo per cinque anni, ed era compagno di Cella di Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni suicida perché non fu nemmeno interrogato dal Procuratore De Pasquale, senza nessuna colpa. Un manifesto contro una carcerazione non c’è partita. Tanto più con i “duri e fermi moniti” di Napolitano, rivolti ai manifesti e non alla lesa giustizia, cioè a un reato d’opinione. Che c’è dunque ancora - o è quello nuovissimo di leso giudice?

Quando i processi politici li faceva la destra

Marco Pivato rievoca nel libro “Il miracolo scippato”, edito da Donzelli, le vicende che negli anni Sessanta bloccarono alcuni settori produttivi nei quali l’Italia aveva posizioni avanzate, informatica, biomedicina e nucleare, e bloccarono per dieci anni l’Eni. Ma non dice l’essenziale: che l’Eni, l’Istituto superiore di sanità e il Cnen (nucleare) furono bloccati con processi politici. Istigati, non di nascosto, dagli industriali privati, petrolieri e farmaceutici, dalla Edison, che la nazionalizzazione dell’elettricità aveva arricchito straordinariamente.
I giudici fecero arrestare il fondatore dell’Istituto di sanità, Domenico Marotta, e il general manager del Cnen Felice Ippolito. Quest’ultimo lo condannarono a undici anni, ma con un processo che costrinse il presidente Saragat, tra l’altro il più esplicito nemico di Ippolito (secondo Saragat le centrali nucleari producevano segatura…), a graziarlo. Marotta, arrestato a 78 anni, fu prosciolto a 84. Mattei più di un giudice solerte cercò in vario modo di arrestarlo, ma il presidente dell’Eni gli morì prima.
L’informatica la volle chiusa Cuccia, anch’essa nel biennio infausto 1962-1964. Olivetti e la Sapienza d Roma avevano tutto per entrare primi nel mercato dell’informatica diffusa, o personal computer. L’azienda mettendo a frutto la sua leadership mondiale nelle macchine per ufficio, l’università la sua riuscita miniaturizzazione dei cervelloni. Ma il banchiere disse che quella roba non aveva futuro – e non era pagato dall’Ibm, almeno questo, che sul personal diventerà il gigante del settore per un trentennio.

lunedì 18 aprile 2011

Ue allo sbando e Obama solo, i due fronti dell’Italia

Non c’è solidarietà e nemmeno cooperazione per un comune interesse. Non c’è d’altra parte neppure cattiveria, non che si possa vedere. Merkel e Sarkozy che si lasciano imporre Draghi alla Banca centrale europea, l’uomo della fine dell’euro, e non da Berlusconi, ma da Londra e Washington (basta leggere il “Financial Times”, o anche solo l’ “Economist”, e l “Wall Street Journal”), è tutto dire sull’inconsistenza di questa Europa. E ancora: la Germania si può capire, che ha solo vantaggi dalla crisi, poiché si fa pagare il suo debito “italiano” dagli altri paesi europei, ma la Francia?
Questo viluppo è il modo d’essere, erratico, insulso, dell’Europa e dell’Occidente, in questa fase della storia in cui l’Europa e l’Occidente si ritengono regina e re incontestati del mondo, che invece non sono più. Non c’è altra ratio nelle due questioni di primario interesse dell’Italia, e che vedono l’Italia invece trascurata e in qualche modo punita. Una sono i tunisini, che la Francia rifiuta di accogliere, anche se ne avrebbero diritto, a costo di chiudere le strade e bloccare i treni dall’Italia. L’altra è la strategia e tattica della guerra alla Libia, che Obama gestisce con Sarkozy e Cameron lasciando fuori dalla porta l’Italia che è invece il fronte di prima linea nella guerra e ne subisce i costi maggiori.
Sono due esclusioni gravi in diritto internazionale, ed equivalgono a due aggressioni, ancorché fra paesi vicini e alleati. Si possono dire le due questioni talmente gravi da necessitare riunioni ristrette – più celeri, più segrete? No. La questione dei tunisini è in realtà di pelo caprino: la Francia ne fa una questione di principio e l’Italia pure. Non è grave. E non meriterebbe l’intervento dell’Unione Europea, non nelle forme sprezzanti del commissario all’immigrazione e del suo portavoce: “La franca ha ragione”. Su che cosa? La guerra alla Libia è un’operazione Onu, nella quale hanno diritto di decisione le autorità più remote, il segretario della Naro Rasmussen e il governo del Canada, per non dire dell’introvabile Ban-ki Moon, l segretario dell’Onu.
Sono le due esclusioni un gesto di rivalsa o di diffida nei confronti del governo Berlusconi, come purtroppo è portato a credere il presidente della Repubblica Napolitano? No, il governo italiano, con Berlusconi e senza, ne è solo vittima. Quanto a Berlusconi, Obama e Sarkozy hanno abbondato con lui in attestati di amicizia fino a prima della guerra. Né c’è solo il baciamano, scherzoso o allusivo, di Berlusconi a Gheddafi: c’è anche la tenda di Gheddafi piantata nel giardino dell’Eliseo, la residenza presidenziale francese. O il gentile patronaggio di Carla Bruni delle infermiere rumene, o bulgare, condannate in Libia per vari reati. O la co-presidenza dell’Unione per il Mediterraneo affidata a Mubarak, dal presidente dell’Unione stessa, Sarkozy. O in campo socialista la permanenza di Ben Alì e di Mubarak nell’Internazionale fino a dopo la loro cacciata.
Le due questioni d’altronde potrebbero risolversi a beneficio del governo italiano, e quindi dello stesso Berlusconi. Che dalla questione degli immigrati tunisini, non gravi, può uscire con una patente di equilibrio, a fronte della ottusità francese, tedesca e bruxellese. Mentre la guerra alla Libia è già, come sembra, l’occasione buona per l’Italia di non correre più alla guerra per conto degli Usa, in posti remoti, senza alcun effetto apprezzabile, e senza alcun riconoscimento come si vede, al costo di qualche miliardo che verrà utile nella prossima finanziaria.
L’intrusione europea nella questione dei tunisini è solo la manifestazione dell’insulso modo d’essere dell’Ue negli anni di un inconcludente Sarkozy e dell’euroscettica Merkel. Sparano cannonate sul niente – sui tunisini come sulla Grecia. Con effetti disastrosi, ma questa è l’Europa ultimamente, quello che Parigi e Berlino dicono. Quanto agli Usa, la questione libica è solo uno de tanti aspetti della perdita d’interesse e di presa della presidenza Obama sul mondo, un presidente che da sei mesi non opensa Ad altro che a riuscire a ricandidarsi con successo l’anno prossimo, messo in mora da una sparuta e oltranzista frangia di Repubblicani – il successo dei tea party è solo il riflesso della debolezza di Obama.

Letture - 59

letterautore

Cani e cavalli – La bruttura della guerra Joseph Roth, nel “Reportage sentimentale”, racconto del 1927 (ora nella raccolta “Il secondo amore”), rappresenta nei cavalli moribondi al lato delle strade. Sarà poi tema malapartiano, specie in “Kaputt”. C’è una fonte comune a entrambi?
Il “Reportage” di J. Roth è attorno a un cane abbandonato, un bastardino. Anche in Malaparte il cane è la sua umanità.

Civile – La poesia civile si dice ardua. E lo è, essendo a soggetto e a progetto. Ma deve allora la poesia essere spontanea, casuale? E dove mettere i poeti civili, da Dante a Pound? Ma già Omero…

Comunisti – L’ultima invettiva contro “i comunisti” risale al 1952, al numero di settembre dello “Spettatore Italiano”, nel quale Croce, con la nota “De Sanctis-Gramsci” poi raccolta nel primo volume delle “Terze pagine sparse”, si scagli con inconsulta vivacità “contro la nuova diade”, inventata da “coloro che hanno il privilegio di tali invenzioni, (i) comunisti”.
Poi Croce morì, e quindi non fece in tempo a vedersi aggiunto alla diade con un’altra lineetta.

Heidegger – Armando Torno presenta una polemica conferenza dell’estate del 1933, intitolata “A proposito del 30 gennaio 1933” (Hitler alla cancelleria), contro Erwin Guido Kolbenheyer, come un ripensamento da òparte di Heidegger dell’appena adottato nazismo. Kolbenheyer, un “filosofo popolare” che aveva preceduto Heidegger nello stesso ciclo di conferenza, si era appellato al discorso di Hitler (“finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione”) per proporre una concezione gradualistica dell’iniziativa politica. Heidegger ne gabella la modesta proposta per evoluzionismo, e la boccia, severo, sarcastico. Ma nel nome della rivoluzione, cioè del nazismo tutto e subito. Se c’erano ancora dubbi questo testo, pubblicato tardi, nel 2001, a cura di Hartmut Tietjen e ora tradotto da Carlo Götz per Christian Marinotti Edizioni, spiega invece con nettezza il nazismo di Heidegger. Al punto 1 della reprimenda, dove Heidegger non tanto critica il darwinismo quanto “la concezione liberale dell’uomo e della società umana, che dominava nel positivismo inglese nel s secolo XIX”, e “determina genituralmente” l’evoluzionismo. E soprattutto nell’orrendo, molto heideggeriano, punto 6: “Sulla base della cecità di questo biologismo rispetto alla geniturale ed esistenziale concretezza di fondo dell’uomo o di un popolo, Kolbenheuer è incapce di vedere genuinamente e di comprendere l’odierna concretezza politico-geniturale tedesca” – la storia si è fermata.
Dov’è l’equivoco? Che si semplifica il nazismo, negli aspetti repellenti. Mentre aveva una filosofia, e anche un attraente. E lo si isola dalla “rivoluzione conservatrice”, osì pervasiva negli anni di Weimar, di cui è peraltro il fatto più significativo, storco (militare, resistenziale, politico) e ideologico. E a sua volta s’innesta nell’“unicità” tedesca, di cui fu portatore sano, ma non dei minori, Thomas Mann, quello del “fratello Hitler”, che non finì automaticamente con la sconfitta nel novembre del 1918. Tra la Grecia classica e pre-classica, l’“arianesimo”, e il sempre più remoto e freddo iperboreismo, magari in aspetto del solare Apollo. Col rifiuto di molte cose, ma con più costanza del liberalismo, dell’Occidente inteso come costituzionalismo liberale.

Meraviglioso – Per il meraviglioso mezza Europa ha sempre fatto riferimento all’Italia. L’Inghilterra da Chaucer a Shakespeare, e alla Radcliffe, a Walter Scott, a Stevenson, i tedeschi da E.T.A.Hoffmann a Th. Mann, i russi, i francesi, i polacchi. Soggetti e personaggi, trame oscure o incantatrici, santoni, fantasmi, con un tocco d’italiano sono sembrati a lungo più verosimili. È per questo che Casanova, Cagliostro, e i loro precursori ed epigoni furono creduti e temuti. Ma il genere non ha arricchito la letteratura italiana, esaurito l’effetto Ariosto, Tasso (di cui il traduttore inglese diceva: “poeta efficace, la cui mente\ credeva fermamente\ nei magici prodigi che cantava”).
La cultura italiana è stata la più classica e la più avventurosa. Eruditi e classici sono stati nobili e chierici nei tre secoli di Umanesimo, avventurosi sono stati nobili, poeti, novellieri e popolani nello stesso periodo. Ancora al tempo de viaggio di Montaigne, 1580, il popolino analfabeta conosceva a memoria l’Ariosto, le chanson de geste e le novelle. Poi questo filone ha taciuto, mentre il primo s’ingolfava nella retorica. È che l’avventuroso è passato senza residui nella vita quotidiana degli italiani – nel subconscio.

È un genere incontinente. In tutte le sue forme, avventura, esoterismo, science-fiction, fiaba, cavalleria, più che racconto c’è verbosità, cioè dismisura. Tutti gli altri generi possono essere a volte leggibili: giallo, romantico, nero, humour riescono talvolta e trovare la misura, il meraviglioso no. Non è liberazione ma sfogo: l’iterazione, la prolissità, il compiacimento esprimono afasie interne.
Che il meraviglioso non sia una camicia di forza? O un pantano in forma illusoria di giardino? Per chi ha problemi di equilibrio.

Savinio – Lo pseudonimo era già di Albert Savine, traduttore e scrittore di prose leggere. È il nome di Cyrano de Bergerac: Saviniano Cyrano de Bergerac – forse più ispiratore.

Stendhal– La passione in realtà è francese. Lo è in letteratura, dalle “Lettere portoghesi” in poi (prima cristallizzazione capolavoro “La principessa di Clèves”). Forse già da Racine se non si camuffasse – come poi farà Mozart – da funambolo rococò. Lo è nella vita - nella conversazione scacciapensieri, nel giornalismo femminile o la presse du coeur, nei film della Nouvelle Vague e dopo: l’amore vissuto intensamente, per un’ora, un giorno, una vita (M.Duras), furiosamente, ripensato, rivissuto, sofferto, trinciato, tritato. In Italia Stendhal può averlo trasfigurato, non trovato. L’italiano-a è irridente e calcolatore. Furbo. Senza scopo, e per questo non greve, ma così è: è giocoliere. Non c’è passione, non c’è nemmeno amore per questo nella letteratura italiana, come nella vita. Nella vita, e nella letteratura, c’è la gelosia, spesso assassina, ma è una violenza, che nasce dal possesso – il possesso vero è una passione, ma dell’avarizia.
Stendhal ha vissuto la passione in Italia perché in Italia ha vissuto, bene o male, la sua vita, da uomo cioè individualizzato e rispettato e non da giovinastro che si sfoga con le donne facili, e per il suo snobismo, che nella grande provincia Italia gli consentiva di proiettarsi più su delle sue modeste funzioni. Rispettato come straniero e (ex) conquistatore. A suo agio anche perché a cavaliere fra due lingue e due mondi, quindi perfettamente padrone.
La passione parla francese: convinta, un po’ guascona, e eccessiva. L’Italiano è lingua invece circospetta, precisa, posata. Quando vuole eccedere, trasgredire, deve farsi giocosa – di una credibilità (impegno) cioè diminuita.

Tocqueville – Dove germina la profondità (durata) del suo pensiero in rebus, in superficie? Nella scrittura. Lineare, con qualche complicazione da fretta comune ai reporter. Fondamentali sono naturalmente la preparazione culturale, l’approccio liberale, l’assenza di preconcetti (la curiosità). Ma la chiave è proprio la scrittura, che materializza il paradosso saviniano del superficiale\profondo – in fisica\matematica la semplicità dell’enunciato e dell’elaborato, che dà smalto all’analisi.

letterautore@antiit.eu

domenica 17 aprile 2011

Il centocinquantenario fa un mese, di festa

Sottovalutato dalle istituzioni culturali: concertistiche, teatrali, letterarie), dal’università: nessun convegno, nessun filone o programma di studio, nemmeno l’invenzione di una cattedra, che è la specialità accademica dell’epoca. Dal festival di Sanremo, che era il suo terreno - dal quale anzi è stata quest’anno cancellata perfino Napoli (ha rimediato all’ultimo Benigni). Dalla Rai, che ha poi improvvisato ua trasmissione con Baudo e Vespa, finita quasi subito. Dai giornali, se non per dire i briganti galantuomini e Garibaldi un furfante – ci hanno tentato. L’opera di Roma è stata sola a ricordarsene col “Nabucco”, per la sensibilità del maestro Muti. Né ci sono stati interventi a rimedio. Mentre è stata invece larga e spontanea la risposta popolare alla ricorrenza, l’invenzione del tricolore, la partecipazione agli eventi (pochi, da poco), ovunque e con costanza, a Nord e a Sud, per la festa un mese fa e dopo.
C’è evidente una scollatura tra l’opinion pubblica istituzionale, dei giornali, delle tv, degli intellettuali, e la sensibilità popolare. Troppo politicizzata, cioè di parte, la prima, per avvertire o capire i fatto sociali. Una insensibilità che la sinistra condivide su questo tema – il patriottismo – con la destra. Non assimilabile quindi al pregiudizio neo sovietico che impera nell’intellighenzia. Sa più di stupidità – la superbia non sempre è epica, anzi più spesso è stupida.

Per una storia della letteratura russa fuoriuscita

Una guida a Nabokov intelligente (stimolante) partendo da “Lolita”. E un omaggio anche a se stessa, alla sua propria intelligenza di editrice, storica, critica e autrice della Russia fuoriuscita. Dalla Berberova a tutta la Russia fuoriuscita, di cui lei vide la fine, è un filone di studi vergine e perciò sorprendente. Una storia della letteratura vecchio stile della Russia fuoriuscita s’immagina allora sorprendente oltre che doverosa, ricollocando Cvetaeva, Nabokov, Némirovsky, la stessa Berberova e i tanti altri che non sono riusciti a bucare la cortina di silenzio. O una storia del plurilinguismo: Nabokov, che scrisse in tre lingue, Némirovsky e gli altri emigrati, Beckett, lo stesso Joyce, oltre a Conrad naturalmente, Wilde (scrisse in francese), Strindberg (in tedesco). Il secolo sopravviverà nelle frange? Nel cosmopolitismo, più o meno forzato?
In Nabokov Berberova individua una caso di scuola dei “quattro elementi”della letteratura del Novecento: “L’intuizione di un mondo frammentato, l’apertura delle “chiuse” dell’inconscio, l’ininterrotto flusso della coscienza, e la nuova poetica derivata dal simbolismo”. E la comicità irrefrenabile: “Nabokov appartiene a una generazione per la quale il confine tra Aristofane e Sofocle è esiguo”. Che Berberova trova però costante nella letteratura russa: in Gogol’ naturalmente, lettura diuturna di Nabokov, e in Dostoevskij, Belyi, nello steso serioso Turguenev – e Cechov no, è tedesco? In Nabokov scoperta, e sempre serpeggiante, nel gusto letterario del pastiche, la citazione, l’effrazione, l’innesto.
In “Lolita” Berberova vede molte cose che la lettura obbligata cela. Per esempio “una delle satire più acute sulla vita moderna, l’attività del detective, basata meccanicamente sull’uomo medio che come un automa entra in funzione quando gli inseriscono le monete, e che invece risulta assolutamente inutilizzabile se gli si inseriscono dei bottoni”. È un libro, ammoniva Berberova, che “non si può capire tutto fin dalla prima lettura”. E su di esso ricostruisce tre procedimenti tipicamente letterari della narrazione in Nabokov: le “epigrafi disciolte”, le “immagini tutelari” o ritornanti, “figure-uri”, e l’artificio “rimico-ritmico”, da poeta impenitente. Lolita ritrova in due passi di Dostoevskij, nei “Demoni” e in “Delitto e castigo”, in quanto attrazione pedofila, e nella sposa bambina di E.A. Poe, Annabel Lee (un caso anche di “epigrafe disciolta”). Ma il tema di “Lolita” non è la pedofilia, se non per questi innesti letterari, un aneddoto di partenza. Il tema è il costante, ambiguo ma irrefrenabile, sdoppiamento, o la letteratura nella letteratura: “Nabokov lavorò a lungo a una propria incarnazione: era come se tentasse da anni di scrivere un romanzo il cui «eroe» fosse un poeta o uno scrittore”. Che è anche la chiave principale della lettura dello stesso Nabokov, del reiterato doppio di tante sue narrazioni.
Nabokov è scomodo. È pur sempre l’autore che vuole dare “una bella martellata a Balzac, a Gor’kij, a Mann”. Agli scrittori realisti, sociologizzanti, ideologi. Ultima, irrituale, notazione è la tendenza della letteratura ad aristocratizzare, mentre tutto si democratizza. Doverosa dovendosi parlare di Nabokov, anche se presto perenta – il saggio di Berberova è del 1965: “Curiosamente, mentre sotto i nostri occhi la vita nella sua struttura societaria, quotidiana e personale si «democraticizza» decisamente, la letteratura contemporanea sembra non seguire questa strada e piuttosto si sviluppa in base al principio che chi è in grado di capire capisce, e a chi invece non è in grado non serve nemmeno spiegare”. Ma erano altri tempi.
Nina Berberova, Nabokov e la sua Lolita

Falso il falso Boccaccio di Camilleri

Il pastiche non è nelle corde di Camilleri, “raccontatore” più che letterato. La storia della storia sì, il ritrovamento del manoscritto, il falso vero. L’autentico falso no, richiede un calco della scrittura (come è di altri testi di questa collana ideata da Giovanni Casertano per Guida) più che un aneddoto – di quelli “boccacceschi”, poi, è pieno il giornale. La curiosa nota che correda la novella lo dice anche: lo pseudo Boccaccio qui “non ha la straordinaria fluidità narrativa delle altre novelle”.
Andrea Camilleri, La novella di Antonello da Palermo, Guida, pp. 57, € 8