Non c’è bisogno di aspettare il libro per sapere che scalerà le classifiche: Montanelli è la nostra cattiva coscienza, il suo stesso generale Della Rovere. Né c’è bisogno di leggerlo per sapere cosa dice: il libro raccoglie le delicatezze già ammannite su “La Voce”, e poi sul “Corriere della sera”, quando il giornale di via Solferino lo riabilitò. Né si poteva aggiungere altro, ce n’è già abbastanza. A un certo punto Montanelli rivela a Berlusconi, che lo ha finanziato e protetto, senza censurarlo, nei vent’anni successivi all’espulsione dal “Corriere” nel 1973, che tiene in caldo il suo “coccodrillo”, in gergo il necrologio. Era al tempo che gli ex Dc, e Montanelli, si aspettavano la morte di Berlusconi per cancro. Ma il “caimano” è Berlusconi e non Montanelli.
Il giornalista non si smentisce. È il Masaniello che sberleffa i masanielli, più fascista dei fascisti, più comunista dei comunisti, e perfino più democristiano – Andreotti avrebbe da imparare, se leggesse (temesse) i giornali. Sempre nel mainstream, e incompiuto: ma questi personaggi non hano l’ambizione di fare qualcosa, solo di essere (apparire). Ma anche il pubblico non si smentisce.
Il cinismo più volgare, che si ammanta di moralismo, è la “dote” che gli italiani più apprezzano? Non è possibile, ma è il caso con Montanelli, un dio che non muore. La volgarità di Montanelli parla da sola, politica e personale. E tuttavia l’uomo è un’icona, se non un santo. Ora della sinistra – ed è lo scandalo minore, questa sinistra adora anche Andreotti. Sergio Romano, forse per aziendalismo, accomuna sul “Corriere della sera” Montanelli e Sergio Marchionne: Montanelli impersona, dice, “l’italiano scomodo”. Uno che si accomodava con tutti, salvo sbeffeggiarli quando non ne aveva più bisogno. Fascista coi fascisti, comunista coi comunisti, e perfino democristiano. Che si accreditava amante dell’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce negli anni Cinquanta quando ne era un semplice informatore, e tale era considerato nelle carte diplomatiche – una sorta di delatore. Che scriveva contro l’Eni cose feroci, mentre cercava di farsene finanziare un giornale, con mediatori alla Bisignani.
È anche grazie a Montanelli che Berlusconi diventa Berlusconi: si diventa giganti di fronte ai nani. In una cosa però i suoi critici, come la concorrente Rcs, hanno di sicuro ragione su Berlusconi: è melenso. La sua Mondadori o i suoi giornali non hanno pubblicato un rigo, figurarsi un libro, contro le malefatte della Rizzoli-Corriere della sera, sulle ruberie, l’ipocrisia, l’opportunismo, i continui maneggi.
Indro Montanelli, Ve lo avevo detto. Berlusconi visto da chi lo conosceva bene, Rizzoli, pp. 179, € 12
sabato 2 luglio 2011
Per chi combatte la Nato in Libia?
Trova difficoltà Frattini a convocare l’annunciata conferenza a Roma delle forze anti-Gheddafi. Non c’era unità nel blocco anti-Gheddafi all’inizio, a metà marzo. Le forze ribelli sono andate avanti senza un governo provvisorio e con un coordinamento esclusivamente militare. Le differenze si sono accentuate, fra personalità, gruppi, tribù, regioni, a mano a mano che cresceva il riconoscimento internazionale. In un primo momento perché l’installazione di un nuovo governo sembrava immediata, e quindi ogni componente voleva far pesare la propria parte. Ora perché la guerra è in stallo, benché massicciamente dotata dalle forze Nato di mezzi e armamenti, e alcuni capi si sono messi alla finestra.
L’Italia si è prodigata sul fronte politico, per ricompattare una leadership nazionale. Con l’effetto non secondario di riguadagnare qualche posizione rispetto ai paesi che hanno voluto la guerra, Francia e Gran Bretagna, appoggiati da Obama. Ma non può e non vuole fare pressioni per una soluzione invece che un’altra tra i gruppi di opposizione. Anche perché nessuno di essi è emerso finora con più seguito o più argomenti di altri.
L’Italia si è prodigata sul fronte politico, per ricompattare una leadership nazionale. Con l’effetto non secondario di riguadagnare qualche posizione rispetto ai paesi che hanno voluto la guerra, Francia e Gran Bretagna, appoggiati da Obama. Ma non può e non vuole fare pressioni per una soluzione invece che un’altra tra i gruppi di opposizione. Anche perché nessuno di essi è emerso finora con più seguito o più argomenti di altri.
Le bugie di guerra del Tribunale dell’Aja
Gli Stati Uniti, che non volevano la Corte penale dell’Aja e a lungo l’hanno boicottata, hanno deciso di sabotarla? Dall’interno, a opera della corte stessa, come si conviene a una diplomazia intelligente? È l’interrogativo che si pongono le diplomazie europee dopo la decisione della Corte di processare Gheddafi per crimini di guerra chiedendone l’arresto. Non richiesta dall’Onu, né dalla Nato che agisce per conto dell’Onu. E senza addurre motivi validi. Richiesta forse dagli Stati Uniti, ma allora con che scopo? La Corte ha azionato da sé il proprio indebolimento.
Se non fosse stata scritta da Marc Bloch, all’epoca dell’odio incoercibile tra tedeschi e francesi, la storia-manuale delle bugie di guerra (“La guerra e le false notizie”) si ricomporrebbe da sé in questi (pochi) mesi di guerra alla Libia. Un movimento democratico che invece era un colpo di Stato, preparato da tempo, con alcuni governi europei. I mercenari, il viagra, e gli stupri di massa dei militari libri. Le fosse comuni o cimiteri di massa, allestiti da un regista per i fotografi. Tutto ciò falso fin dall’inizio, ma certificato dal giudice supremo Moreno-Ocampo. Che è un sudamericano, ma ciò non toglie – si sa che i sudamericani hanno soprattutto voglia di divertirsi: Moreno-Ocampo ha la carica di Procuratore del Tribunale penale internazionale dell’Aja, è il pubblico accusatore. Il Procuratore ha detto bugie talmente bugiarde da doverle abbandonare presto. Ma il Tribunale le ha prese per buone procedendo contro Gheddafi. Tutto poco “intelligente”.
Troppo per le diplomazie europee. Che danno per certa la volontà americana di sabotare il Tribunale dell’Aja. Per due buoni motivi. Vanno in porto processi per i crimini nell’ex Jugoslavia, mentre la Serbia si è allineata e non è più il caso di infierire contro di essa. L’arrivo all’Aja di allegri giuristi alla Moreno-Ocampo non garantisce gli Usa di non trovarsi un giorno sotto accusa. Direttamente, per i bombardamenti per esempio che liberamente operano ovunque nel globo, sotto forma di antiterrorismo o per la protezione della domanda di libertà (un tempo antinarco, domani chissà). O indirettamente, per gli eventi in Palestina, o in Pakistan.
Se non fosse stata scritta da Marc Bloch, all’epoca dell’odio incoercibile tra tedeschi e francesi, la storia-manuale delle bugie di guerra (“La guerra e le false notizie”) si ricomporrebbe da sé in questi (pochi) mesi di guerra alla Libia. Un movimento democratico che invece era un colpo di Stato, preparato da tempo, con alcuni governi europei. I mercenari, il viagra, e gli stupri di massa dei militari libri. Le fosse comuni o cimiteri di massa, allestiti da un regista per i fotografi. Tutto ciò falso fin dall’inizio, ma certificato dal giudice supremo Moreno-Ocampo. Che è un sudamericano, ma ciò non toglie – si sa che i sudamericani hanno soprattutto voglia di divertirsi: Moreno-Ocampo ha la carica di Procuratore del Tribunale penale internazionale dell’Aja, è il pubblico accusatore. Il Procuratore ha detto bugie talmente bugiarde da doverle abbandonare presto. Ma il Tribunale le ha prese per buone procedendo contro Gheddafi. Tutto poco “intelligente”.
Troppo per le diplomazie europee. Che danno per certa la volontà americana di sabotare il Tribunale dell’Aja. Per due buoni motivi. Vanno in porto processi per i crimini nell’ex Jugoslavia, mentre la Serbia si è allineata e non è più il caso di infierire contro di essa. L’arrivo all’Aja di allegri giuristi alla Moreno-Ocampo non garantisce gli Usa di non trovarsi un giorno sotto accusa. Direttamente, per i bombardamenti per esempio che liberamente operano ovunque nel globo, sotto forma di antiterrorismo o per la protezione della domanda di libertà (un tempo antinarco, domani chissà). O indirettamente, per gli eventi in Palestina, o in Pakistan.
Meglio il porno che la truffa a San Miniato
A San Miniato al Monte, storica cittadina tra Firenze e Pisa, il sindaco ha deciso all’improvviso che il territorio doveva dotarsi di fonti di energia alternative, anche per usufruire dei tanti soldi che la legge assegna. Su 35 ettari – che a immaginarli cosparsi di lamiere, sia pure al silicio, sono già un incubo. È un sindaco Pd, e quindi ligio alla legge. La quale vuole impianti più piccoli, al massimo di un ettaro l’uno, più o meno. Il sindaco allora ha fatto 25 bandi per 25 parchi fotovoltaici contigui. Che sono stati vinti da tre aziende. Appartenenti a tre persone. Che sono i proprietari dei 35 ettari.
La cosa non è scandalosa, dice il sindaco, le delibere sono tutte iperlegali. Per questo non se ne legge nei giornali - se non nella “Nazione”, che è all’opposizione. Anzi, la cittadina si è subito coperta con un altro scandalo, ben più arrapante: la locale segretaria del Pd, giovane e procace, che si fa improsare in un video porno in commercio.
Il sindaco ha ragione: la “valle degli specchi”, come è stata definita l’enorme superficie destinata alle provvidenze, è paradigmatica dell’affarismo legalitario, verde, toscano. Ed è anche vero che è meglio la segretaria, da quel che si vede, degli specchi ustori. Tanto più che non s’è fatta pagare dallo Stato. Meglio il porno che la truffa, e più se la truffa è legale. Mentre resta da accertare dov’è l’affare: se è del sindaco (la giunta, il partito) o del comune? E le energie alternative?
La cosa non è scandalosa, dice il sindaco, le delibere sono tutte iperlegali. Per questo non se ne legge nei giornali - se non nella “Nazione”, che è all’opposizione. Anzi, la cittadina si è subito coperta con un altro scandalo, ben più arrapante: la locale segretaria del Pd, giovane e procace, che si fa improsare in un video porno in commercio.
Il sindaco ha ragione: la “valle degli specchi”, come è stata definita l’enorme superficie destinata alle provvidenze, è paradigmatica dell’affarismo legalitario, verde, toscano. Ed è anche vero che è meglio la segretaria, da quel che si vede, degli specchi ustori. Tanto più che non s’è fatta pagare dallo Stato. Meglio il porno che la truffa, e più se la truffa è legale. Mentre resta da accertare dov’è l’affare: se è del sindaco (la giunta, il partito) o del comune? E le energie alternative?
venerdì 1 luglio 2011
In Italia Dsk senza scampo
In Italia Strauss Kahn sarebbe stato condannato. In America pure, se non fosse stato ricco – o non fosse stato patrocinato dagli attivisti di una qualche causa. In Italia invece sarebbe stato condannato comunque, da uno di quei ridicoli gip e gup, e dal tribunale, sempre di scelta dell’accusa.
In America un secondo grado di protezione è proprio nel lato debole dell’accusa, la sua politicizzazione. Il Procuratore si guarda bene da un processo non fondato, proprio per proteggere la carriera politica. In Italia la carriera del Procuratore è assicurata sempre, raramente col voto (Di Pietro, De Magistris), solitamente con promozioni e incarichi, convegni, libri, collaborazioni giornalistiche, presenze – i Procuratori fanno le “presenze”, come le veline.
Tutto questo avviene in Italia nel sistema della giustizia, non nel diritto. Il diritto prevede un processo alla pari. Le istituzioni lo hanno traviato, per debolezza o per collusione: la Consulta, il Csm, la presidenza della Repubblica. Soggiogati (complici? ricattati?) dall’aperta illegalità delle Procure.
In America un secondo grado di protezione è proprio nel lato debole dell’accusa, la sua politicizzazione. Il Procuratore si guarda bene da un processo non fondato, proprio per proteggere la carriera politica. In Italia la carriera del Procuratore è assicurata sempre, raramente col voto (Di Pietro, De Magistris), solitamente con promozioni e incarichi, convegni, libri, collaborazioni giornalistiche, presenze – i Procuratori fanno le “presenze”, come le veline.
Tutto questo avviene in Italia nel sistema della giustizia, non nel diritto. Il diritto prevede un processo alla pari. Le istituzioni lo hanno traviato, per debolezza o per collusione: la Consulta, il Csm, la presidenza della Repubblica. Soggiogati (complici? ricattati?) dall’aperta illegalità delle Procure.
La verità di Nani, bella e intelligente
Un libro di articoli come non se ne scrivono più da trent’anni, da quando Enrico “Nani” Filippini li redigeva e “Repubblica” se ne faceva mostra. Pieni d’intelligenza, oltre che di onestà. A colloquio col vecchio amico Garcia Marquez ne penetra in breve il segreto della scrittura - e configura l’America Latina, ben definita, in rapporto a “noi”europei e allo stesso Nanni, che non si lascia intrappolare dal vecchio affabulatore sovietista. Il ritratto di Foucault basta da solo alla lettura. O di Simone Weil, così perspicace e ancora inedito. Da Sinjavskij estrae un pensiero tanto semplice quanto centrale all’Otto-Novecento russo, da Gogol a Dostoevskij, Tolstòj, Solzenicyn: “lo sdoppiamento dell’utile e del dilettevole” (“Non posso immaginare Proust che pianta tutto per insegnare a vivere senza mentire, mentre noi russi siamo sempre esposti a questa tentazione”, che non è male).
Nella felicità della bottiglia, che oggi non sarebbe possibile, il proibizionismo è radicale (morale?). Allora, 1980, si poteva ancora ridere, in Italia e su “Repubblica”, dell’accoglienza nel 1961 al “Buon soldato Scvèik”, di cui si dimostrava “che il personaggio tendeva a diventare, da anarchico, comunista, del resto in ossequio a una pia tradizione che risaliva a Erwin Piscator e a Bertolt Brecht…”. Nel saggio sulla “popolarità” tardiva di Popper non teme di dire, dietro la questione dell’irrilevanza delle scienze umanistiche in Italia dopo il 1918, la verità: lo studio sopraffatto dal politicismo. Senza dirlo, se non riservatamente, a chi sa leggere – Nanni non ha vissuto felice. Umberto Eco, che introduce la raccolta curata da Federico Pietranera, lo dice “arrogante nella vita” - ma non si offendeva se lo dicevano “Nani”, che è quasi toscano e non lombardo-ticinese, non gliene fregava, aveva lo stesso sorriso distante.
Enrico Filippini, La verità del gatto
Nella felicità della bottiglia, che oggi non sarebbe possibile, il proibizionismo è radicale (morale?). Allora, 1980, si poteva ancora ridere, in Italia e su “Repubblica”, dell’accoglienza nel 1961 al “Buon soldato Scvèik”, di cui si dimostrava “che il personaggio tendeva a diventare, da anarchico, comunista, del resto in ossequio a una pia tradizione che risaliva a Erwin Piscator e a Bertolt Brecht…”. Nel saggio sulla “popolarità” tardiva di Popper non teme di dire, dietro la questione dell’irrilevanza delle scienze umanistiche in Italia dopo il 1918, la verità: lo studio sopraffatto dal politicismo. Senza dirlo, se non riservatamente, a chi sa leggere – Nanni non ha vissuto felice. Umberto Eco, che introduce la raccolta curata da Federico Pietranera, lo dice “arrogante nella vita” - ma non si offendeva se lo dicevano “Nani”, che è quasi toscano e non lombardo-ticinese, non gliene fregava, aveva lo stesso sorriso distante.
Enrico Filippini, La verità del gatto
Guerra, processi, mercati: questa sinistra è di destra
È la guerra di sinistra, malgrado le marce, le manifestazioni e i vessilli per la pace? Impossibile, le mamme sono sempre le stesse, che portano i figlietti alle marce con i drappi arcobaleno, le suore, i francescani, gli animalisti, e le tante altre anime buone. È però un fatto: la destra è sempre tentata di andarsene dall’Afghanistan, e non voleva bombardare la Libia, la sinistra marcia entusiasta, specie con Obama. Sui giornali di destra è possibile reperire qualche cifra di quanto le guerre per gli Usa ci costano (sui due miliardi di euro, l’anno), sull’“Unità” o su “Repubblica” no.
L’inversione dei ruoli è ormai un dato storico. Partita con la giustizia politicizzata, che in ambiente occidentale è sempre stata di destra, fascista, maccarthysta, democristiana (indimenticabili gli scoop “Lo specchio”-Andreotti a ogni elezione). E ampliata col mercatismo, cui la sinistra, forse per essere arrivata tardi o impreparata, è stata ed è singolarmente prona, a quella finanziaria dei Soros, che pure annientò l’Italia, a quella della grande distribuzione, a quella della rendita urbana, che da un paio di generazioni ormai sa che dev’essere di sinistra per andare impunita. La sfera privata e il libero giudizio, da sempre il fondamento della democrazia, sono ora perseguiti, ma non da destra come ci si aspetterebbe, da sinistra. Mussolini, che non si può apprezzare in nessun modo, ammetteva le barzellette, ora non più: il controllo, morale, impegnato, progressista, si vuole totale, fino alle imprecazioni involontarie.
Ora la destra, da sempre “amerikana”, mette in dubbio che fare le guerre sia l’unico criterio per essere un alleato affidabile. Gli stessi Usa, a destra e a sinistra, discutono d’altra parte l’opportunità di continuare le guerre in ambiente islamico che in dieci anni sono costate più dell’ultima guerra mondiale. A sinistra no, non si può discutere. A partire dal presidente Napolitano, se ne fa una questione dirimente: bisogna fare le guerre, ogni volta che Washington chiama.
I diritti? La pace? Domina a sinistra il conformismo. Si può pensare questo stato della sinistra come un riposizionamento tattico, a destra, per vincere le elezioni. Ma non c’è strategia, né tattica: è proprio un modo d’essere, spontaneo, viscerale, irragionevole. Pieno di sensi di colpa anche, i processi politici sono la macchia più terribile del comunismo, ma soprattutto di conformismo. Come se la Germania fosse alleato meno affidabile dell’Italia perché non va a bombardare la Libia. Due presidenze (ex) comuniste, di D’Alema al governo e di Napolitano al Quirinale, e due guerre, tra l’altro dannose anche all’Italia.
L’inversione dei ruoli è ormai un dato storico. Partita con la giustizia politicizzata, che in ambiente occidentale è sempre stata di destra, fascista, maccarthysta, democristiana (indimenticabili gli scoop “Lo specchio”-Andreotti a ogni elezione). E ampliata col mercatismo, cui la sinistra, forse per essere arrivata tardi o impreparata, è stata ed è singolarmente prona, a quella finanziaria dei Soros, che pure annientò l’Italia, a quella della grande distribuzione, a quella della rendita urbana, che da un paio di generazioni ormai sa che dev’essere di sinistra per andare impunita. La sfera privata e il libero giudizio, da sempre il fondamento della democrazia, sono ora perseguiti, ma non da destra come ci si aspetterebbe, da sinistra. Mussolini, che non si può apprezzare in nessun modo, ammetteva le barzellette, ora non più: il controllo, morale, impegnato, progressista, si vuole totale, fino alle imprecazioni involontarie.
Ora la destra, da sempre “amerikana”, mette in dubbio che fare le guerre sia l’unico criterio per essere un alleato affidabile. Gli stessi Usa, a destra e a sinistra, discutono d’altra parte l’opportunità di continuare le guerre in ambiente islamico che in dieci anni sono costate più dell’ultima guerra mondiale. A sinistra no, non si può discutere. A partire dal presidente Napolitano, se ne fa una questione dirimente: bisogna fare le guerre, ogni volta che Washington chiama.
I diritti? La pace? Domina a sinistra il conformismo. Si può pensare questo stato della sinistra come un riposizionamento tattico, a destra, per vincere le elezioni. Ma non c’è strategia, né tattica: è proprio un modo d’essere, spontaneo, viscerale, irragionevole. Pieno di sensi di colpa anche, i processi politici sono la macchia più terribile del comunismo, ma soprattutto di conformismo. Come se la Germania fosse alleato meno affidabile dell’Italia perché non va a bombardare la Libia. Due presidenze (ex) comuniste, di D’Alema al governo e di Napolitano al Quirinale, e due guerre, tra l’altro dannose anche all’Italia.
giovedì 30 giugno 2011
Letture - 67
letterautore
Camilleri - Il segreto della speciale lingua di Camilleri è duplice. È il vocabolario limitato, una lingua semplice. In bocca a personaggi fortemente connotati e immutabili – il vecchio procedimento della commedia dell’arte: le parole a volte astruse per gli stessi parlanti siculo-calabresi sono ripetitive e connotative – ogni personaggio ha i suoi “nomi”. La serie dei “Montalbano” è un piccolo villaggio (gruppo, comunità), con ticchi noti. Un teatro. Dai modi noti e attesi, il teatro dell’arte. In cui indefettibilmente tutti fanno sempre e dicono le stesse cose: un teatro di maschere.
È l’uso anche di un dialetto che non è dialetto, che altrimenti lo renderebbe incomprensibile: è una lingua che usa sonorità e terminazioni dialettali in una costruzione e in un contesto italiani. Che è la lingua parlata al Sud dai borghesi – professionisti, proprietari, gente d’affari (quelli del “circolo”, luogo caro a Camilleri, non necessariamente de nobili o dei borghesi, anche degli sfaticati e perfino dei “compagni”).
Dialetto – Camilleri spiega la sua speciale lingua rifacendosi a Pirandello, che “traduceva”, dice, dal dialetto. E ogni personaggio caratterizzava socialmente. Ma Pirandello non traduceva, parlava (pensava) agrigentino. Anche quando, il più delle volte, non lo scriveva: la lingua è una forma mentis. E quando scriveva caratterizzava, a volte anche socialmente, ogni parlante – si fa così in teatro da Molière in poi, comprese le rappresentazioni metafisiche. Lo fa anche nei racconti, che sono teatro raccontato (facilmente adattabili alla scena). Ma non “adattava” il dialetto, come invece fa Camilleri.
In realtà l’ordine espresso dal dialetto è già un ordine sociale: è anzitutto parlato, e si adatta alla classe, alla campagna, alla città, al quartiere (solo a Roma ci sono almeno quattro dialetti: a Trastevere e San Lorenzo, al Flaminio-Parioli, a San Basilio-Tiburtino Terzo, e uno bastardo nelle aree a forte concentrazione d’immigrati abruzzesi o calabresi), alla zona geografica, alla professione. È cioè, in letteratura, borghese: il dialetto articola la rappresentazione che un borghese si fa della realtà, compresi gli interstizi, derisori, in italiano – fino all’autoironia, certo.
Analogamente il romanesco di borgata in Pasolini, fricchettone, e ora già inespressivo, rispetto a quello letterario (che Pasolini conosceva meglio di ogni altro). O il romanesco di Gadda, che è la lingua (il punto di vista) del Flaminio-Parioli – adattabile a San Giovanni (Merulana), ma sempre tra i professionisti, compresi gli impiegati di concetto e le loro mogli.
Il dialetto è una lingua sociale – non nazionale, neppure nel senso (nei limiti) della tribù, della ragione. E umorale (teatrale). E la fazione prevalente dei suoi umori è di tipo classista.
Giallo - I complotti piacciono. Per la natura del complotto, che si costruisce come un giallo - spiega cioè ogni cosa senza che essa debba essere vera. Una corrente di pensiero vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni forma logica: discenderebbe dalla necessità di causa ed effetto. Heisenberg ce ne vorrebbe privare, così presto - è appena un secolo, un secolo e mezzo contando Poe, che l’umanità si gode il giallo e i piaceri della logica. Ma questo è il difetto dell’epagoge, inductio, che abbisogna di una gran quantità di cose per porre il principio logico, o universale. Quante devono essere queste cose? E la conclusione si può sempre rovesciare. Si può immaginare un giallo fatto di deduzioni e controdeduzioni, che vadano avanti per duecento pagine, quanto il giallo dev’essere lungo. Oppure di un monte di fatti cui si contrappone un altro monte di fatti. Questo è stato fatto spesso in letteratura, il volgare “visto dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, per quanto forbita, onorevole e anzi è fastidiosa. Ne era maestro Socrate, di cui gli ateniesi si liberarono con sollievo. L’apagoge è l’abduzione, la tecnica per cui si assume la tesi dell’interlocutore per vera, ma poi, unendola a qualche altra proposizione nota come vera, se ne trae una conclusione palesemente falsa, in quanto contraddice la natura delle cose (argomento ad rem), oppure le altre affermazioni dell’interlocutore (argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne sia maestro, e invece è simpatico perché le evita.
Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano la realtà e la storia. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte. Con le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nell’alchimia del potere, che si vuole arcano per quanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è ottimo esercizio d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene. La logica, compresa del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa già la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare. Non ci vuole mica molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, coi tiranti, le redini, la frusta, annunciata, prevista, spiegata perfino. Il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è anche il regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi montati dalla polizia. Però sono manifesti.
Inglese – “Sette”, la rivista del “Corriere della sera”, insegna l’inglese corretto agli italiani ignoranti: “L’inglese maccheronico degli italiani”, titola uno sferzante articoletto oggi. Che così comincia: “Incubi linguistici per top manager moderni. Che nonostante un ruolo e un trend de vie da frequent flyer…”. Da incubo. Per i troppi solecismi, il genere “ne so di più”. E quel “trend de vie” che, oltre che incomprensibile, conferma la scomparsa del francese (il désert, il dépliant, etc,) e, effettivamente, la scarsa conoscenza dell’inglese, malgrado la supponenza (“trend de vie” sta per il francese “train de vie”, stile di vita). La cui corretta pronuncia il settimanale poi così impone: MI-nĐt per minute.... Quando invece gli inglesi non sono (più) spocchiosi.
La lingua dell’impero – dell’Occidente? - è da tempo la lingua franca del mondo, compresi i latini e l’ex terzo mondo. Piena quindi di incrostazioni varie, curvature, derive, di lessico, di grammatica e naturalmente di pronuncia. Più povera e più ricca insieme di senso rispetto all’inglese oxoniano, accademico. La pronuncia in particolare è fortemente sregolata. Si prenda l’inglese degli scienziati, che da più tempo lo praticano come lingua comune: quello dei giapponesi, o dei russi, è quasi un gergo (il sonoro, non lo scritto). O quello dei sudamericani, dei filippini, degli indiani e asiatici in genere, degli africani. Di maccheronico ci sono solo i puristi.
Proverbi – “Ricordati, tadduni, quand’eri sarmentu”, è uno dei tanti proverbi con cui la baronessa Agnello anima i suoi libri – in particolare “La zia marchesa”: ricordati ciocco (tronco, ceppo) quand’eri pollone. Che cosa vuole dire? Niente. La maggior parte dei proverbi non vogliono dire niente: non significano, tantomeno un’etica o una saggezza.
La saggezza popolare cui si richiamano i primi folkloristi, raccoglitori di proverbi e idiotismi, li ha traditi trasformandosi in politica, ideologica, di classe o di partito. Tutte realtà che non c’entrano con la saggezza.
Sherlock Holmes - Letto in chiave comica è di una sicurezza rinfrancante. Non propriamente comica, non si ride, ma ironica. Sottilmente canzonatoria nei riguardi della “realtà”. Che è una, ma fra le tante. È il segreto anche di padre Brown, e delle altre storie a sorpresa di G.K.Chesterston.
È in questa chiave che il giallo di Conan Doyle è sempre una storia dell’inverosimile: Sherlock Holmes immagina, inventa, ribalta, accelera, anticipa, con una sua figurativa consequenzialità, non ancora a nessuna verosimiglianza, anzi sfidandola. La sorpresa per la sorpresa, di cui è il domatore.
Lo Sherlock Holmes di Mark Twain “è capace di scoprire un delitto solo se prima ha preparato un piano, classificato i suoi argomenti e accumulato le prove”. Il “paradigma indiziario” è tipicamente una forma di logica deduttiva, o di ragionamento per formule logiche, che fa riferimento a indizi esterni. È circostanziale, cioè non potrebbe essere un paradigma.
Quando si dice delle storie di Sherlock Holmes (o meglio della detective story all’inglese, o alla Agatha Christie): “Indovinate il colpevole dall’errore che ha commesso”, in realtà si fa riferimento a un errore “paradigmatico”, scelto cioè dall’autore per farvi ruotare attorno l’enigma e la sua storia. Di “errori” in realtà il colpevole potrebbe averne commessi a diecine, anche nelle sue azioni o manifestazioni buone, oltre che in quelle cattive, se volessimo far riferimento a una storia circostanziale. In più della buona o della malvagia volontà, c’è l’incidente, la malattia, la costrizione, un insieme incredibilmente vasto di possibilità. Ed è ciò che fa la storia aperta alla Hammett, o noir.
letterautore@antiit.eu
Camilleri - Il segreto della speciale lingua di Camilleri è duplice. È il vocabolario limitato, una lingua semplice. In bocca a personaggi fortemente connotati e immutabili – il vecchio procedimento della commedia dell’arte: le parole a volte astruse per gli stessi parlanti siculo-calabresi sono ripetitive e connotative – ogni personaggio ha i suoi “nomi”. La serie dei “Montalbano” è un piccolo villaggio (gruppo, comunità), con ticchi noti. Un teatro. Dai modi noti e attesi, il teatro dell’arte. In cui indefettibilmente tutti fanno sempre e dicono le stesse cose: un teatro di maschere.
È l’uso anche di un dialetto che non è dialetto, che altrimenti lo renderebbe incomprensibile: è una lingua che usa sonorità e terminazioni dialettali in una costruzione e in un contesto italiani. Che è la lingua parlata al Sud dai borghesi – professionisti, proprietari, gente d’affari (quelli del “circolo”, luogo caro a Camilleri, non necessariamente de nobili o dei borghesi, anche degli sfaticati e perfino dei “compagni”).
Dialetto – Camilleri spiega la sua speciale lingua rifacendosi a Pirandello, che “traduceva”, dice, dal dialetto. E ogni personaggio caratterizzava socialmente. Ma Pirandello non traduceva, parlava (pensava) agrigentino. Anche quando, il più delle volte, non lo scriveva: la lingua è una forma mentis. E quando scriveva caratterizzava, a volte anche socialmente, ogni parlante – si fa così in teatro da Molière in poi, comprese le rappresentazioni metafisiche. Lo fa anche nei racconti, che sono teatro raccontato (facilmente adattabili alla scena). Ma non “adattava” il dialetto, come invece fa Camilleri.
In realtà l’ordine espresso dal dialetto è già un ordine sociale: è anzitutto parlato, e si adatta alla classe, alla campagna, alla città, al quartiere (solo a Roma ci sono almeno quattro dialetti: a Trastevere e San Lorenzo, al Flaminio-Parioli, a San Basilio-Tiburtino Terzo, e uno bastardo nelle aree a forte concentrazione d’immigrati abruzzesi o calabresi), alla zona geografica, alla professione. È cioè, in letteratura, borghese: il dialetto articola la rappresentazione che un borghese si fa della realtà, compresi gli interstizi, derisori, in italiano – fino all’autoironia, certo.
Analogamente il romanesco di borgata in Pasolini, fricchettone, e ora già inespressivo, rispetto a quello letterario (che Pasolini conosceva meglio di ogni altro). O il romanesco di Gadda, che è la lingua (il punto di vista) del Flaminio-Parioli – adattabile a San Giovanni (Merulana), ma sempre tra i professionisti, compresi gli impiegati di concetto e le loro mogli.
Il dialetto è una lingua sociale – non nazionale, neppure nel senso (nei limiti) della tribù, della ragione. E umorale (teatrale). E la fazione prevalente dei suoi umori è di tipo classista.
Giallo - I complotti piacciono. Per la natura del complotto, che si costruisce come un giallo - spiega cioè ogni cosa senza che essa debba essere vera. Una corrente di pensiero vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni forma logica: discenderebbe dalla necessità di causa ed effetto. Heisenberg ce ne vorrebbe privare, così presto - è appena un secolo, un secolo e mezzo contando Poe, che l’umanità si gode il giallo e i piaceri della logica. Ma questo è il difetto dell’epagoge, inductio, che abbisogna di una gran quantità di cose per porre il principio logico, o universale. Quante devono essere queste cose? E la conclusione si può sempre rovesciare. Si può immaginare un giallo fatto di deduzioni e controdeduzioni, che vadano avanti per duecento pagine, quanto il giallo dev’essere lungo. Oppure di un monte di fatti cui si contrappone un altro monte di fatti. Questo è stato fatto spesso in letteratura, il volgare “visto dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, per quanto forbita, onorevole e anzi è fastidiosa. Ne era maestro Socrate, di cui gli ateniesi si liberarono con sollievo. L’apagoge è l’abduzione, la tecnica per cui si assume la tesi dell’interlocutore per vera, ma poi, unendola a qualche altra proposizione nota come vera, se ne trae una conclusione palesemente falsa, in quanto contraddice la natura delle cose (argomento ad rem), oppure le altre affermazioni dell’interlocutore (argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne sia maestro, e invece è simpatico perché le evita.
Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano la realtà e la storia. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte. Con le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nell’alchimia del potere, che si vuole arcano per quanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è ottimo esercizio d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene. La logica, compresa del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa già la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare. Non ci vuole mica molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, coi tiranti, le redini, la frusta, annunciata, prevista, spiegata perfino. Il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è anche il regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi montati dalla polizia. Però sono manifesti.
Inglese – “Sette”, la rivista del “Corriere della sera”, insegna l’inglese corretto agli italiani ignoranti: “L’inglese maccheronico degli italiani”, titola uno sferzante articoletto oggi. Che così comincia: “Incubi linguistici per top manager moderni. Che nonostante un ruolo e un trend de vie da frequent flyer…”. Da incubo. Per i troppi solecismi, il genere “ne so di più”. E quel “trend de vie” che, oltre che incomprensibile, conferma la scomparsa del francese (il désert, il dépliant, etc,) e, effettivamente, la scarsa conoscenza dell’inglese, malgrado la supponenza (“trend de vie” sta per il francese “train de vie”, stile di vita). La cui corretta pronuncia il settimanale poi così impone: MI-nĐt per minute.... Quando invece gli inglesi non sono (più) spocchiosi.
La lingua dell’impero – dell’Occidente? - è da tempo la lingua franca del mondo, compresi i latini e l’ex terzo mondo. Piena quindi di incrostazioni varie, curvature, derive, di lessico, di grammatica e naturalmente di pronuncia. Più povera e più ricca insieme di senso rispetto all’inglese oxoniano, accademico. La pronuncia in particolare è fortemente sregolata. Si prenda l’inglese degli scienziati, che da più tempo lo praticano come lingua comune: quello dei giapponesi, o dei russi, è quasi un gergo (il sonoro, non lo scritto). O quello dei sudamericani, dei filippini, degli indiani e asiatici in genere, degli africani. Di maccheronico ci sono solo i puristi.
Proverbi – “Ricordati, tadduni, quand’eri sarmentu”, è uno dei tanti proverbi con cui la baronessa Agnello anima i suoi libri – in particolare “La zia marchesa”: ricordati ciocco (tronco, ceppo) quand’eri pollone. Che cosa vuole dire? Niente. La maggior parte dei proverbi non vogliono dire niente: non significano, tantomeno un’etica o una saggezza.
La saggezza popolare cui si richiamano i primi folkloristi, raccoglitori di proverbi e idiotismi, li ha traditi trasformandosi in politica, ideologica, di classe o di partito. Tutte realtà che non c’entrano con la saggezza.
Sherlock Holmes - Letto in chiave comica è di una sicurezza rinfrancante. Non propriamente comica, non si ride, ma ironica. Sottilmente canzonatoria nei riguardi della “realtà”. Che è una, ma fra le tante. È il segreto anche di padre Brown, e delle altre storie a sorpresa di G.K.Chesterston.
È in questa chiave che il giallo di Conan Doyle è sempre una storia dell’inverosimile: Sherlock Holmes immagina, inventa, ribalta, accelera, anticipa, con una sua figurativa consequenzialità, non ancora a nessuna verosimiglianza, anzi sfidandola. La sorpresa per la sorpresa, di cui è il domatore.
Lo Sherlock Holmes di Mark Twain “è capace di scoprire un delitto solo se prima ha preparato un piano, classificato i suoi argomenti e accumulato le prove”. Il “paradigma indiziario” è tipicamente una forma di logica deduttiva, o di ragionamento per formule logiche, che fa riferimento a indizi esterni. È circostanziale, cioè non potrebbe essere un paradigma.
Quando si dice delle storie di Sherlock Holmes (o meglio della detective story all’inglese, o alla Agatha Christie): “Indovinate il colpevole dall’errore che ha commesso”, in realtà si fa riferimento a un errore “paradigmatico”, scelto cioè dall’autore per farvi ruotare attorno l’enigma e la sua storia. Di “errori” in realtà il colpevole potrebbe averne commessi a diecine, anche nelle sue azioni o manifestazioni buone, oltre che in quelle cattive, se volessimo far riferimento a una storia circostanziale. In più della buona o della malvagia volontà, c’è l’incidente, la malattia, la costrizione, un insieme incredibilmente vasto di possibilità. Ed è ciò che fa la storia aperta alla Hammett, o noir.
letterautore@antiit.eu
Gor'kij è un altro
È la prima proposta di un nuovissimo Gor’kij, postsovietico. Per ora senza seguito. A opera della russista Erica Klein, che in poche sapide pagine propone un convincente “altro” Gor'kij, ben diverso da quello dell’oleografia sovietica, e si avvale di una traduzione, a opera di Emanuela Guercetti, che fa di Gor'kij un grande scrittore, che si legge ancora come nuovo: passato alla storia come pilastro del sovietismo, è anche personaggio molto poco conformista.
È vero che a lui è toccato l’onore di tenere a battesimo il “realismo socialista”, al primo congresso degli scrittori sovietici, nel 1934, di cui fu presidente onorario per augusta decisione di Stalin. Ma era lo stesso anno in cui l’amatissimo figlio Max moriva in circostanze misteriose. Gor'kij conosceva dall’interno, prima e meglio di ogni altro, le tortuosità del potere sovietico.
È anche il protagonista di una biografia rifatta. Due volte: nella seconda è il prototipo della storia dell’Enciclopedia Sovietica. Nella prima, di cui questo “Infanzia” è il primo tassello (cui seguono “Tra le gente” e “Le mie università”), è il creatore di una fanciullezza tanto straordinaria da sembrare inventata, alla Dickens, alla Mark Twain, molto colorata nel senso dell’avventura, sebbene da povero tra i poveri, abbandonato, senza istruzione, eccetera. Ed è invece il racconto veridico della sua propria infanzia, coi nomi propri, a patire dal proprio, Aleksej Peškov. Nei cinque anni che visse a Nižnij, col nonno Kaširin. Nell’obbrobrio – la stupidità, l’ubriachezza, la sporcizia, le nerbate per i bambini. E la impensabile antropologia della Russia rurale ancora viva alla vigilia della guerra e della rivoluzione, con la prospettiva rovesciata, vista dal bambino (il buon selvaggio, il primitivo).
Maksim Gor'kij, Infanzia, Bur, pp. 301, € 10
È vero che a lui è toccato l’onore di tenere a battesimo il “realismo socialista”, al primo congresso degli scrittori sovietici, nel 1934, di cui fu presidente onorario per augusta decisione di Stalin. Ma era lo stesso anno in cui l’amatissimo figlio Max moriva in circostanze misteriose. Gor'kij conosceva dall’interno, prima e meglio di ogni altro, le tortuosità del potere sovietico.
È anche il protagonista di una biografia rifatta. Due volte: nella seconda è il prototipo della storia dell’Enciclopedia Sovietica. Nella prima, di cui questo “Infanzia” è il primo tassello (cui seguono “Tra le gente” e “Le mie università”), è il creatore di una fanciullezza tanto straordinaria da sembrare inventata, alla Dickens, alla Mark Twain, molto colorata nel senso dell’avventura, sebbene da povero tra i poveri, abbandonato, senza istruzione, eccetera. Ed è invece il racconto veridico della sua propria infanzia, coi nomi propri, a patire dal proprio, Aleksej Peškov. Nei cinque anni che visse a Nižnij, col nonno Kaširin. Nell’obbrobrio – la stupidità, l’ubriachezza, la sporcizia, le nerbate per i bambini. E la impensabile antropologia della Russia rurale ancora viva alla vigilia della guerra e della rivoluzione, con la prospettiva rovesciata, vista dal bambino (il buon selvaggio, il primitivo).
Maksim Gor'kij, Infanzia, Bur, pp. 301, € 10
mercoledì 29 giugno 2011
Secondi pensieri - 72
zeulig
Creazione - Ferma il tempo, lo fissa – quella dello spirito o dell’arte. Pirandello (“Quando manca la data di morte”): per l’opera dello spirito “l’esser viva da molto tempo non significa esser molto vecchi, cioè più prossima a morir, ma al contrario”.
Dio – Per Campanella (“Realis philosophia”) è “Seminatore, dell’Esistenza, del potere, della Conoscenza e dell’Amore”. Meno di un Creatore, dunque. Ma in questi tempi vuoti è molto. Una figura simpatica, ecologica – ecocompatibile?
Giustizia - Di giudici John Le Carré dice, in morte del padre (“Sunday Times”, 16 marzo 1986), che hanno presa su un certo tipo di donna, di quelle che scrivono lettere, anche sconvenienti.
Logica – Si può dirla agente doppio del fantastico, dell’insolito . Del reale, invece che dell’ideale. Il romanzo giallo se ne avvale per questo.
Massa, Cultura di – Ha sempre avuto un connotato spregiativo, fin dall’insorgere, come cultura elaborata e proposta dai mezzi di comunicazione di massa, giornali, televisione, cinema, spettacolo. Adorno e la scuola sociologica di Francoforte ne hanno, in questa accezione, fatto il tramite d’eccellenza per il controllo politico e sociale. In Italia l’accezione è diversa, più positiva che negativa, per cultura di massa intendendosi solitamente quella popolare. Un’accezione equivoca, poiché è la cultura di massa – dei mass media – che erode e svuota la cultura popolare. Più di ogni altro fattore omologante, standardizzante: la modernizzazione, l’urbanizzazione, lo sradicamento. Una cultura alta può circonvenire la cultura di massa, una cultura popolare è senza difese.
Non è altro che una cultura del mercato, o di consumo – dei non luoghi, della pubblicità. È in questo senso l’inveramento dell’uomo massa e della società di massa di Nietzsche, uomo massa, società di massa. Ma la società di massa è la società del welfare, del benessere garantito. Senza scuola, sanità, pensione e casa garantite non è possibile la società di massa: urbanizzazioni accelerate e contingenti, produzioni di massa. Non è possibile neanche la società industriale?
Se arretra lo Stato sociale si disarticola la società di massa. E la società industriale. Altrimenti si produrrebbe un impoverimento generale e un disordine che renderebbero ugualmente perenta la società industriale, ordinata cioè e produttiva.
Alain Touraine, studioso della contemporaneità, ci vede naturalmente dei segni positivi. Per il non detto (che non vogliamo dire benché lo vediamo) della globalizzazione: che i quattro quinti dell’umanità finalmente sono usciti dal Terzo mondo.
Popolare – Sta per politico, ideologico, di classe, di partito, anche di fazione. È una deriva artificiosa, strumentale. Rispetto alla prima concezione del popolare, di Michelet per esempio, che lo accomuna a spontaneo, radicato nella tradizione e di largo seguito. La democrazia popolare non ne è stata la sola applicazione, anche la musica popolare e la poesia hanno lo stesso difetto: utilizzano ambiguamente connotazioni opposte al loro essere e al loro scopo.
Sostenibile – Sta per abbondanza, una negatività che va limitata. Si presenta e si presume il contrario, la possibilità di creare abbondanza che non sia distruttiva, un concetto quindi sano di abbondanza. Ma implica una serie di condizioni socialmente e produttivamente restrittive: di accessibilità (prezzo, distribuzione), di selettività (diversificazione costante, moltiplicazione dei consumi), di risorse (finanziarie, tecniche). Tanto più in quanto si pretende di consumo (utilizzo) illimitato privilegiato delle risorse esistenti (le fonti di energia cosiddette rinnovabili ne sono un esempio). A una sommatoria sarà – in parte lo è già – lo spreco dell’abbondanza – delle risorse esistenti.
Spreco – È il senso (la connotazione) delle società ricche negli ultimi quarant’anni: lo spreco delle risorse naturali, pubbliche e anche private. All’ideologia del risparmio e dell’investimento per il futuro (accrescimento, accumulo) è succeduta quella dei consumi, o del tutto subito: sfruttamento illimitato dell’ambiente, sfruttamento illimitato dei beni sociali (sanità, previdenza, assistenza). La stessa ideologia sta dietro la sostenibilità o l’ecocompatibilità: nei fatti è un consumo libero (giustificato, come quello degli anni Settanta e Ottanta, presuntuoso) spostato sui beni immateriali (l’opinione pubblica) e, di nuovo, sociali o statali (la spesa pubblica).
Stupidità – È sovrana perché nessuno può permettersi d’identificarla – tanto meno sanzionarla. Per questo finisce anche vincente, sempre.
zeulig@antiit.eu
Creazione - Ferma il tempo, lo fissa – quella dello spirito o dell’arte. Pirandello (“Quando manca la data di morte”): per l’opera dello spirito “l’esser viva da molto tempo non significa esser molto vecchi, cioè più prossima a morir, ma al contrario”.
Dio – Per Campanella (“Realis philosophia”) è “Seminatore, dell’Esistenza, del potere, della Conoscenza e dell’Amore”. Meno di un Creatore, dunque. Ma in questi tempi vuoti è molto. Una figura simpatica, ecologica – ecocompatibile?
Giustizia - Di giudici John Le Carré dice, in morte del padre (“Sunday Times”, 16 marzo 1986), che hanno presa su un certo tipo di donna, di quelle che scrivono lettere, anche sconvenienti.
Logica – Si può dirla agente doppio del fantastico, dell’insolito . Del reale, invece che dell’ideale. Il romanzo giallo se ne avvale per questo.
Massa, Cultura di – Ha sempre avuto un connotato spregiativo, fin dall’insorgere, come cultura elaborata e proposta dai mezzi di comunicazione di massa, giornali, televisione, cinema, spettacolo. Adorno e la scuola sociologica di Francoforte ne hanno, in questa accezione, fatto il tramite d’eccellenza per il controllo politico e sociale. In Italia l’accezione è diversa, più positiva che negativa, per cultura di massa intendendosi solitamente quella popolare. Un’accezione equivoca, poiché è la cultura di massa – dei mass media – che erode e svuota la cultura popolare. Più di ogni altro fattore omologante, standardizzante: la modernizzazione, l’urbanizzazione, lo sradicamento. Una cultura alta può circonvenire la cultura di massa, una cultura popolare è senza difese.
Non è altro che una cultura del mercato, o di consumo – dei non luoghi, della pubblicità. È in questo senso l’inveramento dell’uomo massa e della società di massa di Nietzsche, uomo massa, società di massa. Ma la società di massa è la società del welfare, del benessere garantito. Senza scuola, sanità, pensione e casa garantite non è possibile la società di massa: urbanizzazioni accelerate e contingenti, produzioni di massa. Non è possibile neanche la società industriale?
Se arretra lo Stato sociale si disarticola la società di massa. E la società industriale. Altrimenti si produrrebbe un impoverimento generale e un disordine che renderebbero ugualmente perenta la società industriale, ordinata cioè e produttiva.
Alain Touraine, studioso della contemporaneità, ci vede naturalmente dei segni positivi. Per il non detto (che non vogliamo dire benché lo vediamo) della globalizzazione: che i quattro quinti dell’umanità finalmente sono usciti dal Terzo mondo.
Popolare – Sta per politico, ideologico, di classe, di partito, anche di fazione. È una deriva artificiosa, strumentale. Rispetto alla prima concezione del popolare, di Michelet per esempio, che lo accomuna a spontaneo, radicato nella tradizione e di largo seguito. La democrazia popolare non ne è stata la sola applicazione, anche la musica popolare e la poesia hanno lo stesso difetto: utilizzano ambiguamente connotazioni opposte al loro essere e al loro scopo.
Sostenibile – Sta per abbondanza, una negatività che va limitata. Si presenta e si presume il contrario, la possibilità di creare abbondanza che non sia distruttiva, un concetto quindi sano di abbondanza. Ma implica una serie di condizioni socialmente e produttivamente restrittive: di accessibilità (prezzo, distribuzione), di selettività (diversificazione costante, moltiplicazione dei consumi), di risorse (finanziarie, tecniche). Tanto più in quanto si pretende di consumo (utilizzo) illimitato privilegiato delle risorse esistenti (le fonti di energia cosiddette rinnovabili ne sono un esempio). A una sommatoria sarà – in parte lo è già – lo spreco dell’abbondanza – delle risorse esistenti.
Spreco – È il senso (la connotazione) delle società ricche negli ultimi quarant’anni: lo spreco delle risorse naturali, pubbliche e anche private. All’ideologia del risparmio e dell’investimento per il futuro (accrescimento, accumulo) è succeduta quella dei consumi, o del tutto subito: sfruttamento illimitato dell’ambiente, sfruttamento illimitato dei beni sociali (sanità, previdenza, assistenza). La stessa ideologia sta dietro la sostenibilità o l’ecocompatibilità: nei fatti è un consumo libero (giustificato, come quello degli anni Settanta e Ottanta, presuntuoso) spostato sui beni immateriali (l’opinione pubblica) e, di nuovo, sociali o statali (la spesa pubblica).
Stupidità – È sovrana perché nessuno può permettersi d’identificarla – tanto meno sanzionarla. Per questo finisce anche vincente, sempre.
zeulig@antiit.eu
Il giornalismo del caro-acqua
“Com’era facile prevedere, il secondo referendum sull’acqua, che cancella la norma del 2006 sulla remunerazione del capitale investito nella misura massima del 7 per cento, viene serenamente aggirato dalla prima azienda pubblica italiana del settore, l’Acquedotto Pugliese”, segnala “serenamente” Massimo Mucchetti sul “Corriere della sera”.
Abbiamo votato al referendum per togliere il cap del rendimento massimo 7 per cento delle tariffe per l’acqua, e ancora non lo sappiamo. Vendola sì, che ha promosso il referendum, e si affretta a trarne beneficio: l’Acquedotto Pugliese praticherà liberamente tariffe che consentano una remunerazione superiore (anche perché bisognerà remunerare Merrill Lynch e le altre banche che hanno sottoscritto obbligazioni dell’Acquedotto al 7 per cento e più). L’equivoco in cui sono stati indotti gli entusiasti del sì è perfino grossolano: in nome del bene naturale inalienabile abbiamo votato per pagare alti interessi alle banche, e per sovvenzionare politici famelici.
Si discute se non è cominciato un nuovo ciclo politico, non più favorevole a Berlusconi, dopo la sconfitta a Milano e nei referendum. Oggi come nel 1974 e il referendum sul divorzio, cui seguirono le regionali del 1975 e le politiche del 1976 che registrarono il boom del Pci, a un voto sotto la maggioranza relativa. Una valanga allora – poi gestita da Berlinguer col grottesco compromesso storico di Andrettoi, dei governicchi senza senso nella peggiore crisi finanziaria e politica dell’Italia, e conclusa nel 1979 con la prima sconfitta elettorale del Pci nel lungo dopoguerra.
È possibile che un nuovo ciclo politico sia cominciato per quanto riguarda Milano. Per il referendum abbiamo perso noi. Quelli che paghiamo l’acqua e, di più, quelli che leggiamo i giornali e votiamo con cognizione di causa: i referendum sono stati un tranello teso all’opinione pubblica da chi di quell’opinione si erge a vestale e difensore, i giornali. Con i banchieri loro padroni, e i giornalisti loro gregari. Non ci sono giornali onesti, si sa (la segnalazione di Mucchetti viene “nascosta” nei commenti di Borsa, di nessun interesse per i lettori di quella rubrica dato che l’Acquedotto Pugliese è orgogliosamente proprietà di Vendola), ma in questo caso si è abbattuto ogni record negativo.
Per un interesse politico? È dubbio, non ci sono giornali, compresa “l’Unità” e forse “il Manifesto”, a favore della proprietà pubblica delle aziende di servizi. Per fare uno sgambetto a Berlusconi, trascinando al voto gli italiani con la scusa dell’acqua per votare contro il legittimo impedimento? Ma è evidente che Berlusconi ci sguazza, in queste cose di “giustizia”. No, hanno taciuto perché è interesse delle banche avere enti locali avidi, grandi prenditori, e comunque pagatori garantiti, in ultima ratio dal Tesoro. Una verità estremamente squallida, ma non ce n’è altra.
Si dirà questa l’epoca della dittatura dei media. In politica, nel costume, negli affari, perfino nella guerra. Avendo subornato o “incravattato” l’opinione pubblica: non ce n’è altra all’infuori dei talk-show, dei giornali, del gossip, delle intercettazioni. Giornalisti insegnano all’università, non soltanto il karaoke. Insegnano il civismo, nuova disciplina – il civismo del pettegolezzo? La Costituzione “materiale”, e perfino l’inno di Mameli.Insegnano pure nelle scuole di scrittura, perché il tutto si tiene. E si vede.
Abbiamo votato al referendum per togliere il cap del rendimento massimo 7 per cento delle tariffe per l’acqua, e ancora non lo sappiamo. Vendola sì, che ha promosso il referendum, e si affretta a trarne beneficio: l’Acquedotto Pugliese praticherà liberamente tariffe che consentano una remunerazione superiore (anche perché bisognerà remunerare Merrill Lynch e le altre banche che hanno sottoscritto obbligazioni dell’Acquedotto al 7 per cento e più). L’equivoco in cui sono stati indotti gli entusiasti del sì è perfino grossolano: in nome del bene naturale inalienabile abbiamo votato per pagare alti interessi alle banche, e per sovvenzionare politici famelici.
Si discute se non è cominciato un nuovo ciclo politico, non più favorevole a Berlusconi, dopo la sconfitta a Milano e nei referendum. Oggi come nel 1974 e il referendum sul divorzio, cui seguirono le regionali del 1975 e le politiche del 1976 che registrarono il boom del Pci, a un voto sotto la maggioranza relativa. Una valanga allora – poi gestita da Berlinguer col grottesco compromesso storico di Andrettoi, dei governicchi senza senso nella peggiore crisi finanziaria e politica dell’Italia, e conclusa nel 1979 con la prima sconfitta elettorale del Pci nel lungo dopoguerra.
È possibile che un nuovo ciclo politico sia cominciato per quanto riguarda Milano. Per il referendum abbiamo perso noi. Quelli che paghiamo l’acqua e, di più, quelli che leggiamo i giornali e votiamo con cognizione di causa: i referendum sono stati un tranello teso all’opinione pubblica da chi di quell’opinione si erge a vestale e difensore, i giornali. Con i banchieri loro padroni, e i giornalisti loro gregari. Non ci sono giornali onesti, si sa (la segnalazione di Mucchetti viene “nascosta” nei commenti di Borsa, di nessun interesse per i lettori di quella rubrica dato che l’Acquedotto Pugliese è orgogliosamente proprietà di Vendola), ma in questo caso si è abbattuto ogni record negativo.
Per un interesse politico? È dubbio, non ci sono giornali, compresa “l’Unità” e forse “il Manifesto”, a favore della proprietà pubblica delle aziende di servizi. Per fare uno sgambetto a Berlusconi, trascinando al voto gli italiani con la scusa dell’acqua per votare contro il legittimo impedimento? Ma è evidente che Berlusconi ci sguazza, in queste cose di “giustizia”. No, hanno taciuto perché è interesse delle banche avere enti locali avidi, grandi prenditori, e comunque pagatori garantiti, in ultima ratio dal Tesoro. Una verità estremamente squallida, ma non ce n’è altra.
Si dirà questa l’epoca della dittatura dei media. In politica, nel costume, negli affari, perfino nella guerra. Avendo subornato o “incravattato” l’opinione pubblica: non ce n’è altra all’infuori dei talk-show, dei giornali, del gossip, delle intercettazioni. Giornalisti insegnano all’università, non soltanto il karaoke. Insegnano il civismo, nuova disciplina – il civismo del pettegolezzo? La Costituzione “materiale”, e perfino l’inno di Mameli.Insegnano pure nelle scuole di scrittura, perché il tutto si tiene. E si vede.
martedì 28 giugno 2011
Pirandello sconosciuto
Pirandello a Parigi. Sembra tutto detto e invece era un altro. Non tanto lui quanto il mondo cui si era legato per più fili, quello di Guido Torre Gherson, ex ufficiale dell’esercito, “massone del Re” e per questo osteggiato dal fascismo, tenutario di bordelli, impresario di ogni genere di teatro e più dell’avanspettacolo e dello spogliarello, musicista, in proprio e con Luigi Russolo, occultista, guaritore, gestore a Parigi di un Circolo della Massoneria, e per otto anni, fino alla morte di Pirandello, suo agente per il mercato angloamericano. Una maschera più che un essere reale, a tratti ubuesca, a tratti inquietante – si voleva in lotta all’ultimo sangue con Logge a lui avverse, e si difendeva prendendo più nomi, travestendosi, nascondendosi (ma sempre viaggiando nei migliori alberghi).
Un personaggio che sembra inventato, questo “ebreaccio” un po’ troppo grasso. Che ebbe il potere di far ridere e insieme irritare Pirandello, che così lo apostrofò talvolta nelle sue lettere inappetenti a Marta Abba, la leonessa fulva. Torre catturò Pirandello nel 1928 alla rappresentazione parigina della “Traviata” che segnò il debutto di Margherita Carosio, allora ventenne, introdotto dai fratelli Isola, due oriundi italiani impresari di teatro leggero che sembrano anche loro inventati. Torre abbordò Pirandello in compagnia di una contessa di Lunelle, detta anche Talc-d’Azur, ex spogliarellista regina del Mogador, il locale officiato dagli Isola. Che sarà la sua compagna per tutti gli anni del rapporto con Pirandello, e poi si dileguerà, dopo i Fronti Popolari del 1936, essendo una probabile – a giudizio del Torre – spia sovietica (e Torre di chi era spia, tra gli emigrati a Parigi, con quella biografia così inventata? facile indovinello).
Anche il Mogador ha una storia che ben figurerebbe nel fogliettone Torre-Pirandello. Il nome è di una località del Marocco, di cui il romanzo “La gioia del giorno” dà succose coordinate: “Nel 1844 il principe di Joinville vi aveva sconfitto il sultano del Marocco. Dalla vittoria prese il nome d’arte Céleste Vénard, che debuttava quindicenne nel bordello di Musset a Parigi, poi ella stessa poetessa e scrittrice di fama, Céleste Mogador, contessa di Chabrillan, che sarà con Garibaldi madrina di un figlio non riconosciuto di Dumas. Essendo stata il centro della porpora per i romani, da cui le isole Porporarie, e piazza portoghese nell’Atlantico meridionale, piazza di schiavi, l’aria di decadenza vi è connaturata. A Mogador il sultano del Marocco sognò il suo Risorgimento e la rifece col nome Essauira, la ben disegnata”.
Pirandello non mancava di contatti diretti con i migliori editori angloamericani e i maggiori impresari teatrali e produttori di cinema, ma Torre seppe prospettargli lucrosi contratti, e anche fargli effettivamente guadagnare qualcosa. In particolare, con Torre nelle vesti di musicista, “Gad Gherson”, e del jazzista Jack Berls, Pirandello mise a punto una commedia musicale, in francese e in inglese, impresaria in America una traduttrice e adattatrice che Torre si era inventata, Irma Bachrach, da cui si aspettava grandi cose. Il titolo è “C’est ainsi” o “Just like that”. Di essa si era saputo finora pochissimo, e invece esiste, quasi a stampa, lasciata in eredità al nipote Paron dallo stesso Torre. Con tanti altri inediti di Pirandello, e un altro musical inedito degli stessi Gherson-Berls, “Rudy”, su Rodolfo Valentino. Delle cose di Pirandello Torre non riusciva ad andare oltre le bozze di copertina, fantasiose bisogna dire, colorate.
Il libro si legge come un’invenzione – un falso letterario (costruito però con ingenuità). Mentre i testi, i progetti, i personaggi e gli eventi narrati sono documentati e reali, e non marginali nella vicenda di Pirandello. Come dire che di lui sappiamo sempre poco, il muso della censura è ancora in funzione.
Paron racconta lo zio. Pedersoli illustra l’archivio da Paron ereditato. E in appendice lega l’esperienza del mondo di guitti e maghi che attorniava Torre a Parigi con la genesi dei “Giganti della montagna”, nel soggetto e nei personaggi, uno per uno, il poeta Cotrone, la C0ntessa etc. Non escluso un sorprendente ribellismo politico di un Pirandello reduce dalla censura in Germania per “Questa sera si recita a soggetto”, e dal fallimento in Italia col Teatro dell’Arte: i nomi delle due famiglie imbarbarite, i Buronzo e gli Arluffi, echeggerebbero l’ira contro Benito e Adolfo.
Giuseppe Paron, Giacomo Sebastiano Pedersoli, Un amico di Pirandello, Edizioni Fondo Torre Gherson, pp. 224 €15
Un personaggio che sembra inventato, questo “ebreaccio” un po’ troppo grasso. Che ebbe il potere di far ridere e insieme irritare Pirandello, che così lo apostrofò talvolta nelle sue lettere inappetenti a Marta Abba, la leonessa fulva. Torre catturò Pirandello nel 1928 alla rappresentazione parigina della “Traviata” che segnò il debutto di Margherita Carosio, allora ventenne, introdotto dai fratelli Isola, due oriundi italiani impresari di teatro leggero che sembrano anche loro inventati. Torre abbordò Pirandello in compagnia di una contessa di Lunelle, detta anche Talc-d’Azur, ex spogliarellista regina del Mogador, il locale officiato dagli Isola. Che sarà la sua compagna per tutti gli anni del rapporto con Pirandello, e poi si dileguerà, dopo i Fronti Popolari del 1936, essendo una probabile – a giudizio del Torre – spia sovietica (e Torre di chi era spia, tra gli emigrati a Parigi, con quella biografia così inventata? facile indovinello).
Anche il Mogador ha una storia che ben figurerebbe nel fogliettone Torre-Pirandello. Il nome è di una località del Marocco, di cui il romanzo “La gioia del giorno” dà succose coordinate: “Nel 1844 il principe di Joinville vi aveva sconfitto il sultano del Marocco. Dalla vittoria prese il nome d’arte Céleste Vénard, che debuttava quindicenne nel bordello di Musset a Parigi, poi ella stessa poetessa e scrittrice di fama, Céleste Mogador, contessa di Chabrillan, che sarà con Garibaldi madrina di un figlio non riconosciuto di Dumas. Essendo stata il centro della porpora per i romani, da cui le isole Porporarie, e piazza portoghese nell’Atlantico meridionale, piazza di schiavi, l’aria di decadenza vi è connaturata. A Mogador il sultano del Marocco sognò il suo Risorgimento e la rifece col nome Essauira, la ben disegnata”.
Pirandello non mancava di contatti diretti con i migliori editori angloamericani e i maggiori impresari teatrali e produttori di cinema, ma Torre seppe prospettargli lucrosi contratti, e anche fargli effettivamente guadagnare qualcosa. In particolare, con Torre nelle vesti di musicista, “Gad Gherson”, e del jazzista Jack Berls, Pirandello mise a punto una commedia musicale, in francese e in inglese, impresaria in America una traduttrice e adattatrice che Torre si era inventata, Irma Bachrach, da cui si aspettava grandi cose. Il titolo è “C’est ainsi” o “Just like that”. Di essa si era saputo finora pochissimo, e invece esiste, quasi a stampa, lasciata in eredità al nipote Paron dallo stesso Torre. Con tanti altri inediti di Pirandello, e un altro musical inedito degli stessi Gherson-Berls, “Rudy”, su Rodolfo Valentino. Delle cose di Pirandello Torre non riusciva ad andare oltre le bozze di copertina, fantasiose bisogna dire, colorate.
Il libro si legge come un’invenzione – un falso letterario (costruito però con ingenuità). Mentre i testi, i progetti, i personaggi e gli eventi narrati sono documentati e reali, e non marginali nella vicenda di Pirandello. Come dire che di lui sappiamo sempre poco, il muso della censura è ancora in funzione.
Paron racconta lo zio. Pedersoli illustra l’archivio da Paron ereditato. E in appendice lega l’esperienza del mondo di guitti e maghi che attorniava Torre a Parigi con la genesi dei “Giganti della montagna”, nel soggetto e nei personaggi, uno per uno, il poeta Cotrone, la C0ntessa etc. Non escluso un sorprendente ribellismo politico di un Pirandello reduce dalla censura in Germania per “Questa sera si recita a soggetto”, e dal fallimento in Italia col Teatro dell’Arte: i nomi delle due famiglie imbarbarite, i Buronzo e gli Arluffi, echeggerebbero l’ira contro Benito e Adolfo.
Giuseppe Paron, Giacomo Sebastiano Pedersoli, Un amico di Pirandello, Edizioni Fondo Torre Gherson, pp. 224 €15
In Persia, per smettere di “vivere contro di sé”
Troppo ricca e viziata, troppo bella, troppo androgina, e ora si può dire troppo brava scrittrice per i suoi tempi, che la ritennero non meritevole di pubblicazione. Anche il suo alter ego Klaus Mann. Anche quando la raccomandava Thomas Mann. Si leggono questi racconti, recuperati e tradotti alcuni anni fa da Melania Mazzucco, che li situa con una corposa presentazione (tanto golosa, dotta, piena di sorprese, quanto singolarmente sgrammaticata) come se fossero nuovi e contemporanei, anche se risalgono agli anni 1930, e l’Oriente che ritraggono dovrebbe essere del tutto mutato. "Storie di esuli - alcuni volontari, altri controvoglia" (Mazzucco). Racconti secchi, al modo di Hemingway (allora al modo di Gertrude Stein). In una Persia dove smettere di “vivere contro di sé”.
Il raccontino “Tre giorni d'alba” (da intendere “Tre giorni all'alba”, secondo il “calendario” delle caserme e delle prigioni) è un formidabile ritratto dell’imperialismo stracione e del “lavoro italiano nel mondo”.
Annemarie Schwarzenbach, La gabbia dei falconi, Bur, pp.235, 8,80
Il raccontino “Tre giorni d'alba” (da intendere “Tre giorni all'alba”, secondo il “calendario” delle caserme e delle prigioni) è un formidabile ritratto dell’imperialismo stracione e del “lavoro italiano nel mondo”.
Annemarie Schwarzenbach, La gabbia dei falconi, Bur, pp.235, 8,80
lunedì 27 giugno 2011
Col Pci senza socialismo, caso unico in Europa
Si fa la scissione comunista nel gennaio 1921 a Livorno nell’ipotesi che l’Italia sia matura per la rivoluzione. Così dicono i compagni della terza Internazionale o Komintern, un’Internazionale già russificata, ben prima di Yalta, e così è. Gramsci e Bordiga animano la scissione “anche se”, dice Spriano, “sono tutt’altro che convinti che in Italia si sia alla vigilia di una rivoluzione”. Ma lo storico poi conferma, nel saggio centrale di questa raccolta “Sulla rivoluzione italiana”, le ragioni della scissione di Livorno – è il titolo del saggio stesso.
Il nodo centrale del socialismo mancato in italia, e della storia d’Italia nel Novecento (e della Germania), è la “scissione di Livorno”, la divisione dei socialisti in due partiti aspramente avversi. Che aprì la strada nazifascismo (in Germania molto dopo che in Italia perché i socialisti bene o male, dopo la Novemberrevolution, governavano). La divisione ha poi segnato i settant’anni del secondo dopoguerra, nell’irrilevanza politica dei due partiti, se non come gregari della Dc, fino alla loro obliterazione, caso unico in Europa (in Germania il secondo dopoguerra fu segnato dalla divisione, che praticamente annientò il partito Comunista, prima e dopo la riunificazione, riconducendo i socialisti a una sostanziale unità all’interno del partito Socialdemocratico).
Spriano certifica in questi saggi tutti i fenomeni deleteri legati alla scissione: la faziosità, il kominternismo (si può dire subordinazione a Mosca?), il frazionismo a catena. Ma non ne coglie il significato storico, la sterilizzazione politica del socialismo (eccetto che per alcune fasi del centro-sinistra - riconoscimento che però non si può pretendere da uno storico del Pci). Più che fare storia gli interessa dare ragione sempre e comunque al Partito. Si legge così retrospettivamente come un giornalista dell’“Unità”, naturalmente argomentato, un burocrate. Che non è colpa personale, l’uomo non era fazioso (nel successivo “Le passioni di un decennio (1946-1956” lui stesso riconoscerà questo limite), ma un dato politico – è l’essenza del togliattismo. Purtroppo perdurante, anche se di socialismo in Italia non c’è più neppure l’ombra, caso ancora unico in Europa.
Il progetto di Togliatti era semplice e non celato: monopolizzare la storia contemporanea. Che sembra eccessivo e anche ridicolo, ma così è stato, e anzi è – il controllo è se si può oggi più ferreo (gerarchico, totale) sull’“opinione pubblica”: media (basta vedere o ascoltare la Rai), editoria, scuola, giustizia. Rifare la storia, degli avvenimenti, dei personaggi, era specialità sovietica, già da Lenin e fino a Brezenev - di forte caratura, bisogna riconoscere (resta sempre da fare la storia del kominternismo, di Willi Münzeneberg, pure così appassionante).
Paolo Spriano, Sulla rivoluzione italiana
Il nodo centrale del socialismo mancato in italia, e della storia d’Italia nel Novecento (e della Germania), è la “scissione di Livorno”, la divisione dei socialisti in due partiti aspramente avversi. Che aprì la strada nazifascismo (in Germania molto dopo che in Italia perché i socialisti bene o male, dopo la Novemberrevolution, governavano). La divisione ha poi segnato i settant’anni del secondo dopoguerra, nell’irrilevanza politica dei due partiti, se non come gregari della Dc, fino alla loro obliterazione, caso unico in Europa (in Germania il secondo dopoguerra fu segnato dalla divisione, che praticamente annientò il partito Comunista, prima e dopo la riunificazione, riconducendo i socialisti a una sostanziale unità all’interno del partito Socialdemocratico).
Spriano certifica in questi saggi tutti i fenomeni deleteri legati alla scissione: la faziosità, il kominternismo (si può dire subordinazione a Mosca?), il frazionismo a catena. Ma non ne coglie il significato storico, la sterilizzazione politica del socialismo (eccetto che per alcune fasi del centro-sinistra - riconoscimento che però non si può pretendere da uno storico del Pci). Più che fare storia gli interessa dare ragione sempre e comunque al Partito. Si legge così retrospettivamente come un giornalista dell’“Unità”, naturalmente argomentato, un burocrate. Che non è colpa personale, l’uomo non era fazioso (nel successivo “Le passioni di un decennio (1946-1956” lui stesso riconoscerà questo limite), ma un dato politico – è l’essenza del togliattismo. Purtroppo perdurante, anche se di socialismo in Italia non c’è più neppure l’ombra, caso ancora unico in Europa.
Il progetto di Togliatti era semplice e non celato: monopolizzare la storia contemporanea. Che sembra eccessivo e anche ridicolo, ma così è stato, e anzi è – il controllo è se si può oggi più ferreo (gerarchico, totale) sull’“opinione pubblica”: media (basta vedere o ascoltare la Rai), editoria, scuola, giustizia. Rifare la storia, degli avvenimenti, dei personaggi, era specialità sovietica, già da Lenin e fino a Brezenev - di forte caratura, bisogna riconoscere (resta sempre da fare la storia del kominternismo, di Willi Münzeneberg, pure così appassionante).
Paolo Spriano, Sulla rivoluzione italiana
Problemi di base - 65
spock
La scienza è noia per gli scienziati della scienza, miliardi di particolari insignificanti o inutili, mentre è meraviglia costante per i profani, e gli scienziati: è Dio uno scienziato della scienza?
Se la morte non è un fatto della vita (Wittgenstein), allora ci sono fatti nella morte?
Se l’ieri non è domani, che cos’altro è? E il domani?
Perché bisogna dire pane al pane, se le cose non hanno nome? Ci può essere un’etica senza una logica, seppure linguistica?
Perché Caldoro appicca il fuoco all’immondizia a Napoli? Per farsi scoprire poi da un Lepore, nomen omen?
La Yamaha senza Valentino Rossi vola, la Ducati con Valentino arranca? Dov’è il problema?
Alonso, bravo, bello e simpatico, stravinceva con ogni macchina che gli capitava di pilotare. Arrivato alla Ferrari, è sempre bravo, bello e simpatico ma non vince più: dov’è il problema?
Montezemolo prezzemolo?
Non avrà messo un Bisignani nel motore della Ferrari?
spock@antiit.eu
La scienza è noia per gli scienziati della scienza, miliardi di particolari insignificanti o inutili, mentre è meraviglia costante per i profani, e gli scienziati: è Dio uno scienziato della scienza?
Se la morte non è un fatto della vita (Wittgenstein), allora ci sono fatti nella morte?
Se l’ieri non è domani, che cos’altro è? E il domani?
Perché bisogna dire pane al pane, se le cose non hanno nome? Ci può essere un’etica senza una logica, seppure linguistica?
Perché Caldoro appicca il fuoco all’immondizia a Napoli? Per farsi scoprire poi da un Lepore, nomen omen?
La Yamaha senza Valentino Rossi vola, la Ducati con Valentino arranca? Dov’è il problema?
Alonso, bravo, bello e simpatico, stravinceva con ogni macchina che gli capitava di pilotare. Arrivato alla Ferrari, è sempre bravo, bello e simpatico ma non vince più: dov’è il problema?
Montezemolo prezzemolo?
Non avrà messo un Bisignani nel motore della Ferrari?
spock@antiit.eu
domenica 26 giugno 2011
L’immondizia di Napoli sull’Italia
Internet è pieno di video degli assaltatori di notte sui rifiuti di Napoli. Tutti in maschera ma non irriconoscibili. E tutti di estrema violenza: impediscono agli autocampattatori la raccolta dei rifiuti, appiccano il fuoco dove i mucchi sono più consistenti, con minaccia grave alla salute - anche i rifiuti napoletani combusti, sebbene non sia più di moda ricordarlo, producono diossina. Ma nessuno dà loro la caccia, neanche come ignoti. Il serafico Procuratore Capo Lepore e il suo sostituto Curcio, quello di Bisignani, non trovano anzi di meglio che inquisire il presidente della Regione Campania Caldoro, per “epidemia colposa”. Un imbattibile duo, bisogna dire, se ha scovato i nuovi untori della nuova peste napoletana. Anzi uno, l’uomo di Berlusconi a Napoli.
Si può restare allibiti, e anche indignarsi. Ma a Napoli e per Napoli è inutile. Il problema è l’Italia, l’evidente trabordare della spazzatura napoletana in due settimane su tutto il Paese, dell’immoralità profonda, della criminosità, dei suoi amministratori e dei giudici loro complici, della strafottenza, dell’incredibile arroganza per cui tutti devono prendersi i rifiuti della città eccetto la città stessa – era facile previsione di questo sito e non ha mancato di avverarsi, la scoperta di Napoli non è recente. Ma, è questo il problema, onorevole Vietti, presidente Napoletano, Csm tutto intiero: non c’è più il reato di omessa denuncia di un reato, tanto più in flagranza di reato? Tanto più se si è nella polizia giudiziaria, e anzi a capo di essa? Che ci stanno a fare tutti questi procuratori della Repubblica a Napoli che non prendono nessun delinquente e non lo cercano neanche? Le telefonate di Bisignani? Le telefonate di Bisignani sono roba seria, lo assicura lo stesso Procuratore Capo. Tato seria, si vede, che non gli lascia il tempo se non di incriminare Caldoro, troppo ingenuo per questi Procuratori della Repubblica.
È impensabile una giustizia complice dei violenti. Se non, come pare, del crimine organizzato che taglieggia la città e l’Italia con i rifiuti. Ma è quello che succede a Napoli, senza alcun dubbio: sono tre anni, gli anni di Lepore, che questa delinquenza spadroneggia indisturbata. La giustizia politica sarà stata il danno peggiore inflitto da Napoli all’Italia tutta, da vent’anni a questa parte, a Nord e a Sud. Ma c’è anche la giustizia incapace. Protetta, è vero, purtroppo al vertie delle istituzioni. E si ritorna alla politica.
Si può restare allibiti, e anche indignarsi. Ma a Napoli e per Napoli è inutile. Il problema è l’Italia, l’evidente trabordare della spazzatura napoletana in due settimane su tutto il Paese, dell’immoralità profonda, della criminosità, dei suoi amministratori e dei giudici loro complici, della strafottenza, dell’incredibile arroganza per cui tutti devono prendersi i rifiuti della città eccetto la città stessa – era facile previsione di questo sito e non ha mancato di avverarsi, la scoperta di Napoli non è recente. Ma, è questo il problema, onorevole Vietti, presidente Napoletano, Csm tutto intiero: non c’è più il reato di omessa denuncia di un reato, tanto più in flagranza di reato? Tanto più se si è nella polizia giudiziaria, e anzi a capo di essa? Che ci stanno a fare tutti questi procuratori della Repubblica a Napoli che non prendono nessun delinquente e non lo cercano neanche? Le telefonate di Bisignani? Le telefonate di Bisignani sono roba seria, lo assicura lo stesso Procuratore Capo. Tato seria, si vede, che non gli lascia il tempo se non di incriminare Caldoro, troppo ingenuo per questi Procuratori della Repubblica.
È impensabile una giustizia complice dei violenti. Se non, come pare, del crimine organizzato che taglieggia la città e l’Italia con i rifiuti. Ma è quello che succede a Napoli, senza alcun dubbio: sono tre anni, gli anni di Lepore, che questa delinquenza spadroneggia indisturbata. La giustizia politica sarà stata il danno peggiore inflitto da Napoli all’Italia tutta, da vent’anni a questa parte, a Nord e a Sud. Ma c’è anche la giustizia incapace. Protetta, è vero, purtroppo al vertie delle istituzioni. E si ritorna alla politica.
Ombre - 93
Amnesty International ha cercato per tre mesi le prove degli stupri perpetrati dai soldati di Gheddafi e non le ha trovate. Pur aggirandosi liberamente tra i nemici di Gheddafi. Ma continua a cercarle con impegno, assicura la responsabile italiana. Perché? Gli stupri sono stati denunciati dal segretario di Stato americano Hillary Clinton: anche Amnesty è amerikana?
Il sindaco di Napoli De Magistris si fa fotografare domenica con vezzoso ombrellino al Gay pride. Il sindaco ha bisogno di svagarsi, è naturale, ma fa caldo a Milano a giugno. O è a un altro Gay pride, che magari si è tenuto si è tenuto a Napoli? Tra le immondizie, a rischio infezioni?
Il Louvre nega a Firenze la “Gioconda”: rischioso trasportarla. Ma Gian Antonio Stella non scrive un’articolessa di prima pagina, e nemmeno un breve articolo in pagina interna, contro il Louvre come quella che scrisse contro Reggio Calabria che non vuole mandare in giro i Bronzi. Nemmeno il suo giornale, il “Corriere della sera”, questa volta si scandalizza. Forse perché il sindaco di Firenze è toscano e non veneto come Stella e il ministro Galan, che voleva usare i Bronzi? Siamo alla patria veneta.
Ruggiero Palombo, l’ex vice direttore della “Gazzetta del Sud” che cinque anni fa aveva tirato la volata all’Inter contro la Juventus – insieme con l’altro napoletano illustre, il direttore del “Mattino” Mario Orfeo – avendo accesso privilegiato alla Procura della sua città, ora, sempre sulla “Gazzetta dello Sport”, dice che il Procuratore del calcio Palazzi deve “fare i conti col materiale che cinque anni fa chissà perché e da chi non gli era stato messo a disposizione”.
Ma il chi non sarebbe lo stesso Palombo – insomma il giudice suo referente? E Perché ora Palazzi deve fare i conti, la Juventus promette di più – di più dell’Inter (Palazzi deve decidere se lo scudetto della Juventus assegnato all’Inter dagli interisti Guido Rossi e Borrelli non debba essere revocato)?
L’Inter prende Gasperini come allenatore ma non i suoi collaboratori Rampulla e Ventrone perché, fa sapere, “troppo juventini”. E Gasperini, che alla Juventus è stato una vita? A Milano si può dire tutto.
Il video è Ansa, che mostra le violenze degli insorti libici contro la popolazione, quindi neutro – anche se l’agenzia nazionale è di sinistra. Non ci vuole molto per sapere che non è in corso in Libia una battaglia di libertà, ma il solito scontro per il potere. Né il “Corriere della sera” né “la Repubblica” lo rilanciano sui siti, né ne stampano sulla carta le immagini raccapriccianti, non ne parlano nemmeno: la guerra non riguarda i grandi giornali? O non se ne deve parlare?
Il timing è perfetto per lanciare Luigi Bisignani con tutte le sue confidenze: è estate e si usano le confidenza a paginate, con supplementi. Ma, dice il Capo della procura di Napoli Lepore, “sto leggendo cose assurde sui giornali, questa è un’indagine seria”. La sua Procura è infatti specializzata in indagini non serie, le telefonate dell’ex direttore di Rai Uno, che aveva deciso d fare di Napoli il suo centro principale di produzione, le confidenze di una prostituta che sembravano dovessero far cadere il governo e si sono perse nel nulla, e la vecchia inchiesta con Moggi e la Juventus, per la quale non si trovano giudici che li condannino. Giudici napoletani, che è tutto dire.
In tutti i telefilm l’ispettore o il sergente apre ogni conversazione dicendo il suo nome e mostrando il tesserino. Il ministro Prestigiacomo invece è stata interrogata da due sottufficiali di polizia giudiziaria d cui non sa nulla. Alla fine ha chiesto i loro nomi e i due sottufficiali hanno messo la richiesta a verbale. Per la gioia golosa di Fiorenza Sarzanini. La quale è cronista giudiziaria principe del “Corriere della sera” e ne fa oggetto di accurata informazione sul giornale.
Il sindaco di Napoli De Magistris si fa fotografare domenica con vezzoso ombrellino al Gay pride. Il sindaco ha bisogno di svagarsi, è naturale, ma fa caldo a Milano a giugno. O è a un altro Gay pride, che magari si è tenuto si è tenuto a Napoli? Tra le immondizie, a rischio infezioni?
Il Louvre nega a Firenze la “Gioconda”: rischioso trasportarla. Ma Gian Antonio Stella non scrive un’articolessa di prima pagina, e nemmeno un breve articolo in pagina interna, contro il Louvre come quella che scrisse contro Reggio Calabria che non vuole mandare in giro i Bronzi. Nemmeno il suo giornale, il “Corriere della sera”, questa volta si scandalizza. Forse perché il sindaco di Firenze è toscano e non veneto come Stella e il ministro Galan, che voleva usare i Bronzi? Siamo alla patria veneta.
Ruggiero Palombo, l’ex vice direttore della “Gazzetta del Sud” che cinque anni fa aveva tirato la volata all’Inter contro la Juventus – insieme con l’altro napoletano illustre, il direttore del “Mattino” Mario Orfeo – avendo accesso privilegiato alla Procura della sua città, ora, sempre sulla “Gazzetta dello Sport”, dice che il Procuratore del calcio Palazzi deve “fare i conti col materiale che cinque anni fa chissà perché e da chi non gli era stato messo a disposizione”.
Ma il chi non sarebbe lo stesso Palombo – insomma il giudice suo referente? E Perché ora Palazzi deve fare i conti, la Juventus promette di più – di più dell’Inter (Palazzi deve decidere se lo scudetto della Juventus assegnato all’Inter dagli interisti Guido Rossi e Borrelli non debba essere revocato)?
L’Inter prende Gasperini come allenatore ma non i suoi collaboratori Rampulla e Ventrone perché, fa sapere, “troppo juventini”. E Gasperini, che alla Juventus è stato una vita? A Milano si può dire tutto.
Il video è Ansa, che mostra le violenze degli insorti libici contro la popolazione, quindi neutro – anche se l’agenzia nazionale è di sinistra. Non ci vuole molto per sapere che non è in corso in Libia una battaglia di libertà, ma il solito scontro per il potere. Né il “Corriere della sera” né “la Repubblica” lo rilanciano sui siti, né ne stampano sulla carta le immagini raccapriccianti, non ne parlano nemmeno: la guerra non riguarda i grandi giornali? O non se ne deve parlare?
Il timing è perfetto per lanciare Luigi Bisignani con tutte le sue confidenze: è estate e si usano le confidenza a paginate, con supplementi. Ma, dice il Capo della procura di Napoli Lepore, “sto leggendo cose assurde sui giornali, questa è un’indagine seria”. La sua Procura è infatti specializzata in indagini non serie, le telefonate dell’ex direttore di Rai Uno, che aveva deciso d fare di Napoli il suo centro principale di produzione, le confidenze di una prostituta che sembravano dovessero far cadere il governo e si sono perse nel nulla, e la vecchia inchiesta con Moggi e la Juventus, per la quale non si trovano giudici che li condannino. Giudici napoletani, che è tutto dire.
In tutti i telefilm l’ispettore o il sergente apre ogni conversazione dicendo il suo nome e mostrando il tesserino. Il ministro Prestigiacomo invece è stata interrogata da due sottufficiali di polizia giudiziaria d cui non sa nulla. Alla fine ha chiesto i loro nomi e i due sottufficiali hanno messo la richiesta a verbale. Per la gioia golosa di Fiorenza Sarzanini. La quale è cronista giudiziaria principe del “Corriere della sera” e ne fa oggetto di accurata informazione sul giornale.