letterautore
Dante – Come Dio, può essere femmina? Anche D’Annunzio lo dice “ermafrodito” – in una delle “Rime inedite e stravaganti”.
Non c’è nulla in comune tra lima e limone, tinca e tincone, pontefice e ponte, e tra pira, piramide e piramidone, solo paretimologie. Lo stesso si può dire fra Pietra e petra delle “Rime petrose”, Gianfranco Contini si svena a vuoto, lui che pure ha fatto la letteratura del dopoguerra - i dialetti posticci di Gadda e Pasolini inclusi. La donna poteva chiamarsi Eutimia e fare la serva di casa - sempre che di donna si tratti, questo “pietrame” è duro.
Non è però da escludere che le “Rime petrose” siano di Dante. Anacleto Verrecchia documenta l’italianista Schopenhauer perplesso di fronte a “le orribili contorsioni di Dante” e “la laconicità studiata, anzi affettata, di Dante” (in “Schopenhauer e la Vispa Teresa”, 54).
Flaubert – La novità è che non crede – mostra di non credere – alla storia che sta raccontando. Che è in prevalenza la storia di un amore. Nel quale sarebbe personalmente invischiato, l’autobiografismo è prevalente, della prima storia all’ultima, dalle “Memorie d’un pazzo” all’ “Educazione sentimentale” – e, chissà (la cosa non è stata indagata), nella “Bovary”. E invece non è una storia d’amore. Né una storia di anime, d’introspezione psicologica. Flaubert gestisce i personaggi senza cura della verosimiglianza, né con l’amore né con alcuna altra passione, egoismo o insensibilità. Frédéric corteggia Madame Dambreuse senza “sapere” che è innamorata di Martinon e ne è l’amante, cosa che tutti sanno nel suo salotto e in società, o che è una “padrona” per eccellenza, di casa e di affari, sentimentali e pratici. La maschera di Frédéric è l’Étourdi, ma anche qui senza innocenza.
Procedimento tipico è il tirar via le situazioni, imbrogliandole e sbrogliandole in poche righe, anche due e tre volte nello stesso capoverso, dopo averle trascinate per diecine di pagine. È lo sfondo che interessa a Flaubert, e non ad affresco, con la vivezza delle forme, ma con la pennellata distesa, più e più approssimata. Magris registra incidentalmente (nella prefazione a “Kim” di Kipling, ora in “Alfabeti”, p. 258) “il gelo flaubertiano consapevole dell’assenza e dell’eclissi dell’umano”. Che però contrasta con la vita affaccendata, coinvolto, protettivo, di Flaubert intorno a parenti e amici. Thibaudet dice il Frédéric-Flaubert dell’“Educazione sentimentale”, accentuandone l’autobiografismo, “un uomo di tutte le debolezze”. Ma nemmeno questo aspetto è prevalente – della famosa amata dell’adolescenza e di una vita, qui Mme Arnoux, fa anche un ritratto al vetriolo, poco prima del lacrimevole congedo. Ciò a cui Flaubert è interessato è un modo di essere generazionale e sociale, una sociologia.
La riuscita è “doppia” in “Madame Bovary”, che è anche un romanzo popolare: trascinare i lettori, i quali, si sa, leggono perché non sopportano la realtà, la loro vita vissuta, con la vita vissuta, mediocremente.
Le donne amate nei romanzi non hanno un nome, si chiamano madame, col cognome del marito. Bovary invece ha un nome, Emma, e Rosanette nell’“Educazione sentimentale”: sono familiari le donne di piccola virtù.
Italiano – Julien Green, in un’intervista a “Le Magazine Littéraire” di giugno 1989, n. 266: “Leggo enormemente i poeti, nella loro lingua quando mi è familiare, come l’inglese, il tedesco o l’italiano. E ho notato che le più belle traduzioni sono in italiano (Shakespaeare, Rimbaud, Gongora sono dei capolavori anche in quella lingua”.
Kipling – Claudio Magris, che non ha mai smesso di leggere Kipling, fa grande caso nella sua introduzione a “Kim” (ora in “Alfabeti”) di una poesia, “Inno alla pena fisica”, Hymn of breaking strain, che Eliot non giudicò meritevole della sua antologia, “Kipling’s Verse”. Ci trova “la terribile capacità di persuasione, l’impossibilità di vivere che caratterizza la modernità” oppressa dalla fatica incalzante, dal tempo senza tempo. Ma la modernità non c’entra – il dolore fisco o materiale può essere dell’età della pietra. E Kipling, con tutta l’infanzia infelice, è o si vuole un cavaliere se non un costruttore (“Benché distrutti,\ perché distrutti,\alziamoci a ricostruire”, così chiude l’inno).
Ma è vero che ha la hilaritas dell’uomo triste. Ha perduto il figlio in guerra, con la colpa di avercelo mandato volontario. Ha perduto le figlie, straniere in patria. Straniero è lui stesso, con tutto il patriottismo: “L’Inghilterra è un meraviglioso paese, il più bel paese straniero nel quale sia stato”.
Non sufficientemente spiegato in quanto anglo-indiano, in niente diverso dagli odierni anglo-indiani dell’India. In “Kim”, nelle “Storie della giungla”, in tanti racconti. Egli stesso lo spiega in “Miss Youghal’s Seas”: “Curiosa nella vita indigena. Quando si è acquisito il gusto di questo speciale piacere, resterà per sempre. È la cosa più affascinante al mondo – l’amore non eccettuato”.
Dice: “L’autore può inventarsi la favola ma non la morale”. E in questo senso è vero: il racconto coloniale è democratico, illuminista cioè, impegnato, e anzi missionario.
Il pastore Wesley nel Settecento, il predicatore itinerante che fondò il metodismo, aveva destato gli scrupoli delle anime religiose nei riguardi delle “razze indigene”, soprattutto se convertite. Con risultati sorprendenti, dice André Maurois nella “Storia d’Inghilterra” (p.497 dell’edizione Oscar): “
Indifferenza e scrupoli spiegano la sorprendente generosità con la quale a due riprese, nel 1802 e nel 1815, L’Inghilterra restituì alla Francia e all’Olanda colonie che il dominio dei mari le aveva permesso di conquistare. Alla Francia restituì le Antille francesi, l’isola Bourbon (Réunion), il diritto di pesca in Terranova, e diversi altri possedimenti. All’Olanda restituì Giava, Curaçao e Suriname”. Il nonno materno di Kipling era un pastore wesleyano.
Ozio – Friedrich Schlegel, oltre che augurarsi la morte dell’amata per meglio compiangerla, si diletta in “Lucinde” di un trattato dell’ozio, che egli intende essere la vera “gaya scienza” dei trovatori e l’arte della poesia, “l’arte divina della pigrizia”. Mentale?
Romanzo – È, a 150 anni, ancora “Madame Bovary”, o “la vita stessa apparsa” che ci vedeva Sainte-Beuve. Ci sono narrative di altro tipo (Kafka, Joyce, la lista è lunga) ma non altri romanzi. Non tra gli inglesi, anglo-indiani compresi, non tra i tedeschi, non tra i francesi – Proust ha fatto un’altra cosa, dopo aver fallito il romanzo flaubertiano. Non tra gli americani, Melville escluso – come Kafka, Joyce, Proust. Non, a ben vedere, tra i grandi russi, malgrado le formidabili divagazioni di Dostoevskij. Il romanzo è sempre di costumi, e l’ultimo aggiornamento è “Madame Bovary”.
Traduzione – È pericolosa. Il Concilio di Trento la bandì con pene severe, per tutti i testi ritenuti (elencati) sacri, anche se limitata a poche parole.
Dante pure era contrario nel “Convivio”: “E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia”.
letterautore@antiit.eu
venerdì 3 giugno 2011
Le viscere maleodoranti della democrazia Usa
L’allora colonnello North documenta l’operazione Iran-Contra, la fornitura Usa segreta di armi all’Iran degli ayatollah venticinque anni faper finanziare i gruppi antisandinisti (“contra”) in Nicaragua. Una storia molto americana: un libro profondamente – mostruosamente – antiamericano, perché espone, da amerikano in tutti i sensi, entusiasta, buono, familista (ora North è commentatore alla tv Fox di Murdoch contro i “diversi”: il colonnello aveva quarant’anni quando “comandava” il Medio Oriente), religioso, puritano, coraggioso, fortunato, avventuriero della libertà, la miseria del sistema politica, giudiziario e dell’informazione negli Usa. Come chi mettesse in mostra l’intestino, pensando di fare cosa onesta – non intenzionale, nemmeno da parte degli editori furbi? Allora sarebbe anche una vera tragedia. Tra macchine schiacciasassi che possono ridurre in poltiglia qualsiasi santuario, contro ogni ragione, robot impazziti.
Getta una luce sinistra anche sul modo Usa di fare la politica estera, sempre avventato, e più dopo la fine della guerra fredda e della paura nucleare. North non poteva agire da solo, nel mezzo di un’organizzazione che più burocratica non si può. È possibile dirlo ma solo se: 1) si vuole affermare che il Congresso decide tutto, ma allora contro ogni evidenza, 2) si vuole, a destra e a sinistra, salvare il reaganismo perché ci ha portati al mercato, a cui tutto da allora è improntato, anche la politica estera e la guerra, 3) si vuole moraleggiare.
Nei capp. 15 e 16 è una testimonianza feroce di come la democrazia americana sia un mostro cartilaginoso senza alcuna sensibilità, che cresce per escrescenza, e senza responsabilità. È un magma violento, un turbine, un uragano. Un circo tanto più pauroso in quanto non convince nessuno, nemmeno i saltimbanchi che lo animano – lo fanno per passatempo e per assolvere se stessi.
Oliver North, Under fire, an american history
Getta una luce sinistra anche sul modo Usa di fare la politica estera, sempre avventato, e più dopo la fine della guerra fredda e della paura nucleare. North non poteva agire da solo, nel mezzo di un’organizzazione che più burocratica non si può. È possibile dirlo ma solo se: 1) si vuole affermare che il Congresso decide tutto, ma allora contro ogni evidenza, 2) si vuole, a destra e a sinistra, salvare il reaganismo perché ci ha portati al mercato, a cui tutto da allora è improntato, anche la politica estera e la guerra, 3) si vuole moraleggiare.
Nei capp. 15 e 16 è una testimonianza feroce di come la democrazia americana sia un mostro cartilaginoso senza alcuna sensibilità, che cresce per escrescenza, e senza responsabilità. È un magma violento, un turbine, un uragano. Un circo tanto più pauroso in quanto non convince nessuno, nemmeno i saltimbanchi che lo animano – lo fanno per passatempo e per assolvere se stessi.
Oliver North, Under fire, an american history
giovedì 2 giugno 2011
Problemi di base - 62
spock
Dopo la carne - bovina, bianca, suina a turno - l’insalata: la peste è ciclica? Dopo la lattuga i pomodori?
Se Dio sta ad Amburgo, perché fa venire il colera dalla Spagna?
Perché la fine non finisce mai?
Perché arrivati al traguardo bisogna tornare indietro? E il giorno dopo ripartire?
Se il barometro indica pioggia, e l’igrometro vento, il temporale sarà secco?
I nuovi re di Napoli sono dunque i paglietta: ma senza una Pippa?
Come profumerà la Napoli di De Magistris, ora che l’Italia torna a profumare di Napoli?
Quanti morti siriani fanno un libico?
spock@antiit.eu
Dopo la carne - bovina, bianca, suina a turno - l’insalata: la peste è ciclica? Dopo la lattuga i pomodori?
Se Dio sta ad Amburgo, perché fa venire il colera dalla Spagna?
Perché la fine non finisce mai?
Perché arrivati al traguardo bisogna tornare indietro? E il giorno dopo ripartire?
Se il barometro indica pioggia, e l’igrometro vento, il temporale sarà secco?
I nuovi re di Napoli sono dunque i paglietta: ma senza una Pippa?
Come profumerà la Napoli di De Magistris, ora che l’Italia torna a profumare di Napoli?
Quanti morti siriani fanno un libico?
spock@antiit.eu
L’antipolitica al potere di De Magistris
La pancia di Napoli è un signore che non ha altro passato che quello di magistrato a Catanzaro in Calabria. Dove ha fatto in sette anni tre processi, tutti fasulli. Denominandoli pomposamente: Why Not, Poseidon, Toghe Lucane. Sapendo che erano fasulli: lo ha fatto per divertimento, garantito dall’impunità. Per colpire la destra, la sinistra e anche il centro. In Basilicata, in Calabria, e a Roma – qui aveva messo Prodi a capo di una loggia segreta a San Marino. Ma non per equanimità, per esercitare la giustizia politica. Nel tempo libero, libero dalla fannullaggine, ultimamente dava del corrotto al presidente della Repubblica Napolitano, in quanto esponente, diceva il nobile magistrato, “figlio di magistrato, nipote di magistrato”, della corrente migliorista del Pci, che “notoriamente”, ipse dixit, era corrotta.
De Magistris ha rovinato la vita e la politica di alcune diecine di persone, ma così si è costruito un personaggio. Grazie al quale Napoli gli ha tributato un plebiscito, nessuno aveva avuto una percentuale di voti così alta, eccetto Bassolino, che superò il 70 per cento. Il napoletano si dice indolente, ma quando c’è da votare vota. Anche al secondo turno, quando pochi votano.
Napoli aspetta sempre un messia, e la storia può finire lì, il resto d’Italia non è Napoli e può rifiatare. Anche se deve sorbirsi questa insopportabile giustizia napoletana. Ma De Magistris è diventato un personaggio grazie alla Rai e ai grandi giornali d’opinione. Che ne hanno montato i processi con le interviste e lo scandalismo, salvo tacere quando i casi si sono sgonfiati. La Rai, i grandi giornali e De Magistris sono dunque i campioni dell’antipolitica. Per conto di quale loggia?
De Magistris ha rovinato la vita e la politica di alcune diecine di persone, ma così si è costruito un personaggio. Grazie al quale Napoli gli ha tributato un plebiscito, nessuno aveva avuto una percentuale di voti così alta, eccetto Bassolino, che superò il 70 per cento. Il napoletano si dice indolente, ma quando c’è da votare vota. Anche al secondo turno, quando pochi votano.
Napoli aspetta sempre un messia, e la storia può finire lì, il resto d’Italia non è Napoli e può rifiatare. Anche se deve sorbirsi questa insopportabile giustizia napoletana. Ma De Magistris è diventato un personaggio grazie alla Rai e ai grandi giornali d’opinione. Che ne hanno montato i processi con le interviste e lo scandalismo, salvo tacere quando i casi si sono sgonfiati. La Rai, i grandi giornali e De Magistris sono dunque i campioni dell’antipolitica. Per conto di quale loggia?
mercoledì 1 giugno 2011
Pirandello realista
Una vita sacrificata alla follia della moglie. E senza colpa, per un certo senso dell’onore. Prolungato nella relazione molto pudica con M.Abba.
Il realismo dei primi racconti, quelli di ambiente siciliano, resta allora la cifra di Pirandello? Poiché anche il pirandellismo successivo, quello che lo qualifica, aveva riferimenti reali: le situazioni aperte dalla follia, a un uomo che metodicamente manteneva ogni giorno la routine Magistero-casa, sono una terra eternamente incognita, reinventabile quindi a piacere, ma non sono meno realistiche di “Liolà”.
Pirandello, Almanacco Bompiani
Secondi pensieri - (70)
zeulig
Giustizia – È poter spendere. È un credito, acquisito con la legge.
Chi è fuori dalla legge, il mafioso, il serial killer, lo stragista, non vi avrebbe diritto – è nell’incertezza che gli viene applicata.
In quanto fondamento dell’eguaglianza è la democrazia – l’unica coerente.
Hegel - Se Dio fosse nel processo di negazione e oltrepassamento, allora sarebbe un serial killer, una cosa è o non è. Si vede a occhio che l’idealismo è, come l’io protestante, l’umiliazione dell’individuo, per quella sua rivolta contro l’oggetto che è invece un soggetto, una moltitudine di soggetti, mai riducibili a oggetti, anche perché lavorano insieme alacri per approfondirsi e molti-plicarsi.
Marx lo riscatta nell’utopia, ma in un’utopia liberale. Che libera a sua volta dell’incoerenza di base, legandolo ai lumi. Il progresso va coordinato con l’esaltazione della storia di Hegel, il regno della libertà è nella società senza odio, classi, sfruttamento.
Marx – Di suo era ed è realista, della borghesia sapendo che non può non rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, e quindi i rapporti di produzione. Superbo alfiere della ragione, tanto più in tempi di decadenza, benché non abbia letto Tocqueville, e neppure tutto Hegel, là dove anticipano Heidegger, “solo un Dio ci può salvare”.
Non ha colpa del Diamat, che è il Marx di Labriola, scientista, positivista, né col sistema moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico, una forma come un’altra di dittatura. Rosa Luxemburg trovava il primo libro, “tanto apprezzato”, del “Capitale” “finemente lavorato, rococò, à la Hegel”. Marx avrebbe sottoscritto la critica. Non aveva orecchio e in traduzione viene meglio: con “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, la versione italiana invece di quella sorda originale, si sarebbe potuto dire che anche Marx cominciò con un endecasillabo, lo scattante pentametro giambico di Dante. Sarà stato un brillante filosofo a ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico. Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era una assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza, criticano il capitalismo, il mercato dei soldi.
Non solo nel fordismo alla fine, e in Owen all’inizio, ma nella Cadbury, alla Rowntree e in ogni altra azienda quacchera, in molte società cattoliche e in quelle socialiste del mutuo soccorso l’Ottocento ricorreva al lavoro per migliorare l’igiene e l’istruzione, o il rispetto di sé. Finché il lavoro non fu disseccato nel plusvalore. Le critiche presto erano emerse con Eduard Bernstein, e poi con Rosa Luxemburg . Semplici, Marx le avrebbe sottoscritte: il moderno proletario è sempre povero ma non pauperizzato, la crescita della ricchezza non viene con la diminuzione del numero dei capitalisti ma con la loro moltiplicazione – si potrebbe fare un partito di massa dei ricchi, non fossero tanto ricchi da farsi passare per poveri. E lo slogan “i proletari non hanno padri” non è vero, purtroppo. Ma questo era contro l’interesse del Partito a farsi Stato. Senza contare che lo stesso successo delle sue idee ne inficia il presupposto, l’economicismo.
La verità sul fondatore del comunismo è un’altra: che è stato il socialismo a indurre e generalizzare l’idea del possesso. Flaubert l’ha visto nel ’48, la rivoluzione della libertà, guardando le barricate da lontano, e l’ha dettagliato vent’anni dopo nella sua “Educazione sentimentale” che invece è politica. A un certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti e si segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “ la Proprietà montò nei rispetti al livello della Religione e si confuse con dio. Gli attacchi che le si portavano sembrarono sacrilegio, quasi antropofagia.” Ma è vero pure il contrario: se l’identità è definita dal possesso non si può più negare che il socialismo è una forma completa di liberalismo, non limitato cioè alla borghesia. Non solo come formula politica, poiché al socialismo è essenziale la libertà, l’uguaglianza è la realizzazione della libertà. Ma proprio dal punto di vista economico, dei mezzi di produzione, il capitalismo producendo più ricchezza per il più gran numero, più opportunità quindi per il proletariato, e più tempo libero per tutti. Anche per scrivere o ricamare, il lavoro intendendosi occupazione onorata e dovere civico, e non sfruttamento.
Se un rimprovero gli va fatto è di non aver letto Belle van Zuylen quando rimbecca Diderot, che la religione riduceva a sovrastruttura delle classi dominanti. Mentre le classi dominanti, si sa, più intelligenti in questo di Marx, di solito non trascurano la religione, che è l’esercizio più sublime dell’immaginazione. “Un Dio s’incontra nel reale”, dice bene Lacan.
Storia – È un serpentone pieno di nodi, ognuno dei quali è un altro serpente. O è fatta di lampi, razzi sparati nel cielo, frecce scoccate in ogni direzione. Al modo di Prometeo, di un dibattersi contro catene invisibili quanto solide.
La storia delle cose è zero, e il contesto è contestabile. L’umanità è un affollato battaglione in surplace, testa eretta, tendini tesi, che non si stacca da terra. Lancia messaggi, organizza tiri, apre squarci, ma sempre fermo dove e com’era, spingendo, minacciando, brontolando.
La storia – il progresso - è aerea, l’umanità è terrena, di materia greve. Ma non si può dire inerte. Dei re e imperatori, che sono stati in gran numero, quando uno è intelligente trova un posto nella storia. Per il che pare che la storia sia fatta da principi, re e imperatori, e tutti intelligenti. I quali invece in più gran numero e per il maggior tempo vivono di caccia, malevolenze, tirannie.
I pochi se ne appropriano perché la scrivono, fa la storia chi la scrive. La storia è opera letteraria, per questo trae in inganno.
Non è utile. La storia – il tempo - non è maestra di verità, è una fiera, un teatro. Solo serve, se serve, a far sognare. Non ha neppure spessore, spazio. È un infinitesimo della fantasmagoria dell’universo.
Tempo – È statico, il tempo mentale e biologico, della specie umana. A meno di non ricorrere ai miti, alle genesi, che poi si ripetono uguali: Dante, Origene, Platone, Pitagora, la Bibbia, il Libro dei Morti, il Libro di Veda, e l’analogo che di certo ci sarà in Cina, o Giappone.
zeulig@antiit.eu
Giustizia – È poter spendere. È un credito, acquisito con la legge.
Chi è fuori dalla legge, il mafioso, il serial killer, lo stragista, non vi avrebbe diritto – è nell’incertezza che gli viene applicata.
In quanto fondamento dell’eguaglianza è la democrazia – l’unica coerente.
Hegel - Se Dio fosse nel processo di negazione e oltrepassamento, allora sarebbe un serial killer, una cosa è o non è. Si vede a occhio che l’idealismo è, come l’io protestante, l’umiliazione dell’individuo, per quella sua rivolta contro l’oggetto che è invece un soggetto, una moltitudine di soggetti, mai riducibili a oggetti, anche perché lavorano insieme alacri per approfondirsi e molti-plicarsi.
Marx lo riscatta nell’utopia, ma in un’utopia liberale. Che libera a sua volta dell’incoerenza di base, legandolo ai lumi. Il progresso va coordinato con l’esaltazione della storia di Hegel, il regno della libertà è nella società senza odio, classi, sfruttamento.
Marx – Di suo era ed è realista, della borghesia sapendo che non può non rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, e quindi i rapporti di produzione. Superbo alfiere della ragione, tanto più in tempi di decadenza, benché non abbia letto Tocqueville, e neppure tutto Hegel, là dove anticipano Heidegger, “solo un Dio ci può salvare”.
Non ha colpa del Diamat, che è il Marx di Labriola, scientista, positivista, né col sistema moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico, una forma come un’altra di dittatura. Rosa Luxemburg trovava il primo libro, “tanto apprezzato”, del “Capitale” “finemente lavorato, rococò, à la Hegel”. Marx avrebbe sottoscritto la critica. Non aveva orecchio e in traduzione viene meglio: con “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, la versione italiana invece di quella sorda originale, si sarebbe potuto dire che anche Marx cominciò con un endecasillabo, lo scattante pentametro giambico di Dante. Sarà stato un brillante filosofo a ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico. Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era una assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza, criticano il capitalismo, il mercato dei soldi.
Non solo nel fordismo alla fine, e in Owen all’inizio, ma nella Cadbury, alla Rowntree e in ogni altra azienda quacchera, in molte società cattoliche e in quelle socialiste del mutuo soccorso l’Ottocento ricorreva al lavoro per migliorare l’igiene e l’istruzione, o il rispetto di sé. Finché il lavoro non fu disseccato nel plusvalore. Le critiche presto erano emerse con Eduard Bernstein, e poi con Rosa Luxemburg . Semplici, Marx le avrebbe sottoscritte: il moderno proletario è sempre povero ma non pauperizzato, la crescita della ricchezza non viene con la diminuzione del numero dei capitalisti ma con la loro moltiplicazione – si potrebbe fare un partito di massa dei ricchi, non fossero tanto ricchi da farsi passare per poveri. E lo slogan “i proletari non hanno padri” non è vero, purtroppo. Ma questo era contro l’interesse del Partito a farsi Stato. Senza contare che lo stesso successo delle sue idee ne inficia il presupposto, l’economicismo.
La verità sul fondatore del comunismo è un’altra: che è stato il socialismo a indurre e generalizzare l’idea del possesso. Flaubert l’ha visto nel ’48, la rivoluzione della libertà, guardando le barricate da lontano, e l’ha dettagliato vent’anni dopo nella sua “Educazione sentimentale” che invece è politica. A un certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti e si segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “ la Proprietà montò nei rispetti al livello della Religione e si confuse con dio. Gli attacchi che le si portavano sembrarono sacrilegio, quasi antropofagia.” Ma è vero pure il contrario: se l’identità è definita dal possesso non si può più negare che il socialismo è una forma completa di liberalismo, non limitato cioè alla borghesia. Non solo come formula politica, poiché al socialismo è essenziale la libertà, l’uguaglianza è la realizzazione della libertà. Ma proprio dal punto di vista economico, dei mezzi di produzione, il capitalismo producendo più ricchezza per il più gran numero, più opportunità quindi per il proletariato, e più tempo libero per tutti. Anche per scrivere o ricamare, il lavoro intendendosi occupazione onorata e dovere civico, e non sfruttamento.
Se un rimprovero gli va fatto è di non aver letto Belle van Zuylen quando rimbecca Diderot, che la religione riduceva a sovrastruttura delle classi dominanti. Mentre le classi dominanti, si sa, più intelligenti in questo di Marx, di solito non trascurano la religione, che è l’esercizio più sublime dell’immaginazione. “Un Dio s’incontra nel reale”, dice bene Lacan.
Storia – È un serpentone pieno di nodi, ognuno dei quali è un altro serpente. O è fatta di lampi, razzi sparati nel cielo, frecce scoccate in ogni direzione. Al modo di Prometeo, di un dibattersi contro catene invisibili quanto solide.
La storia delle cose è zero, e il contesto è contestabile. L’umanità è un affollato battaglione in surplace, testa eretta, tendini tesi, che non si stacca da terra. Lancia messaggi, organizza tiri, apre squarci, ma sempre fermo dove e com’era, spingendo, minacciando, brontolando.
La storia – il progresso - è aerea, l’umanità è terrena, di materia greve. Ma non si può dire inerte. Dei re e imperatori, che sono stati in gran numero, quando uno è intelligente trova un posto nella storia. Per il che pare che la storia sia fatta da principi, re e imperatori, e tutti intelligenti. I quali invece in più gran numero e per il maggior tempo vivono di caccia, malevolenze, tirannie.
I pochi se ne appropriano perché la scrivono, fa la storia chi la scrive. La storia è opera letteraria, per questo trae in inganno.
Non è utile. La storia – il tempo - non è maestra di verità, è una fiera, un teatro. Solo serve, se serve, a far sognare. Non ha neppure spessore, spazio. È un infinitesimo della fantasmagoria dell’universo.
Tempo – È statico, il tempo mentale e biologico, della specie umana. A meno di non ricorrere ai miti, alle genesi, che poi si ripetono uguali: Dante, Origene, Platone, Pitagora, la Bibbia, il Libro dei Morti, il Libro di Veda, e l’analogo che di certo ci sarà in Cina, o Giappone.
zeulig@antiit.eu
martedì 31 maggio 2011
Il colera ad Amburgo, Spagna
Il colera ad Amburgo è subito addebitato ai cetrioli di Almeria - che può venire di buono dalla Spagna? Senza nemmeno guardare se magari non sono stati lavati con acqua sporca dall’importatore, o trattati con sostanze infettive. Poi si tralasciano i cetrioli, per evitare querele spagnole, potenzialmente costose. Ma senza il bisogno di scusarsi: per uno di Amburgo già i bavaresi sono sospetti, figurarsi gli spagnoli – l’etica protestante è della superiorità: io e il mio Dio. Tanto più che, per accertare la verità, non c’è urgenza, anche se le persona muoiono, tanti di quelli che sono passati per Amburgo – magari solo per andare a puttane a Sankt Pauli: si saprà tra una quindicina di giorni, quando i morti saranno dimenticati.
Il colera ad Amburgo si chiama Escherichia Coli. Non si può dire ma è così: il grande “Dizionario medico” della Fondazione Umberto Veronesi lo registrava in tempi non sospetti, una diecina d’anni fa. L’Escherichia Coli diventa cattivo in quattro o cinque maniere, ma in tutte si limita a forme di dissenteria, non gravi, eccetto una: “Alcuni ceppi di E.coli secernono una tossina che agisce in modo simile a quella prodotta dal vibrione del colera Vibrio cholerae”.
Il colera ad Amburgo si chiama Escherichia Coli. Non si può dire ma è così: il grande “Dizionario medico” della Fondazione Umberto Veronesi lo registrava in tempi non sospetti, una diecina d’anni fa. L’Escherichia Coli diventa cattivo in quattro o cinque maniere, ma in tutte si limita a forme di dissenteria, non gravi, eccetto una: “Alcuni ceppi di E.coli secernono una tossina che agisce in modo simile a quella prodotta dal vibrione del colera Vibrio cholerae”.
La Germania rilancia il gas e la Russia
Per il gas. E per la Russia. La rinuncia tedesca, del governo di Angela Merkel d’accordo con le opposizioni socialdemocratica e verde, al nucleare entro dieci anni raddoppierà il consumo di gas naturale e le importazioni dalla Russia. Il conto è stato subito fatto all’Eni, che sul gas e sulla Russia ha puntato da tempo, e alle tedesche Ruhrgas e Basf-Wintershall. Per alimentare 20 Gigawatt di potenza in dieci anni non c’è ricorso possibile alle fonti cosiddette rinnovabili – in realtà a forte consumo di materiali e di risorse naturali (terra, acqua) – ma solo al gas naturale. Che è pronto ad arrivare, dalla Russia. A fine anno sarà pronto il gasdotto Nord Stream, dalla Russia alla Germania via Baltico, che un anno dopo avrà una capacità di trasporto di 55 miliardi di mc. di gas. Più di tutto il gas che la Germania già importa. Di proprietà della russa Gazprom, e di Ruhrgas, Basf-Wintershall, del gigante francese Gdf-Suez e dell’olandese Gasunie.
L’abbandono del nucleare in Germania non è di oggi. Il governo socialista-verde del cancelliere Schröder l‘aveva annunciato nel 2000, e dopo qualche mese tradotto in legge: prevedeva l’uscita dal nucleare entro il 2020. La cancelliera Merkel, costituendo il suo nuovo governo con i liberali, ha sospeso il 25 gennaio dell’anno scorso quella decisione. Ora l’ha confermata, limitandosi a far slittare la chiusura di diciotto mesi, quanto è durata la sospensione, al 2022.
Nessun dubbio che la cancellazione del nucleare significa un ricorso accresciuto al gas: si tratta di alimentare il 27 per cento dell’energia elettrica consumata, e non c’è altra fonte di energia. Le cosiddette rinnovabili non potrebbero sopperire nemmeno tra mezzo secolo ad alimentare tale potenza. Oggi ci vorrebbero mille ettari di pannelli fotovoltaici per 1.000 MW (un ventesimo del totale), ammesso che la Cina possa e voglia produrre gli inquinanti pannelli in massa a basso costo. E comunque l’energia da fonti rinnovabili ha un costo tale da mettere fuori mercato l’industria manifatturiera tedesca, a meno d’incentivi pubblici. Che però in quelle dimensioni e a quel fine, non più di ricerca e innovazione, sarebbero illegali, ai termini della concorrenza europea.
Nessun dubbio che il gas sarà russo. Anche se la Germania accusa già una sorta di dipendenza dalla Russia, importandone per il 42 per cento del fabbisogno (l’Italia è al 28 per cento). Anche la Germania si porrà nella situazione dei paesi dell’Est europeo, che dipendono dalla Russia per oltre il 50 per cento del gas consumato. A questo ha lavorato lo stesso cancelliere socialista Schröder una volta fuori dal governo, in qualità di consulente di Gazprom, il gigante russo del gas. Il progetto alternativo alla Russia, denominato Nabucco, è infatti sempre in ritardo. Dopo dieci anni di preparativi. E benché sponsorizzato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti in funzione dichiaratamente antirussa, per ridurre la dipendenza dal gas russo. Il progetto è ufficialmente pronto da due anni, approvato dai governi e dai parlamenti dei paesi interessati, Turchia, Romania, Repubblica Ceca, Austria, e finanziato. Per l’importazione di 25-30 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Che però non si trovano: in principio il gas dovrebbe venire dall’Iraq, l’Azerbaigian, il Turkmenistan e, dopo la “primavera”, dall’Egitto.
L’abbandono del nucleare in Germania non è di oggi. Il governo socialista-verde del cancelliere Schröder l‘aveva annunciato nel 2000, e dopo qualche mese tradotto in legge: prevedeva l’uscita dal nucleare entro il 2020. La cancelliera Merkel, costituendo il suo nuovo governo con i liberali, ha sospeso il 25 gennaio dell’anno scorso quella decisione. Ora l’ha confermata, limitandosi a far slittare la chiusura di diciotto mesi, quanto è durata la sospensione, al 2022.
Nessun dubbio che la cancellazione del nucleare significa un ricorso accresciuto al gas: si tratta di alimentare il 27 per cento dell’energia elettrica consumata, e non c’è altra fonte di energia. Le cosiddette rinnovabili non potrebbero sopperire nemmeno tra mezzo secolo ad alimentare tale potenza. Oggi ci vorrebbero mille ettari di pannelli fotovoltaici per 1.000 MW (un ventesimo del totale), ammesso che la Cina possa e voglia produrre gli inquinanti pannelli in massa a basso costo. E comunque l’energia da fonti rinnovabili ha un costo tale da mettere fuori mercato l’industria manifatturiera tedesca, a meno d’incentivi pubblici. Che però in quelle dimensioni e a quel fine, non più di ricerca e innovazione, sarebbero illegali, ai termini della concorrenza europea.
Nessun dubbio che il gas sarà russo. Anche se la Germania accusa già una sorta di dipendenza dalla Russia, importandone per il 42 per cento del fabbisogno (l’Italia è al 28 per cento). Anche la Germania si porrà nella situazione dei paesi dell’Est europeo, che dipendono dalla Russia per oltre il 50 per cento del gas consumato. A questo ha lavorato lo stesso cancelliere socialista Schröder una volta fuori dal governo, in qualità di consulente di Gazprom, il gigante russo del gas. Il progetto alternativo alla Russia, denominato Nabucco, è infatti sempre in ritardo. Dopo dieci anni di preparativi. E benché sponsorizzato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti in funzione dichiaratamente antirussa, per ridurre la dipendenza dal gas russo. Il progetto è ufficialmente pronto da due anni, approvato dai governi e dai parlamenti dei paesi interessati, Turchia, Romania, Repubblica Ceca, Austria, e finanziato. Per l’importazione di 25-30 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Che però non si trovano: in principio il gas dovrebbe venire dall’Iraq, l’Azerbaigian, il Turkmenistan e, dopo la “primavera”, dall’Egitto.
In Bulgaria via libera al South Stream
La Bulgaria ha dato via libera alla finalizzazione degli accordi per il South Stream, la nuova condotta di gas dalla Russia che attraverserà il Mar Nero e i Balcani. La decisione in contemporanea del governo tedesco di chiudere le centrali nucleari ha facilitato la nuova intesa, che dovrebbe essere quella definitiva.
Il primo accordo risale a quattro anni fa, al 2007, tra Eni e Gazprom. Parte di un più largo accordo che consentirà a Gazprom di vedere parte del suo gas direttamente sul mercato italiano, e all’Eni di fare ricerca di idrocarburi in Siberia. L’accordo specifico per il gas è stato firmato dai due gruppi due anni fa, alla presenza di Berlusconi e di Putin: prevede ‘esportazione di trenta miliardi l’anno di metri cubi di gas. Il 6 agosto 2009 Putin e il premier turco Erdoğan firmavano l’accordo per l’attraversamento del Mar Nero, alla presenza di Berlusconi. Intanto, Gazprom ha siglato accordi per il passaggio della condotta attraverso Bulgaria, Ungheria, Grecia e Serbia.
Il progetto si completerà con gli accordi per il passaggio attraverso la Slovenia e l’Austria. La quale tentenna perché attratta dal progetto Nabucco, non ancora abbandonato.
Analogamente a quanto fece con l’ex cancelliere tedesco Schröder per il Nord Stream, il general manager di Gazprom, Alexei Miller, ha proposto a Romano Prodi di fare da consulente per il South Stream. In più d’una occasione, pare, a detta di prodi. Che però ha rifiutato.
Il primo accordo risale a quattro anni fa, al 2007, tra Eni e Gazprom. Parte di un più largo accordo che consentirà a Gazprom di vedere parte del suo gas direttamente sul mercato italiano, e all’Eni di fare ricerca di idrocarburi in Siberia. L’accordo specifico per il gas è stato firmato dai due gruppi due anni fa, alla presenza di Berlusconi e di Putin: prevede ‘esportazione di trenta miliardi l’anno di metri cubi di gas. Il 6 agosto 2009 Putin e il premier turco Erdoğan firmavano l’accordo per l’attraversamento del Mar Nero, alla presenza di Berlusconi. Intanto, Gazprom ha siglato accordi per il passaggio della condotta attraverso Bulgaria, Ungheria, Grecia e Serbia.
Il progetto si completerà con gli accordi per il passaggio attraverso la Slovenia e l’Austria. La quale tentenna perché attratta dal progetto Nabucco, non ancora abbandonato.
Analogamente a quanto fece con l’ex cancelliere tedesco Schröder per il Nord Stream, il general manager di Gazprom, Alexei Miller, ha proposto a Romano Prodi di fare da consulente per il South Stream. In più d’una occasione, pare, a detta di prodi. Che però ha rifiutato.
Sesso sicuro killer
L’isolamento di Berlusconi al G 8 a Parigi, il primo dopo la sua incolpazione per sfruttamento della prostituzione, non ha avuto altro motivo che questo processo. L’isolamento è stato generale e irriflesso, per una sorta di automatismo, non per coalizioni d’interessi o congiure di sorta. E ha certamente influito anche sulla sconfitta di Berlusconi alle amministrative, seppure non l’ha determinata: le accuse sessuali non lasciano scampo. Sono anzi una condanna prima ancora che si formalizzino o si provino.
La corruzione non è niente al confronto. Il ministro francese dell’Economia, Christine Lagarde, andrà alla direzione generale del Fondo Monetario Internazionale benché la Corte dei conti francese rivoglia da lei alcune centinaia di migliaia di euro appropriati indebitamente. Al Fmi da cui il direttore generale Strauss-Khan è stato cacciato, con un arresto da film e una traduzione al processo da romanzo di Zola, con l’accusa di “tentato” stupro – opera peraltro di un avvocato a percentuale. Gli altri trenta processi a carico di Berlusconi, tutti più o meno di natura corruttiva, non gli avevano impedito di partecipare rispettato alle assise internazionali, e di ospitarne anzi alcune. A Parigi invece sembrava un infetto. Mentre un altro suo ministro il presidente francese Sarkozy, che impone Lagarde al Fmi, ha voluto subito dimesso appena due ex impiegate gli hanno dato del molestatore.
In passato circolavano fra i giornalisti parlamentari registrazioni, foto e perfino video di relazioni irregolari di uomini politici, e perfino di amplessi, che si giudicavano non meritevoli di pubblicazione. La stessa prima testimone della Repubblica, la contessa Ariosto, la Procura di Milano non ritenne di utilizzare efficacemente sugli aspetti sessuali delle sue vicende. Ora invece con Ruby, puntando sul letto, ha praticamente vinto.
La corruzione non è niente al confronto. Il ministro francese dell’Economia, Christine Lagarde, andrà alla direzione generale del Fondo Monetario Internazionale benché la Corte dei conti francese rivoglia da lei alcune centinaia di migliaia di euro appropriati indebitamente. Al Fmi da cui il direttore generale Strauss-Khan è stato cacciato, con un arresto da film e una traduzione al processo da romanzo di Zola, con l’accusa di “tentato” stupro – opera peraltro di un avvocato a percentuale. Gli altri trenta processi a carico di Berlusconi, tutti più o meno di natura corruttiva, non gli avevano impedito di partecipare rispettato alle assise internazionali, e di ospitarne anzi alcune. A Parigi invece sembrava un infetto. Mentre un altro suo ministro il presidente francese Sarkozy, che impone Lagarde al Fmi, ha voluto subito dimesso appena due ex impiegate gli hanno dato del molestatore.
In passato circolavano fra i giornalisti parlamentari registrazioni, foto e perfino video di relazioni irregolari di uomini politici, e perfino di amplessi, che si giudicavano non meritevoli di pubblicazione. La stessa prima testimone della Repubblica, la contessa Ariosto, la Procura di Milano non ritenne di utilizzare efficacemente sugli aspetti sessuali delle sue vicende. Ora invece con Ruby, puntando sul letto, ha praticamente vinto.
Il plebiscito si localizza
Tutti candidati in proprio hanno sconfitto Berlusconi e la Lega, a Milano, Napoli (è pur sempre una sconfitta, il centro-destra aveva già “vinto”), Novara, Trieste, Cagliari. È la nota comune dei ballottaggi alle amministrative. In aggiunta alle situazioni locali. In particolare il rigetto della Lega: in Piemonte a un anno dalla sua vittoria alle regionali con Cota, a Novara, la città di Cota, dopo Torino, e a Trieste la sua mancata presa (come già a Bologna) – Trieste che era peraltro eroica unica testa di ponte del centrodestra nel Friuli-Venezia Giulia. Lo stesso fenomeno si manifesta nel Lazio, anche se qui è perdente.
I vincenti sono tutti candidati personali. Che si sono imposti alla propria coalizione (Pisapia), e al proprio partito (De Magistris). Analoghi fenomeni si sono avuti nelle città minori. E lo stesso è successo nel Lazio, anche se qui il potentato locale, la presidente della Regione Polverini, è stata sconfitta. Il principio della elezione diretta, ormai previsto per tutte le cariche esecutive, eccetto il governo centrale, conduce inevitabilmente a una personalizzazione della contesa politica. Il fatto è ampiamente noto dagli Stati Uniti, dove l’investitura popolare diretta è da sempre il cardine delle leggi elettorali: le candidature sono aperte, i partiti si limitano a sostenere il vincente, non pretendono d’imporre il candidato.
I vincenti sono tutti candidati personali. Che si sono imposti alla propria coalizione (Pisapia), e al proprio partito (De Magistris). Analoghi fenomeni si sono avuti nelle città minori. E lo stesso è successo nel Lazio, anche se qui il potentato locale, la presidente della Regione Polverini, è stata sconfitta. Il principio della elezione diretta, ormai previsto per tutte le cariche esecutive, eccetto il governo centrale, conduce inevitabilmente a una personalizzazione della contesa politica. Il fatto è ampiamente noto dagli Stati Uniti, dove l’investitura popolare diretta è da sempre il cardine delle leggi elettorali: le candidature sono aperte, i partiti si limitano a sostenere il vincente, non pretendono d’imporre il candidato.
Pdl indebolito, la Lega sarà più dura
Si discute nel centrodestra se la sconfitta sia più del Pdl o più della Lega. Ma sapendo bene che il Pdl esce sconfitto a Napoli, nel Lazio e in Sardegna. È del Nord che si discute: il Pdl rimprovera alla Lega il mancato sostegno alla Moratti al primo turno, la Lega rimprovera al Pdl la sconfitta a Novara e Trieste, nonché i magri risultati di Bologna e Torino.
In sintesi: un Pdl indebolito contesta alla Lega alcune diserzioni. E viceversa, ma con la Lega non in vena di mea culpa. Non senza motivo: la Lega è il partito che più ha aumentato i voti al Nord, di 160 mila unità (rispetto ai 31 mila in più registrati dal Pd). E li ha aumentati in tutti i posti dove si è votato: a Milano (più 35 mila), Torino (18 mila), Varese e Novara (mille), i dodici comuni lombardi sopra i 15 mila abitanti (14 mila) e le province di Vercelli, Pavia, Mantova e Treviso (92 mila). Il Pdl invece ha perso ovunque, in totale 230 mila voti. A Milano del resto Berlusconi appare oggi come Craxi vent’anni fa: la città cerca, smarrita, un altro punto di riferimento (gli ha dimezzato le preferenze rispetto al 2006, mentre ha aumentato di un 10 per cento le preferenze per gli altri candidati in lista).
L’effetto prevedibile è un indurimento della Lega dentro il governo. Il primo obiettivo, sul quale però la porta è aperta in Parlamento, è l’allentamento dei vincoli di bilancio a favore del sistema produttivo. Soprattutto con una riduzione del carico fiscale e degli oneri sociali sulla produzione. Il secondo sarà una nuova legge elettorale, che torni al proporzionale, con le soglie di sbarramento. Su questo l’accordo col Pdl sarà più difficile, a meno che la Lega non trovi una sponda nello stesso partito Democratico, l’altro grande partito anch’esso finora schierato sul maggioritario.
In sintesi: un Pdl indebolito contesta alla Lega alcune diserzioni. E viceversa, ma con la Lega non in vena di mea culpa. Non senza motivo: la Lega è il partito che più ha aumentato i voti al Nord, di 160 mila unità (rispetto ai 31 mila in più registrati dal Pd). E li ha aumentati in tutti i posti dove si è votato: a Milano (più 35 mila), Torino (18 mila), Varese e Novara (mille), i dodici comuni lombardi sopra i 15 mila abitanti (14 mila) e le province di Vercelli, Pavia, Mantova e Treviso (92 mila). Il Pdl invece ha perso ovunque, in totale 230 mila voti. A Milano del resto Berlusconi appare oggi come Craxi vent’anni fa: la città cerca, smarrita, un altro punto di riferimento (gli ha dimezzato le preferenze rispetto al 2006, mentre ha aumentato di un 10 per cento le preferenze per gli altri candidati in lista).
L’effetto prevedibile è un indurimento della Lega dentro il governo. Il primo obiettivo, sul quale però la porta è aperta in Parlamento, è l’allentamento dei vincoli di bilancio a favore del sistema produttivo. Soprattutto con una riduzione del carico fiscale e degli oneri sociali sulla produzione. Il secondo sarà una nuova legge elettorale, che torni al proporzionale, con le soglie di sbarramento. Su questo l’accordo col Pdl sarà più difficile, a meno che la Lega non trovi una sponda nello stesso partito Democratico, l’altro grande partito anch’esso finora schierato sul maggioritario.
lunedì 30 maggio 2011
Il terrore al “Corriere della sera”, con Spadolini
È la cronaca di un’avventura personale dell’allora professore giovane Spadolini, in un giornale che lo rifiuta, con una proprietà assente ma petulante, in una città che (al solito) mente, per primo con se stessa. E di un’epoca, quella della contestazione. Un saggio che è un trattato. Di storia del giornalismo. Di storia politica: di Milano e del Sessantotto (movimento studentesco, contestazione, terrorismo) a Milano. Di metodologia: dell’individuazione e dell’uso delle fonti. Qui nuove e tutte interessanti – e non arcane: la carte Spadolini alla Fondazione Spadolini Nuova Antologia di Firenze, le carte della Fondazione Corriere della sera, le carte del ministero dell’Interno. Uno dei pochi casi in cui le tantissime note sono di lettura utile. Una ricerca anche beneaugurante: è il primo tassello di una storia del “Corriere della sera” coordinata da Ernesto Galli della Loggia con la Fondazione del giornale.
È anche una miniera. La prima intervista di un politico socialista (Pietro Nenni) può uscire sul “Corriere della sera” a novembre 1969, dopo una diecina d’anni di centro-sinistra, politico e governativo, e a venti mesi dall’arrivo alla direzione di Spadolini. Carlo Cassola, socialista, aveva per questo rifiutato per anni di collaborare al giornale. Ma già Giulia Maria Crespi, la sola dei cugini Crespi che avesse qualche credito nel giornale, per la buona memoria lasciata dal marito, il conte Marco Paravicini, morto in un incidente d’auto nel 1957, contestava al suo “fidanzato” Spadolini il moderatismo, nel nome dell’estremismo. I vecchi comunisti della Commissione Interna sabotano la produzione, con go slow e scioperi a scacchiera, e lo rivendicano in volantini – la cosa si è sempre detta, ma qui ci sono i volantini. Il comitato di redazione (il sindacato interno dei giornalisti) di Massimo Riva invece non redige verbali – il cdr del Pci.
La corrispondenza di Giulia Maria Crespi è la parte più saporita della tanta documentazione, anche perché riflette bene l’epoca. Persona “culturalmente fragile ma volitiva” appare senza dubbi la Crespi alla storica dalle copiose scritture a Spadolini: “Le lettere che la Crespi scrisse a Spadolini fra il 196 e il 1971 testimoniano, al di là di ogni dubbio”, interferenze “pesanti, nella forma di un controllo minuzioso, pedante e persino petulante esercitato su ogni aspetto del quotidiano”. Col sostegno, in forma di “salotto” borghese, di Camilla Cederna e Piero Ottone. Anche questo si sapeva, specie a opera di Montanelli, ma qui ci sono le carte.
Il carteggio di Spadolini con Giovanni Sartori, il secondo punto d’interesse, è una finestra aperta su un’altra epoca, e forse su un altro mondo – i due erano entrambi fiorentini, e professori al “Cesare Alfieri” di Firenze, l’istituto di Scienze Politiche. Erano anche “figli di mamma” importante a Firenze, e il “posto” di direttore del “Corriere della sera” sarà “trovato” a Spadolini da Sartori, che aveva dimestichezza con Giulia Maria Crespi, col marito defunto. Spadolini era stato candidato alla direzione del “Corriere della sera” già nel 1961, ma la proprietà l’aveva scartato perché era inviso ai notabili del giornale, in quanto troppo di sinistra.
C’è anche un esempio di come si fa giornalismo. Negativo. Nel 1968 il “Corriere della sera”, per difendersi dal progetto della “Stampa” di diventare un giornale nazionale, non più piemontese, attacca pretestuosamente la Fiat. E la rappresentazione di come l’informazione sia difficile da fare, in libertà, con intelligenza. Per tutto il periodo sotto esame, e più alla fine. Il giornale tutto si mette in stato d’agitazione al licenziamento di Spadolini, l’8 marzo 1972. Ma è solo un’occasione, per il sindacato dei giornalisti, di ottenere da Giulia Maria Crespi una sorta di cogestione, seppure senza responsabilità, nella nomina del direttore e nelle assunzioni. La secessione dei “montanelliani”, i venticinque che poi fonderanno il “Giornale, sarà in realtà degli “spadolinani”. Perché già era in atto, Spadolini ne aveva scritto in numerosi editoriali, il compromesso storico, sotto forma, si diceva allora, di “repubblica conciliare” – vi indulgeva anche Ugo La Malfa (che al licenziamento al “Corriere della sera” aprirà a Spadolini una carriera politica, ma non riuscirà a soggiogarlo all’inciucio).
Dell’Interno sono sorprendentemente utili i vari rapporti Mazza, inviati dal prefetto di Milano Libero Mazza nei quattro-cinque anni dell’indagine. Della violenza che Milano porta a maturazione e al contagio di tutta Italia. Rapporti che sembrano inverosimili, tanto tutto quello che scrivevano è risultato vero, e che prevedevano si è avverato. Il “Corriere” fu bersaglio di tre manifestazioni devastanti negli anni di Spadolini, due del movimento studentesco (la seconda quando già Spadolini era stato licenziato), una del sindacato.
Claudia Mantovani, Il “Corriere della sera” nella bufera. La direzione di Giovanni Spadolini (1968-1972), pp. 11-106, in “Ventunesimo Secolo”, a. X. Febbraio 2011, pp. 216, € 16
È anche una miniera. La prima intervista di un politico socialista (Pietro Nenni) può uscire sul “Corriere della sera” a novembre 1969, dopo una diecina d’anni di centro-sinistra, politico e governativo, e a venti mesi dall’arrivo alla direzione di Spadolini. Carlo Cassola, socialista, aveva per questo rifiutato per anni di collaborare al giornale. Ma già Giulia Maria Crespi, la sola dei cugini Crespi che avesse qualche credito nel giornale, per la buona memoria lasciata dal marito, il conte Marco Paravicini, morto in un incidente d’auto nel 1957, contestava al suo “fidanzato” Spadolini il moderatismo, nel nome dell’estremismo. I vecchi comunisti della Commissione Interna sabotano la produzione, con go slow e scioperi a scacchiera, e lo rivendicano in volantini – la cosa si è sempre detta, ma qui ci sono i volantini. Il comitato di redazione (il sindacato interno dei giornalisti) di Massimo Riva invece non redige verbali – il cdr del Pci.
La corrispondenza di Giulia Maria Crespi è la parte più saporita della tanta documentazione, anche perché riflette bene l’epoca. Persona “culturalmente fragile ma volitiva” appare senza dubbi la Crespi alla storica dalle copiose scritture a Spadolini: “Le lettere che la Crespi scrisse a Spadolini fra il 196 e il 1971 testimoniano, al di là di ogni dubbio”, interferenze “pesanti, nella forma di un controllo minuzioso, pedante e persino petulante esercitato su ogni aspetto del quotidiano”. Col sostegno, in forma di “salotto” borghese, di Camilla Cederna e Piero Ottone. Anche questo si sapeva, specie a opera di Montanelli, ma qui ci sono le carte.
Il carteggio di Spadolini con Giovanni Sartori, il secondo punto d’interesse, è una finestra aperta su un’altra epoca, e forse su un altro mondo – i due erano entrambi fiorentini, e professori al “Cesare Alfieri” di Firenze, l’istituto di Scienze Politiche. Erano anche “figli di mamma” importante a Firenze, e il “posto” di direttore del “Corriere della sera” sarà “trovato” a Spadolini da Sartori, che aveva dimestichezza con Giulia Maria Crespi, col marito defunto. Spadolini era stato candidato alla direzione del “Corriere della sera” già nel 1961, ma la proprietà l’aveva scartato perché era inviso ai notabili del giornale, in quanto troppo di sinistra.
C’è anche un esempio di come si fa giornalismo. Negativo. Nel 1968 il “Corriere della sera”, per difendersi dal progetto della “Stampa” di diventare un giornale nazionale, non più piemontese, attacca pretestuosamente la Fiat. E la rappresentazione di come l’informazione sia difficile da fare, in libertà, con intelligenza. Per tutto il periodo sotto esame, e più alla fine. Il giornale tutto si mette in stato d’agitazione al licenziamento di Spadolini, l’8 marzo 1972. Ma è solo un’occasione, per il sindacato dei giornalisti, di ottenere da Giulia Maria Crespi una sorta di cogestione, seppure senza responsabilità, nella nomina del direttore e nelle assunzioni. La secessione dei “montanelliani”, i venticinque che poi fonderanno il “Giornale, sarà in realtà degli “spadolinani”. Perché già era in atto, Spadolini ne aveva scritto in numerosi editoriali, il compromesso storico, sotto forma, si diceva allora, di “repubblica conciliare” – vi indulgeva anche Ugo La Malfa (che al licenziamento al “Corriere della sera” aprirà a Spadolini una carriera politica, ma non riuscirà a soggiogarlo all’inciucio).
Dell’Interno sono sorprendentemente utili i vari rapporti Mazza, inviati dal prefetto di Milano Libero Mazza nei quattro-cinque anni dell’indagine. Della violenza che Milano porta a maturazione e al contagio di tutta Italia. Rapporti che sembrano inverosimili, tanto tutto quello che scrivevano è risultato vero, e che prevedevano si è avverato. Il “Corriere” fu bersaglio di tre manifestazioni devastanti negli anni di Spadolini, due del movimento studentesco (la seconda quando già Spadolini era stato licenziato), una del sindacato.
Claudia Mantovani, Il “Corriere della sera” nella bufera. La direzione di Giovanni Spadolini (1968-1972), pp. 11-106, in “Ventunesimo Secolo”, a. X. Febbraio 2011, pp. 216, € 16
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (91)
Giuseppe Leuzzi
La vedova Schifani, una donna che ha sofferto molto in questi vent’anni dall’assassinio del marito con Giovanni Falcone, non si dà pace di essersi fidata di Massimo Ciancimino – di essere stata indotta a fidarsi. Avendolo incontrato con la bella moglie e il bel figlietto a Fiumicino, racconta a Felice Cavallaro sul “Corriere della sera”, lo ha cercato e si è lasciata dire che combattono la stessa battaglia per la giustizia. Ora che Ciancimino è stato carcerato non si dà pace che giudici e media l’abbiano tratta in inganno.
Questo è il Sud, la fiducia cieca nelle istituzioni e nei media. Si dice del Sud che è antisociale, mentre invece la sua maggiore debolezza è la socialità eccessiva, l’abdicazione ai poteri. È l’altra faccia dell’anarchismo.
Calabria
È una miniera per la ricerca storica, poiché è inesplorata.
Il cappello calabrese, di feltro nero a tesa larga e a cono alto è stato dei carbonari, prima di essere dei briganti. Tappa intermedia il capo della regina Sofia, l’ultima di Napoli - che nell’estrema resistenza ai Savoia tentò d’incoraggiare i fedeli borbonici e il marito incerto con un abbigliamento maschile e popolano, stivali alti, corpetto stretto, cappellone.
I carbonari si manifestano in Italia a Napoli attorno al 1810. Sono un gruppo di funzionari e ufficiali francesi, che si rifà agli ideali giacobini, e cioè repubblicani, degli Charbonnier, o Società dei buoni cugini, la cui esistenza è documentata in Francia a metà dl Settecento, quale strumento operativo dei Filadelfi, la setta di Babeuf. Animata da agitatori francesi, contro Murat e Napoleone, e finanziata da logge britanniche, è probabile che questa prima carboneria italiana agisse dietro i massisti, la ribellione popolare degli anni 1807-9 in Calabria contro l’occupazione francese.
Maria Sofia di Wittelsbach sarà personaggio di richiamo per la migliore letteratura europea, D’Annunzio, Proust, Daudet. Figlia di Giuseppe Massimiliano, duca di Baviera, chiamata in casa “Spatz”, passerotto, sorella minore della futura imperatrice d’Austria Elisabetta, “Sissi”, fu sposata a diciotto anni a Francesco II di Napoli, ventitreenne. Nel 1859, otto mesi prima della capitolazione di Gaeta e la fine della dinastia. Le regina Sofia, conquistata la corte con la bellezza e con la schiettezza di sguardo e di linguaggio, tentò di salvarla: si fece punto di riferimento del “partito costituzionale”, caldeggiò la nomina a capo del governo del riformatore Carlo Filangieri, criticò la schedature dei cittadini sospetti di liberalismo. Ma l’acrimonia della regina vedova Maria Teresa d’Asburgo-Teschen, matrigna di Francesco II, incrinò il sostegno della corte, e lo stesso Filangieri si ritirò, accampando l’età avanzata.
In esilio dapprima a Roma, nel palazzo Farnese di proprietà dell’ex re, e poi a Parigi, Sofia morirà a Monaco di Baviera nel 1925. Dal 1986 è sepolta a Napoli, a Santa Chiara, col marito e la figlia Maria Cristina.
Grazie alla ex regina, il cui coraggio fu popolare, il cappello alla calabrese venne per un lungo periodo di moda, in particolare in una versione estiva, di paglia.
Prima ancora il cappello a cono era stato di Giangurgolo, la maschera calabrese della Commedia dell’arte. Non c’è uno studio dell’abbigliamento tradizionale, tantomeno del cappellaccio, sia pure di così gran successo. Se ne sa attraverso la storia delle Commedia dell’arte. Giangurgolo è un vantone, sempre affamato. Creato nel 1618 a Napoli da Natale Consalvo, rispecchia l’antagonismo sempre forte tra napoletani e calabresi. A Reggio Calabria divenne popolare un secolo dopo, per satireggiare i “cavalieri” spagnoleggianti, di cui la città si riempì col passaggio della Sicilia ai Savoia. I pantaloni della maschera, a strisce bianche e rosse, riproducevano i colori della casa d’Aragona.
Nel primo Settecento ci fu una massiccia migrazione di nobili spagnoli di Sicilia verso Reggio, dopo che la Sicilia fu passata ai Savoia, nel 1713, in virtù del trattato di Utrecht, e poi nel 1720 dai Savoia, che preferirono scambiarla con la Sardegna, all’Austria. Anche questo si sa incidentalmente, dalla storia della Commedia dell’Arte. Escalar, Salazar, Ponce de Leon sono nomi comuni a Reggio.:
Manca di storia, si è sempre detto – Leonida Répaci ci ha scritto un libro. Gli storici in realtà li ha, e di qualità: Ernesto Pontieri, Giuseppe Galasso, Augusto Placanica, Rosario e Lucio Villari, Gaetano Cingari nel Novecento. Che non si ripubblicano, o non si leggono. Mentre incombono i contemporaneisti, che la storia, un paio di millenni, riducono a feudo e ‘ndrangheta. Un feudo che nessuno conosce da molte generazioni, se mai l’ha conosciuto – volendola vittima, la Calabria lo è semmai del fedecommesso e della manomorta, della borghesia compra dora: la storia della Calabria è più una storia eccezionalmente non feudale. Che in tutti gli evi si caratterizza per il ribellismo, mai ha accettato il padrone o gli ha obbedito, è la sua forma mentis, se non in un rapporto di mutuo rispetto.
Ma è vero che non ha storia. Dei saraceni. Degli ebrei, salvo come storie locali. Dell’ortodossia e della lingua greca. La sua storia ha appunto questa sola traccia, il feudo, sul quale ha ora innestato la ‘ndrangheta, e sopra vi costruisce una massa inerte che continua ad amputare, dentro gabbie sempre più rigide, di pregiudizi e frasi fatte. Né ha una geografia, come non ha un’economia – si dice per la mafia, ma non è per questo, è per l’ignoranza.
Niente sulla Valle delle Saline o Piana di Gioia Tauro, trentamila ettari di uliveti, una foresta di gnomi, Robin Hood e - non ridete - fate, e di agrumeti, con varietà locali di cultivar che potrebbero avere, se tutto non fosse ‘ndrangheta, grande mercato, e colture irrigue che tutelate e valorizzate sarebbero di grande valore aggiunto, la varietà locale di fagiolini (vajaneje), quella dei fagioli di Spagna (pappalauni), la patata di montagna alle pendici dell’Aspromonte. Niente sul monte Poro, a parte le cipolle rosse di Tropea che ormai viaggiano da sole. Niente sulla piana di Lamezia, che pure produce un “Greco” niente male, e un ottimo “Lamezia” rosso. Niente su quella di Sibari. Niente sull’Aspromonte e sul Pollino, e quasi più niente, dopo i fasti del ventennio, sulle Sile. Sul marchesato niente di più dell’occupazione delle terre nel 1946, storia nobile ma limitata.
Questa cecità fa il paio con alcune vistose assenze, pur nella fame di lavoro. D’ingegneri e tecnici idraulici, che distribuiscano le tante acque di cui la regione si gloria, arginino le fiumare, gestiscano i collettori e i depuratori. Di tecnici agrari della collina e della montagna. E anche delle pianure: niente è mai stato inventato sotto i suoi 220 mila ettari di uliveto, di cui circa 170 mila in coltura specializzata, o per le sue 136 mila aziende olivicole, una ogni dieci calabresi, con una produzione annua di circa 2 milioni di quintali di olio, la più grande concentrazione in Italia e nel mondo, e in frantoio si ringrazia la preveggenza dell’ingegner Pieralisi – come del resto tutto il Mediterraneo. Quelli che aveva, del deprecabile regno borbonico, li ha eliminati con l’unità, e niente è stato istruito al loro posto, la tecnica delle coltura va a morire, se non è già morta – qualità? marchi? marketing? distribuzione? La Calabria è come un calzolaio che dicesse: so fare solo le suole, fili, cuciture, colori, tomaie, lacci sono cose di cui non m’intendo – e infatti i calzolai stanno scomparendo.
“Viva il Re! Viva Dio! Era questo il grido dei massisti calabresi durante la guerriglia che sostennero contro i francesi del generale Reyner e di Massena”, ricorda Corrado Alvaro in un racconto di “Gente in Aspromonte”. Del general Reynier in realtà e di Manhes. Ma per il re Borbone, o non contro la leva in massa che i francesi portavano con la libertà? Non si sa molto dei massisti, anzi quasi nulla. Del nome anzi non si sa niente. Per il Battaglia “massista” è il “combattente inquadrato nelle formazioni popolari calabresi. Note con il nome di Masse, e guidate da Capi Massa, che condussero la lotta contro le truppe francesi di Giuseppe Bonaparte negli anni 1806-1807”.
La legge è fredda
La legge è grigia e fredda, anche ei grandi eventi internazionali - ammesso che la “vendetta” internazionale, la ritorsione, possa definirsi una forma di giudizio legale. La legge è fredda in confronto al delitto, che sempre invece sconvolge. È un fatto, ed è centrale nella lotta al crimine organizzato, che lo sa (lo fiuta) e se ne fa forte.
È un fatto noto in Italia, dove l’uomo dalle mille vendette, soprattutto contro i socialisti e contro i democristiani, Giulio Andreotti, mai ne ha menato vanto: sapeva che esse, seppure necessarie a eliminare un avversario, sono politicamente improduttive. O al tempo del brigatismo, che lascia nella memoria l’attacco, la detenzione e l’assassinio di Moro ma non la faccia né il nome di Gallinari e dei suoi compagni, pure perseguiti e condannati. O nelle stragi di mafia, dove le facce di Riina, Provenzano e Brusca dietro la sbarre non escono dall’indistinto e dallo squallore mentre le stragi da loro messe in scena contro Chinnici, Falcone e Borsellino dominano l’immaginario sulla mafia, con un alone, per quanto non voluto, di superiorità.
Le vendette internazionali ne danno una conferma. La notizia periodica che il mullah Omar è stato individuato e ucciso non suscita emozione. Così per Osama bin Laden: la notizia periodica della sua morte non suscitava emozioni, e così pure la sua effettiva morte, benché caricata di uno scenario spettacolare.
Se pure va servita fredda, la vendetta lascia freddi, almeno in politica. Nessun paragone tra il peso politico e storico dell’11 settembre e la fine di Osama, subito dimenticata. O tra la potenza distruttiva sprigionata dal mullah Omar e i talebani in Afghanistan e la caccia oscura che gli Usa gli danno. È un evento nella politica (nella storia) quello che scuote l’immaginario, e per far ciò deve arrivare inaspettato. Meglio se impari, Davide contro Golia. E oggi anche scenografico: devono saltare i colossi di Bamyhan, o le Torri gemelle, o la stazione Atocha. Mentre la vendetta, a opera di soldati senza volto, non fa nemmeno un film d’azione.
Lo stesso l’antimafia: non mobilita perché non ha smalto, perdendosi nelle procedure e nelle beghe politiche. Mobilitare i giovani, con le letture obbligate a scuole, seppure cerimoniali, certo serve. Ma più servirebbe dare spazio alle parti civili, che del crimine sono il vero anticorpo, avendolo sofferto nella carne. E soprattutto colpire il crimine subito, al primo atto estorsivo, e non dopo quarant’anni, ed elaborate tavole sinottiche.
leuzzi@antiit.eu
La vedova Schifani, una donna che ha sofferto molto in questi vent’anni dall’assassinio del marito con Giovanni Falcone, non si dà pace di essersi fidata di Massimo Ciancimino – di essere stata indotta a fidarsi. Avendolo incontrato con la bella moglie e il bel figlietto a Fiumicino, racconta a Felice Cavallaro sul “Corriere della sera”, lo ha cercato e si è lasciata dire che combattono la stessa battaglia per la giustizia. Ora che Ciancimino è stato carcerato non si dà pace che giudici e media l’abbiano tratta in inganno.
Questo è il Sud, la fiducia cieca nelle istituzioni e nei media. Si dice del Sud che è antisociale, mentre invece la sua maggiore debolezza è la socialità eccessiva, l’abdicazione ai poteri. È l’altra faccia dell’anarchismo.
Calabria
È una miniera per la ricerca storica, poiché è inesplorata.
Il cappello calabrese, di feltro nero a tesa larga e a cono alto è stato dei carbonari, prima di essere dei briganti. Tappa intermedia il capo della regina Sofia, l’ultima di Napoli - che nell’estrema resistenza ai Savoia tentò d’incoraggiare i fedeli borbonici e il marito incerto con un abbigliamento maschile e popolano, stivali alti, corpetto stretto, cappellone.
I carbonari si manifestano in Italia a Napoli attorno al 1810. Sono un gruppo di funzionari e ufficiali francesi, che si rifà agli ideali giacobini, e cioè repubblicani, degli Charbonnier, o Società dei buoni cugini, la cui esistenza è documentata in Francia a metà dl Settecento, quale strumento operativo dei Filadelfi, la setta di Babeuf. Animata da agitatori francesi, contro Murat e Napoleone, e finanziata da logge britanniche, è probabile che questa prima carboneria italiana agisse dietro i massisti, la ribellione popolare degli anni 1807-9 in Calabria contro l’occupazione francese.
Maria Sofia di Wittelsbach sarà personaggio di richiamo per la migliore letteratura europea, D’Annunzio, Proust, Daudet. Figlia di Giuseppe Massimiliano, duca di Baviera, chiamata in casa “Spatz”, passerotto, sorella minore della futura imperatrice d’Austria Elisabetta, “Sissi”, fu sposata a diciotto anni a Francesco II di Napoli, ventitreenne. Nel 1859, otto mesi prima della capitolazione di Gaeta e la fine della dinastia. Le regina Sofia, conquistata la corte con la bellezza e con la schiettezza di sguardo e di linguaggio, tentò di salvarla: si fece punto di riferimento del “partito costituzionale”, caldeggiò la nomina a capo del governo del riformatore Carlo Filangieri, criticò la schedature dei cittadini sospetti di liberalismo. Ma l’acrimonia della regina vedova Maria Teresa d’Asburgo-Teschen, matrigna di Francesco II, incrinò il sostegno della corte, e lo stesso Filangieri si ritirò, accampando l’età avanzata.
In esilio dapprima a Roma, nel palazzo Farnese di proprietà dell’ex re, e poi a Parigi, Sofia morirà a Monaco di Baviera nel 1925. Dal 1986 è sepolta a Napoli, a Santa Chiara, col marito e la figlia Maria Cristina.
Grazie alla ex regina, il cui coraggio fu popolare, il cappello alla calabrese venne per un lungo periodo di moda, in particolare in una versione estiva, di paglia.
Prima ancora il cappello a cono era stato di Giangurgolo, la maschera calabrese della Commedia dell’arte. Non c’è uno studio dell’abbigliamento tradizionale, tantomeno del cappellaccio, sia pure di così gran successo. Se ne sa attraverso la storia delle Commedia dell’arte. Giangurgolo è un vantone, sempre affamato. Creato nel 1618 a Napoli da Natale Consalvo, rispecchia l’antagonismo sempre forte tra napoletani e calabresi. A Reggio Calabria divenne popolare un secolo dopo, per satireggiare i “cavalieri” spagnoleggianti, di cui la città si riempì col passaggio della Sicilia ai Savoia. I pantaloni della maschera, a strisce bianche e rosse, riproducevano i colori della casa d’Aragona.
Nel primo Settecento ci fu una massiccia migrazione di nobili spagnoli di Sicilia verso Reggio, dopo che la Sicilia fu passata ai Savoia, nel 1713, in virtù del trattato di Utrecht, e poi nel 1720 dai Savoia, che preferirono scambiarla con la Sardegna, all’Austria. Anche questo si sa incidentalmente, dalla storia della Commedia dell’Arte. Escalar, Salazar, Ponce de Leon sono nomi comuni a Reggio.:
Manca di storia, si è sempre detto – Leonida Répaci ci ha scritto un libro. Gli storici in realtà li ha, e di qualità: Ernesto Pontieri, Giuseppe Galasso, Augusto Placanica, Rosario e Lucio Villari, Gaetano Cingari nel Novecento. Che non si ripubblicano, o non si leggono. Mentre incombono i contemporaneisti, che la storia, un paio di millenni, riducono a feudo e ‘ndrangheta. Un feudo che nessuno conosce da molte generazioni, se mai l’ha conosciuto – volendola vittima, la Calabria lo è semmai del fedecommesso e della manomorta, della borghesia compra dora: la storia della Calabria è più una storia eccezionalmente non feudale. Che in tutti gli evi si caratterizza per il ribellismo, mai ha accettato il padrone o gli ha obbedito, è la sua forma mentis, se non in un rapporto di mutuo rispetto.
Ma è vero che non ha storia. Dei saraceni. Degli ebrei, salvo come storie locali. Dell’ortodossia e della lingua greca. La sua storia ha appunto questa sola traccia, il feudo, sul quale ha ora innestato la ‘ndrangheta, e sopra vi costruisce una massa inerte che continua ad amputare, dentro gabbie sempre più rigide, di pregiudizi e frasi fatte. Né ha una geografia, come non ha un’economia – si dice per la mafia, ma non è per questo, è per l’ignoranza.
Niente sulla Valle delle Saline o Piana di Gioia Tauro, trentamila ettari di uliveti, una foresta di gnomi, Robin Hood e - non ridete - fate, e di agrumeti, con varietà locali di cultivar che potrebbero avere, se tutto non fosse ‘ndrangheta, grande mercato, e colture irrigue che tutelate e valorizzate sarebbero di grande valore aggiunto, la varietà locale di fagiolini (vajaneje), quella dei fagioli di Spagna (pappalauni), la patata di montagna alle pendici dell’Aspromonte. Niente sul monte Poro, a parte le cipolle rosse di Tropea che ormai viaggiano da sole. Niente sulla piana di Lamezia, che pure produce un “Greco” niente male, e un ottimo “Lamezia” rosso. Niente su quella di Sibari. Niente sull’Aspromonte e sul Pollino, e quasi più niente, dopo i fasti del ventennio, sulle Sile. Sul marchesato niente di più dell’occupazione delle terre nel 1946, storia nobile ma limitata.
Questa cecità fa il paio con alcune vistose assenze, pur nella fame di lavoro. D’ingegneri e tecnici idraulici, che distribuiscano le tante acque di cui la regione si gloria, arginino le fiumare, gestiscano i collettori e i depuratori. Di tecnici agrari della collina e della montagna. E anche delle pianure: niente è mai stato inventato sotto i suoi 220 mila ettari di uliveto, di cui circa 170 mila in coltura specializzata, o per le sue 136 mila aziende olivicole, una ogni dieci calabresi, con una produzione annua di circa 2 milioni di quintali di olio, la più grande concentrazione in Italia e nel mondo, e in frantoio si ringrazia la preveggenza dell’ingegner Pieralisi – come del resto tutto il Mediterraneo. Quelli che aveva, del deprecabile regno borbonico, li ha eliminati con l’unità, e niente è stato istruito al loro posto, la tecnica delle coltura va a morire, se non è già morta – qualità? marchi? marketing? distribuzione? La Calabria è come un calzolaio che dicesse: so fare solo le suole, fili, cuciture, colori, tomaie, lacci sono cose di cui non m’intendo – e infatti i calzolai stanno scomparendo.
“Viva il Re! Viva Dio! Era questo il grido dei massisti calabresi durante la guerriglia che sostennero contro i francesi del generale Reyner e di Massena”, ricorda Corrado Alvaro in un racconto di “Gente in Aspromonte”. Del general Reynier in realtà e di Manhes. Ma per il re Borbone, o non contro la leva in massa che i francesi portavano con la libertà? Non si sa molto dei massisti, anzi quasi nulla. Del nome anzi non si sa niente. Per il Battaglia “massista” è il “combattente inquadrato nelle formazioni popolari calabresi. Note con il nome di Masse, e guidate da Capi Massa, che condussero la lotta contro le truppe francesi di Giuseppe Bonaparte negli anni 1806-1807”.
La legge è fredda
La legge è grigia e fredda, anche ei grandi eventi internazionali - ammesso che la “vendetta” internazionale, la ritorsione, possa definirsi una forma di giudizio legale. La legge è fredda in confronto al delitto, che sempre invece sconvolge. È un fatto, ed è centrale nella lotta al crimine organizzato, che lo sa (lo fiuta) e se ne fa forte.
È un fatto noto in Italia, dove l’uomo dalle mille vendette, soprattutto contro i socialisti e contro i democristiani, Giulio Andreotti, mai ne ha menato vanto: sapeva che esse, seppure necessarie a eliminare un avversario, sono politicamente improduttive. O al tempo del brigatismo, che lascia nella memoria l’attacco, la detenzione e l’assassinio di Moro ma non la faccia né il nome di Gallinari e dei suoi compagni, pure perseguiti e condannati. O nelle stragi di mafia, dove le facce di Riina, Provenzano e Brusca dietro la sbarre non escono dall’indistinto e dallo squallore mentre le stragi da loro messe in scena contro Chinnici, Falcone e Borsellino dominano l’immaginario sulla mafia, con un alone, per quanto non voluto, di superiorità.
Le vendette internazionali ne danno una conferma. La notizia periodica che il mullah Omar è stato individuato e ucciso non suscita emozione. Così per Osama bin Laden: la notizia periodica della sua morte non suscitava emozioni, e così pure la sua effettiva morte, benché caricata di uno scenario spettacolare.
Se pure va servita fredda, la vendetta lascia freddi, almeno in politica. Nessun paragone tra il peso politico e storico dell’11 settembre e la fine di Osama, subito dimenticata. O tra la potenza distruttiva sprigionata dal mullah Omar e i talebani in Afghanistan e la caccia oscura che gli Usa gli danno. È un evento nella politica (nella storia) quello che scuote l’immaginario, e per far ciò deve arrivare inaspettato. Meglio se impari, Davide contro Golia. E oggi anche scenografico: devono saltare i colossi di Bamyhan, o le Torri gemelle, o la stazione Atocha. Mentre la vendetta, a opera di soldati senza volto, non fa nemmeno un film d’azione.
Lo stesso l’antimafia: non mobilita perché non ha smalto, perdendosi nelle procedure e nelle beghe politiche. Mobilitare i giovani, con le letture obbligate a scuole, seppure cerimoniali, certo serve. Ma più servirebbe dare spazio alle parti civili, che del crimine sono il vero anticorpo, avendolo sofferto nella carne. E soprattutto colpire il crimine subito, al primo atto estorsivo, e non dopo quarant’anni, ed elaborate tavole sinottiche.
leuzzi@antiit.eu
domenica 29 maggio 2011
Stalin è vivo in Russia
Non soltanto Putin, la Russia tutta è poco desovietizzata. Lev Gudkov ne ha offerto una vivida traccia al convegno romano in memoria del suo coautore, deceduto a Roma tre anni fa, “Victor Zaslavsky, testimone del suo tempo”, 27-28 maggio 2011 (organizzato da “Ventunesimo secolo” nel suo decennale, la rivista fondata da Zaslavsky con Gaetano Quagliariello – dei due sociologi politici russi Il Mulino ha appena ripubblicato lo studio “La Russia da Gorbaciov a Putin”). In un intervento intitolato “Giocare a fare Stalin”, Gudkov ha offerto una serie di prove del fascino praticamente incorrotto del dittatore nella Russia democratica. Non tra i neo comunisti, minoritari: nel grosso dell’opinione e delle forze politiche. E non per caso.
“Putin è stato il primo tra i politici eminenti della Russia a fare un brindisi a Stalin come «organizzatore della nostra vittoria nella Grande Guerra Patriottica»”. Avveniva l’8 maggio del 1999 alla festa per il giuramento dei Cadetti del Cremlino, gli ufficiali destinati alla protezione delle personalità di Stato. Putin non è il solo nostalgico. “Non è casuale che all’interno della chiesa ortodossa russa non si esauriscano le discussioni sull’opportunità della canonizzazione ecclesiastica di Stalin”. Più in generale, il passato sovietico, o di Grande Potenza, della Russia è elemento fondamentale della legittimità del regime putiniano, della restaurazione dell’onore perduto. E ritorna attraverso la scuola di massa, con una storiografia immediatamente corretta, nelle università di provincia, “portatrici del’ideologia di un rancoroso nazionalismo russo”, e alla televisione di Stato.
“Il Cremlino ha adottato la strategia della rimozione della storia, della sterilizzazione del passato”. La “nuovissima storia della Russia” vuole “l’oblio comprensivo”, all’insegna di una “storiografia ottimista” che aiuti a superare il senso di colpa collettiva. In sintesi, nota Gudkov, è un ritorno alla posizione del Partito dopo il XX.mo Congresso nel 1956, quando Krusciov denunciò i crimini di Stalin: “Stalin è responsabile delle repressioni illegali ma solo con questi mezzi era possibile creare una grande superpotenza come l’Urss”. Alla televisione negli ultimi anni vanno in onda “interminabili serial sui segreti della vita del Cremlino, sugli intrighi e i complotti della stretta cerchia del dittatore, sui suoi tormenti interiori e sulle sue «ricerche religiose» (per esempio “Stalin Live”, andato in onda nel 2007, 2008, 2009 e 2010), e talkshow tipo “Il nome della Russia”, nel quale Stalin è “rappresentato come simbolo insigne della grandezza della Russia, sinonimo di gloria nazionale”. Una delle più grandi case editrice, la Eksmo, si è specializzata nella storia popolare a carattere revisionista su tutti gi aspetti più perversi della storia di Stalin, con “diecine di libri apologetici”.
L’effetto è già sensibile sull’opinione pubblica. Che ora si dice prevalentemente indifferente rispetto al problema (soprattutto fra i giovani, il 69 per cento): la percentuale degli indifferenti è cresciuta nel decennio dal 12 al 44 per cento. Quanto alla persona di Stalin, se è diminuito il numero di chi ne dava una valutazione positiva, dal 38 al 31 per cento, di più è diminuito il numero di chi lo condannava, dal 43 al 24 per cento. Mentre sul ruolo complessivo dello stalinismo in Russia “nonostante le repressioni” c’è ora una maggioranza dei consensi, tra il 51 e il 53 per cento del campione.
Ombre - 90
Una piccola foto sul “Corriere della sera” è un libro di storia. Vi si vede Omar el Mukhtar, il capo beduino che aveva capeggiato la guerriglia libica contro l’occupazione italiana, prima dell’impiccagione nel 1931, a settant’anni: un vecchio legato con grandi catene e un nugolo di diplomatici e ufficiali italiani, dei bersaglieri, dei carabinieri, della marina, in posa per la foto ricordo. Un manifesto dell’insensibilità prima che dell’incapacità.
Nel racconto scritto oggi per “Il Sole 24 Ore” (“Montalbano nella banca svaligiata”) Camilleri fa dire al suo popolare personaggio, che pure ultimamente aveva fatto virare al politicamente corretto, dopo aver constatato che sul Corso tre botteghe non ci sono più, un alimentari, un vinaio e un bar, sostituiti dalle banche: “S’ammaravigliò. Come si spiegava che mentre giornali e tilivisioni annavano dicendo che il paisi addivintava sempre cchiù scarso e poviro, le banchi aumentavano?”
Daniela Melchiorre, un’onorevole di un partito da lei inventato che in cinque anni ha cambiato cinque schieramenti, e ultimamente s’era messa (di nuovo) con Berlusconi, è un magistrato. Ora lascia Berlusconi “dopo che”, dice a Monica Guerzoni su “Corriere della sera”, è andato al G 8 a “insultare i magistrati”. Vuole dargli ragione?
Si vede alla Rai tra Barcellona e Manchester United un calcio stratosferico: elegante, corretto, inventivo, insomma un spettacolo. Ma i commentatori della Rai, Salvatore Bagni soprattutto, solo interessati agli “episodi da moviola” – il calcio in tribunale. E lo trovano. Ne trovano anzi due, con i quali importunano gli spettatori: un fuorigioco, forse, “millimetrico”, di Giggs nel gol inglese, e un rigore per un mani – che non c’è – dello spagnolo Villa nella propria area.
“Il «problema Milano»”, dice Alessandro Sallusti a “Vanity Fair”, è “il «problema Moratti»”, Letizia Moratti, che non apprezza le cattiverie di Sallusti, e “anche il «problema Berlusconi»”. Dice inoltre Sallusti: “Molto meglio lei (Letizia M., n.d.r.) che un pericoloso estremista come Pisapia”. Si potrebbe dire: dove li trovano? Ma è evidente che un “problema Milano” esiste.
Sallusti può dire anche, su “Vanity Fair” e su tutti gli altri giornali della capitale morale, che la sua morosa onorevole Santanché “passa le serate a lavorare a maglia per il figlio. Odia uscire e andare alle feste”.
Un italiano su quattro povero. L’Istat non lo ha detto, ma l’Ansa glielo fa dire. E la Catena diffonde il messaggio. Senza eccezioni.
La vedova Schifani, una donna che ha sofferto molto in questi vent’anni dall’assassinio del marito con Giovanni Falcone, non si dà pace di essersi fidata di Massimo Ciancimino – di essere stata indotta a fidarsi. Avendolo incontrato con la bella moglie e il figlioletto a Fiumicino, racconta a Felice Cavallaro sul “Corriere della sera”, lo ha cercato e si è lasciata dire che combattono la stessa battaglia per la giustizia. Ora che Ciancimino è stato carcerato non si dà pace che giudici e media l’abbiano tratta in inganno.
Giudici e media sono creduti ciecamente – anche nella giubilazione dopo l’esaltazione.
Nel rimontaggio di “Giovanni Falcone”, il telefilm con Massimo Dapporto, in una serata unica, la Rai riesce a non lasciare fuori nessun fatto importante. Eccetto uno: il siluramento della candidatura di Falcone a capo della Procura antimafia.
Mentre del siluramento della sua candidatura al Csm si danno i dettagli, chi vota contro e chi si astiene, della Procura non si parla. Della campagna calunniosa in tv di Leoluca Orlando. E del voto contrario del Pci, sia pure in odio ai socialisti. Con la ricerca di un candidato con più anzianità, poi trovato in Cordova, anche se di fede missina.
Usain Bolt, a Roma per il Golden Gala dell’atletica, dice al Tg 1 di essere un fan di Eto’o. Subito la Rai mostra Eto’o in due inquadrature. Della stessa partita, Juventus-Inter di alcuni mesi fa. Con Eto’o, che pure ha fatto tanti gesti atletici da antologia, messo a terra da uno juventino. Due inquadrature dello stesso fallo. Forse per risparmiare. Ma la Rai fattura questa pubblicità occulta? O il regista? O Minzolini?
Per tutto l’anno i milanisti a San Siro intonano un coro razzista contro Eto’o. Ma né la società né la curva sono state sanzionate. Questo si fa negli altri stadi, soprattutto a Torino. Senza vergogna.
Nel racconto scritto oggi per “Il Sole 24 Ore” (“Montalbano nella banca svaligiata”) Camilleri fa dire al suo popolare personaggio, che pure ultimamente aveva fatto virare al politicamente corretto, dopo aver constatato che sul Corso tre botteghe non ci sono più, un alimentari, un vinaio e un bar, sostituiti dalle banche: “S’ammaravigliò. Come si spiegava che mentre giornali e tilivisioni annavano dicendo che il paisi addivintava sempre cchiù scarso e poviro, le banchi aumentavano?”
Daniela Melchiorre, un’onorevole di un partito da lei inventato che in cinque anni ha cambiato cinque schieramenti, e ultimamente s’era messa (di nuovo) con Berlusconi, è un magistrato. Ora lascia Berlusconi “dopo che”, dice a Monica Guerzoni su “Corriere della sera”, è andato al G 8 a “insultare i magistrati”. Vuole dargli ragione?
Si vede alla Rai tra Barcellona e Manchester United un calcio stratosferico: elegante, corretto, inventivo, insomma un spettacolo. Ma i commentatori della Rai, Salvatore Bagni soprattutto, solo interessati agli “episodi da moviola” – il calcio in tribunale. E lo trovano. Ne trovano anzi due, con i quali importunano gli spettatori: un fuorigioco, forse, “millimetrico”, di Giggs nel gol inglese, e un rigore per un mani – che non c’è – dello spagnolo Villa nella propria area.
“Il «problema Milano»”, dice Alessandro Sallusti a “Vanity Fair”, è “il «problema Moratti»”, Letizia Moratti, che non apprezza le cattiverie di Sallusti, e “anche il «problema Berlusconi»”. Dice inoltre Sallusti: “Molto meglio lei (Letizia M., n.d.r.) che un pericoloso estremista come Pisapia”. Si potrebbe dire: dove li trovano? Ma è evidente che un “problema Milano” esiste.
Sallusti può dire anche, su “Vanity Fair” e su tutti gli altri giornali della capitale morale, che la sua morosa onorevole Santanché “passa le serate a lavorare a maglia per il figlio. Odia uscire e andare alle feste”.
Un italiano su quattro povero. L’Istat non lo ha detto, ma l’Ansa glielo fa dire. E la Catena diffonde il messaggio. Senza eccezioni.
La vedova Schifani, una donna che ha sofferto molto in questi vent’anni dall’assassinio del marito con Giovanni Falcone, non si dà pace di essersi fidata di Massimo Ciancimino – di essere stata indotta a fidarsi. Avendolo incontrato con la bella moglie e il figlioletto a Fiumicino, racconta a Felice Cavallaro sul “Corriere della sera”, lo ha cercato e si è lasciata dire che combattono la stessa battaglia per la giustizia. Ora che Ciancimino è stato carcerato non si dà pace che giudici e media l’abbiano tratta in inganno.
Giudici e media sono creduti ciecamente – anche nella giubilazione dopo l’esaltazione.
Nel rimontaggio di “Giovanni Falcone”, il telefilm con Massimo Dapporto, in una serata unica, la Rai riesce a non lasciare fuori nessun fatto importante. Eccetto uno: il siluramento della candidatura di Falcone a capo della Procura antimafia.
Mentre del siluramento della sua candidatura al Csm si danno i dettagli, chi vota contro e chi si astiene, della Procura non si parla. Della campagna calunniosa in tv di Leoluca Orlando. E del voto contrario del Pci, sia pure in odio ai socialisti. Con la ricerca di un candidato con più anzianità, poi trovato in Cordova, anche se di fede missina.
Usain Bolt, a Roma per il Golden Gala dell’atletica, dice al Tg 1 di essere un fan di Eto’o. Subito la Rai mostra Eto’o in due inquadrature. Della stessa partita, Juventus-Inter di alcuni mesi fa. Con Eto’o, che pure ha fatto tanti gesti atletici da antologia, messo a terra da uno juventino. Due inquadrature dello stesso fallo. Forse per risparmiare. Ma la Rai fattura questa pubblicità occulta? O il regista? O Minzolini?
Per tutto l’anno i milanisti a San Siro intonano un coro razzista contro Eto’o. Ma né la società né la curva sono state sanzionate. Questo si fa negli altri stadi, soprattutto a Torino. Senza vergogna.