spock
Perché si possono criticare i romeni ma non i rom?
È più ipocrita la chiusura di “News of the World”, o l’elogio della libera stampa inglese – da che?
Perché la Germania non cambia mai? Danilo Taino dice di sì, ma il suo ammirevole commiato da Berlino
http://archiviostorico.corriere.it/2011/luglio/06/Vita_Berlino_Prussia_nudisti_rock_co_8_110706022.shtml
è un Isherwood degli anni 1920-30.
La spazzatura, dopo il Vesuvio, non può nulla contro Napoli: qual è il segreto della città?
Una P 4 di due persone non può essere tutto: Woodcock, cosa ci nascondi?
E la P 3, che fine ha fatto?
Che fine hanno fatto le librerie antiquarie, dove si trovava sempre il libro utile? O è internet che le oscura?
spock@antiit.eu
sabato 9 luglio 2011
Il ragazzo “celeste” del mite Umberto
In un’esile plaquette come questa, poi confluita anch’essa nel “Canzoniere”, la poesia di Saba è doppiamente quella che è, semplice, spoglia. Incantata. Elegia sommessa, a ridosso della guerra e dell’odio antiebraico, che Saba evoca nella dedicatoria a Alberto Mondadori a fine 1946 come fatti remoti, dopo “un anno felice” a Roma, e il premio Viareggio in estate. Più che mai qui Saba non è l’“uomo in fuga” di Debenedetti, con la psicologia dell’escluso, e “l’innata malinconia” dell’ebraismo. Pascoliana nei temi, questa poesia è l’esito migliore nel Novecento del petrarchismo che Saba depreca nella stessa lettera (“gli italiani... non sopportano, in poesia, la vita senza averla preventivamente uccisa e mummificata”) in versi “tecnicamente perfetti”, per Linuccia e “Telemaco”, “per una donna lontana e un ragazzo\ che mi ascolta, celeste” – da qui l’equivoco di Alfredo Gargiulo alla prima pubblicazione del “Canzoniere”, che evocò il Tasso minore e il Metastasio, amareggiando a lungo l’ipersensibile Umberto?
Umberto Saba, Mediterranee
Umberto Saba, Mediterranee
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (94)
Giuseppe Leuzzi
L’onorevole Milanese, nato a Milano, collaboratore del ministro Tremonti, pavese, diventa irpino il giorno in cui se ne ordina l’arresto.
La Procura di Palermo, dopo avere indagato per anni il neo ministro Romano, recede. Allora il giudice chiede di processarlo lui. Sulle stesse carte della Procura di Palermo.
C’è sempre un giudice a Palermo, per il terzo livello. Ce ne saranno anche per la mafia, prima o poi, è inevitabile, la mafia ne ha bisogno.
L’odio-di-sé meridionale
Gli stessi che fanno la Milano-Genova impavidi, o la Milano-Laghi, o la Firenze-Mare, in coda per ore e rischio tamponamento costante, friggono appena mettono il piede sotto Salerno. La Salerno-Reggio Calabria è un inferno, eccetera. Senza confronto, è un’entità a sé. È il Sud. È il ritorno che sempre si finge nostalgico (ma si può dire: ah, le buone strade di una volta?) e invece è odiato, odioso.
Il Sud è pieno di emigrati che ritornano e lo trovano sudicio, disordinato, corrotto, eccetera. Si dà per scontato, e in qualche caso lo è. Ma sono gli stessi che affrontano la corruzione ogni giorno a Milano, impavidi. Vanno a mare a Santa Margherita ligure e pensano di starci benissimo, al confronto di Letojanni, o della Tonnara di Palmi. Che hanno sacrificato, magari per trenta o quarant’anni ormai, il fegato e la giornata, ogni giorno feriale e di più i week-end, su e già per le dorsali appenniniche, Milano-Genova, Firenze-Bologna, ma sono a disagio, sono in un inferno, sulla Salerno-Reggio Calabria, dove i 350 giorni restanti dell’anno, prima e dopo Ferragosto, viaggiano indisturbati.
Un professore che non citiamo, perché è suscettibile, abita a Cetraro, sul Tirreno, e insegna a Catanzaro, sulle pendici joniche. Il pendolarismo lo soffoca e ne fa materia di un indignato libro, contro la mafia, l’ecomafia, il sottogoverno, la corruzione, i Borbone e gli spagnoli, che sono colpevoli a doppio taglio: hanno creato con le strade un traffico spaventoso, che gli toglie il respiro e buca l’ozono, ma non le hanno fatte dritte e a doppia corsia, seguono l’orografia, che in Calabria è come tutto tortuosa. Il libro viene per questo pubblicato e pubblicizzato, nell’Italia leghista parlare male del Sud è uno dei banchi buoni della libreria. Ma un pendolare delle Ferrovie dello Stato da Rieti e Roma, o anche solo da Campagnano Romano a Roma, la tratta meglio servita, gli invidierebbe la fermata al solito bar, invece dell’attesa del treno che non arriva, e le altre cose che il professore non vede, la luce, il largo orizzonte marino, le solitudini, le fioriture, e pure la possibilità, quando vuole, di parcheggiare. Ma, certo, il pendolarismo è duro per tutti – è una delle cifre della modernità, lo spreco inutile di tempo e fatica.
(Il professore in questione ha pure ragione, anche se non lo sa è fortunato: più a Sud gli sarebbe toccata la Bagnara-Bovalino, un migliaio di curve tornanti su 61 km, ammesso che fosse percorribile - non lo è dal 1951. Una strada, anche questo è vero, che divide e non unisce: per quasi un secolo, fino alla superstrada Rosarno-Gioiosa negli anni 1980, Jonio e Tirreno sono stati nella provincia di Reggio Calabria profondamente estranei).
Non c’è sintonia, dopo i primi abbracci, tra chi è emigrato e chi è restato. Questo solitamente offende chi è emigrato, che ha coscienza di essere di più: avere osato, avere faticato, e comunque avere realizzato di più, avere più esperienza di mondo, più capacità di fare. Ma è questo di più che lo rende inutile, prima che insopportabile: presume una condanna dell’esistente che all’esistente – chi è rimasto, il Sud com’è – non è di nessuna utilità E non può naturalmente accettare.
Calabria
Vittorio Pisani, il capo della Squadra Mobile, non è il primo calabrese a essere fottuto a Napoli, e non sarà l’ultimo – non c’è gara possibile: Napoli ha sempre fottuto la Calabria.
Ma è la terza volta che i giudici di Napoli lo incriminano: che ci sta a fare lì?
Il barone Franz von der Trenck, al quale si deve l’invenzione delle bande militari (in realtà l’adattamento in Europa delle bande ottomane), e quindi delle bande musicali, nonché una serie di degradanti avventure militari, era nato a Reggio Calabria, nel 1711. Mezzo austriaco per parte di padre, un ufficiale in servizio a Reggio, e mezzo croato per le proprietà estese in Slavonia. È noto anche in Croazia, come barun Franjo Trenk. Ma non è noto a Reggio. Né lui si riferisce mai a Reggio, nelle sue tante esternazioni.
Nacque a Reggio un giorno particolare, l’1 gennaio, e tra Reggio e la Sicilia passò la fanciullezza, sempre in mezzo ad avventure singolari. A sei mesi cadde nel camino ustionandosi. A quattro anni giocava con la pistola del padre, un colpo partì e il proiettile lo ferì di rimbalzo alla coscia. Rischiò anche di annegare, nuotando nello Stretto. Accompagnava spesso il padre, nei suoi viaggi a Messina, Palermo, Napoli, e poi più tardi a Venezia, in Carinzia, Stiria, Tirolo, Croazia, Slavonia, Banato. Morì a nemmeno quarant’anni, nel 1749, dopo una vita piena di avventure. I suoi resti mummificati si visitano nella cripta del convento dei Cappuccini a Brno, nella repubblica Ceca.
Fece le scuole dai gesuiti a Oldenburg. Parlava sette lingue. E intese vivere da proprietario nei suoi possedimenti croati. Finché nel 1737, a ventisei anni, morta la moglie nella peste nera di quell’anno, ebbe l’idea di creare un reggimento di panduri, una sorta di corazzieri croati e serbi, in sgargianti divise, per la guerra contro i turchi. Ma a Vienna gli dissero di no. Allora si mise al servizio dello zar. Che dopo un breve servizio dovette condannarlo a morte, per “cattiva condotta, brutalità e disobbedienza” – la condanna fu poi commutata al carcere. Finché i russi non se ne liberarono rimandandolo in Austria. Dove per un periodo visse isolato. Poi fu amnistiato, nella guerra di successione austriaca, e messo a capo di un corpo di irregolari, fino a ottenere il grado di colonnello. Costituì allora il suo reggimento di panduri, che subito si segnalarono per la truculenza, e per il disordine in battaglia. Il barone fu condannato a morte anche in Austria, e quindi al carcere, nello Spielberg a Brno, dove nel 1749 morì. Avrebbe tutto per essere degradato a calabrese.
“Il re fuggito in Sicilia, i francesi giunti a Capua, i giacobini che levavano il capo, il vicario generale smarrito… Il ventiquattrenne Giuseppe Poerio fu visto inaspettatamente emergere dall’ombra e togliere su di sé ed eseguire una difficile parte politica, che ebbe, in quel groviglio di casi impensati e d’impulsi diversi ed opposti, efficacia risolutiva” (B. Croce, “Una famiglia di patrioti”, p. 18). L’“Otto settembre” del Regno di Napoli, all’Epifania del 1799, fu un calabrese di ventiquattro anni a instaurare la Repubblica a Napoli.
La Madonna del Porto è una festa e un rito fra i più studiati dell’etnologia. Erasmo ironizzava sui titoli marini della Madonna, “stella del mare”, o “porto di salvezza”, dato che Maria non ha nulla a che fare col mare. Ma Lutero sapeva perché: “Maria significa stilla maris, poiché di tutto il mare dell’umanità è l’unica goccia che rimase pura e intatta”.
L’umorismo è invasivo anche nella letteratura russa, nota Nina Berberova di Nabokov (nel saggio “Nabokov e la sua Lolita”). L’orrore, il distanziamento, si mescola sempre al ghigno: compiacimento, pena, e compiacimento per la pena.
Non ha nobiltà antica, non ha avuto il feudo. Malgrado il secolo di regno diretto normanno. I titoli sono di romani del papa, Savelli, Carafa, di banchieri genovesi recenziori, del Cinque-Seicento, Spinelli, Grimaldi, Genoese, Grillo, un Lombardo a Polistena. I Ruffo venivano dal nulla, il loro capostipite Pietro fu creato conte da Federico II, come Giovanni Moro e i discendenti di Mafalda Scaletta, perché uomo di mano. Per lo stesso motivo finì male: passato con i guelfi contro Manfredi, fu privato dei beni e messo a morte. Pietro II si mise con gli angioini, e riebbe la contea di Catanzaro per aver sottratto Amantea a Corradino. Dopodiché non se ne sa più nulla finché la famiglia non riemerse a Sinopoli a metà Trecento, di nuovo col titolo di conti, trasformato due secoli più tardi in principi di Scilla. Illustrandosi come uomini d’arme e prelati, senza alcuna opera d’arte o dell’ingegno. Fu l’uno e l’altro il cardinale Ruffo, l’esponente più famoso, che creò il movimento dei sanfedisti, con i quali abbatté la Repubblica Napoletana.
In questo caso è stata la Calabria a suonarle a Napoli, ma è l’unico.
leuzzi@antiit.eu
L’onorevole Milanese, nato a Milano, collaboratore del ministro Tremonti, pavese, diventa irpino il giorno in cui se ne ordina l’arresto.
La Procura di Palermo, dopo avere indagato per anni il neo ministro Romano, recede. Allora il giudice chiede di processarlo lui. Sulle stesse carte della Procura di Palermo.
C’è sempre un giudice a Palermo, per il terzo livello. Ce ne saranno anche per la mafia, prima o poi, è inevitabile, la mafia ne ha bisogno.
L’odio-di-sé meridionale
Gli stessi che fanno la Milano-Genova impavidi, o la Milano-Laghi, o la Firenze-Mare, in coda per ore e rischio tamponamento costante, friggono appena mettono il piede sotto Salerno. La Salerno-Reggio Calabria è un inferno, eccetera. Senza confronto, è un’entità a sé. È il Sud. È il ritorno che sempre si finge nostalgico (ma si può dire: ah, le buone strade di una volta?) e invece è odiato, odioso.
Il Sud è pieno di emigrati che ritornano e lo trovano sudicio, disordinato, corrotto, eccetera. Si dà per scontato, e in qualche caso lo è. Ma sono gli stessi che affrontano la corruzione ogni giorno a Milano, impavidi. Vanno a mare a Santa Margherita ligure e pensano di starci benissimo, al confronto di Letojanni, o della Tonnara di Palmi. Che hanno sacrificato, magari per trenta o quarant’anni ormai, il fegato e la giornata, ogni giorno feriale e di più i week-end, su e già per le dorsali appenniniche, Milano-Genova, Firenze-Bologna, ma sono a disagio, sono in un inferno, sulla Salerno-Reggio Calabria, dove i 350 giorni restanti dell’anno, prima e dopo Ferragosto, viaggiano indisturbati.
Un professore che non citiamo, perché è suscettibile, abita a Cetraro, sul Tirreno, e insegna a Catanzaro, sulle pendici joniche. Il pendolarismo lo soffoca e ne fa materia di un indignato libro, contro la mafia, l’ecomafia, il sottogoverno, la corruzione, i Borbone e gli spagnoli, che sono colpevoli a doppio taglio: hanno creato con le strade un traffico spaventoso, che gli toglie il respiro e buca l’ozono, ma non le hanno fatte dritte e a doppia corsia, seguono l’orografia, che in Calabria è come tutto tortuosa. Il libro viene per questo pubblicato e pubblicizzato, nell’Italia leghista parlare male del Sud è uno dei banchi buoni della libreria. Ma un pendolare delle Ferrovie dello Stato da Rieti e Roma, o anche solo da Campagnano Romano a Roma, la tratta meglio servita, gli invidierebbe la fermata al solito bar, invece dell’attesa del treno che non arriva, e le altre cose che il professore non vede, la luce, il largo orizzonte marino, le solitudini, le fioriture, e pure la possibilità, quando vuole, di parcheggiare. Ma, certo, il pendolarismo è duro per tutti – è una delle cifre della modernità, lo spreco inutile di tempo e fatica.
(Il professore in questione ha pure ragione, anche se non lo sa è fortunato: più a Sud gli sarebbe toccata la Bagnara-Bovalino, un migliaio di curve tornanti su 61 km, ammesso che fosse percorribile - non lo è dal 1951. Una strada, anche questo è vero, che divide e non unisce: per quasi un secolo, fino alla superstrada Rosarno-Gioiosa negli anni 1980, Jonio e Tirreno sono stati nella provincia di Reggio Calabria profondamente estranei).
Non c’è sintonia, dopo i primi abbracci, tra chi è emigrato e chi è restato. Questo solitamente offende chi è emigrato, che ha coscienza di essere di più: avere osato, avere faticato, e comunque avere realizzato di più, avere più esperienza di mondo, più capacità di fare. Ma è questo di più che lo rende inutile, prima che insopportabile: presume una condanna dell’esistente che all’esistente – chi è rimasto, il Sud com’è – non è di nessuna utilità E non può naturalmente accettare.
Calabria
Vittorio Pisani, il capo della Squadra Mobile, non è il primo calabrese a essere fottuto a Napoli, e non sarà l’ultimo – non c’è gara possibile: Napoli ha sempre fottuto la Calabria.
Ma è la terza volta che i giudici di Napoli lo incriminano: che ci sta a fare lì?
Il barone Franz von der Trenck, al quale si deve l’invenzione delle bande militari (in realtà l’adattamento in Europa delle bande ottomane), e quindi delle bande musicali, nonché una serie di degradanti avventure militari, era nato a Reggio Calabria, nel 1711. Mezzo austriaco per parte di padre, un ufficiale in servizio a Reggio, e mezzo croato per le proprietà estese in Slavonia. È noto anche in Croazia, come barun Franjo Trenk. Ma non è noto a Reggio. Né lui si riferisce mai a Reggio, nelle sue tante esternazioni.
Nacque a Reggio un giorno particolare, l’1 gennaio, e tra Reggio e la Sicilia passò la fanciullezza, sempre in mezzo ad avventure singolari. A sei mesi cadde nel camino ustionandosi. A quattro anni giocava con la pistola del padre, un colpo partì e il proiettile lo ferì di rimbalzo alla coscia. Rischiò anche di annegare, nuotando nello Stretto. Accompagnava spesso il padre, nei suoi viaggi a Messina, Palermo, Napoli, e poi più tardi a Venezia, in Carinzia, Stiria, Tirolo, Croazia, Slavonia, Banato. Morì a nemmeno quarant’anni, nel 1749, dopo una vita piena di avventure. I suoi resti mummificati si visitano nella cripta del convento dei Cappuccini a Brno, nella repubblica Ceca.
Fece le scuole dai gesuiti a Oldenburg. Parlava sette lingue. E intese vivere da proprietario nei suoi possedimenti croati. Finché nel 1737, a ventisei anni, morta la moglie nella peste nera di quell’anno, ebbe l’idea di creare un reggimento di panduri, una sorta di corazzieri croati e serbi, in sgargianti divise, per la guerra contro i turchi. Ma a Vienna gli dissero di no. Allora si mise al servizio dello zar. Che dopo un breve servizio dovette condannarlo a morte, per “cattiva condotta, brutalità e disobbedienza” – la condanna fu poi commutata al carcere. Finché i russi non se ne liberarono rimandandolo in Austria. Dove per un periodo visse isolato. Poi fu amnistiato, nella guerra di successione austriaca, e messo a capo di un corpo di irregolari, fino a ottenere il grado di colonnello. Costituì allora il suo reggimento di panduri, che subito si segnalarono per la truculenza, e per il disordine in battaglia. Il barone fu condannato a morte anche in Austria, e quindi al carcere, nello Spielberg a Brno, dove nel 1749 morì. Avrebbe tutto per essere degradato a calabrese.
“Il re fuggito in Sicilia, i francesi giunti a Capua, i giacobini che levavano il capo, il vicario generale smarrito… Il ventiquattrenne Giuseppe Poerio fu visto inaspettatamente emergere dall’ombra e togliere su di sé ed eseguire una difficile parte politica, che ebbe, in quel groviglio di casi impensati e d’impulsi diversi ed opposti, efficacia risolutiva” (B. Croce, “Una famiglia di patrioti”, p. 18). L’“Otto settembre” del Regno di Napoli, all’Epifania del 1799, fu un calabrese di ventiquattro anni a instaurare la Repubblica a Napoli.
La Madonna del Porto è una festa e un rito fra i più studiati dell’etnologia. Erasmo ironizzava sui titoli marini della Madonna, “stella del mare”, o “porto di salvezza”, dato che Maria non ha nulla a che fare col mare. Ma Lutero sapeva perché: “Maria significa stilla maris, poiché di tutto il mare dell’umanità è l’unica goccia che rimase pura e intatta”.
L’umorismo è invasivo anche nella letteratura russa, nota Nina Berberova di Nabokov (nel saggio “Nabokov e la sua Lolita”). L’orrore, il distanziamento, si mescola sempre al ghigno: compiacimento, pena, e compiacimento per la pena.
Non ha nobiltà antica, non ha avuto il feudo. Malgrado il secolo di regno diretto normanno. I titoli sono di romani del papa, Savelli, Carafa, di banchieri genovesi recenziori, del Cinque-Seicento, Spinelli, Grimaldi, Genoese, Grillo, un Lombardo a Polistena. I Ruffo venivano dal nulla, il loro capostipite Pietro fu creato conte da Federico II, come Giovanni Moro e i discendenti di Mafalda Scaletta, perché uomo di mano. Per lo stesso motivo finì male: passato con i guelfi contro Manfredi, fu privato dei beni e messo a morte. Pietro II si mise con gli angioini, e riebbe la contea di Catanzaro per aver sottratto Amantea a Corradino. Dopodiché non se ne sa più nulla finché la famiglia non riemerse a Sinopoli a metà Trecento, di nuovo col titolo di conti, trasformato due secoli più tardi in principi di Scilla. Illustrandosi come uomini d’arme e prelati, senza alcuna opera d’arte o dell’ingegno. Fu l’uno e l’altro il cardinale Ruffo, l’esponente più famoso, che creò il movimento dei sanfedisti, con i quali abbatté la Repubblica Napoletana.
In questo caso è stata la Calabria a suonarle a Napoli, ma è l’unico.
leuzzi@antiit.eu
venerdì 8 luglio 2011
Il peccato nazista di Bataille
Una giornata da “Decamerone”, tra una compagnia di spiriti eletti, isolati in un salotto dalla peste nazista che infetava Parigi, il 5 marzo 1944. Ad ascoltare Bataille discettare di peccato una lista interminabile di celebrità, tutte interessate poi a discuterne con lui: il futuro cardinale Danièlou, il commediografo Adamov, Blanchot, Camus, Merleau-Ponty, De Beauvoir con Sartre, molto polemico, Klossowski, Hyppolite, Massignon, Leiris, Paulhan, Prévost. E nell’elenco è trascurato Gabriel Marcel, quello che contrappunta con più appropriatezza l’oratore.
Il set è la cosa migliore. Il peccato di Bataille la più sorprendete: nazismo puro. L’ennesimo “rovesciamento” del peccato come giudeo-cristianesimo (non menzionato, ma si sa). Non allegro o propositivo, come ci si aspetta da una proposta rivoluzionaria e non vendicativa. E anzi lo stesso Nietzsche (l’esposizione di Bataille poi confluirà nel suo “Nietzsche”) assume cupo. I religiosi, Daniélou, Maydieu, Burgelin, protestante, scantonano, fra omaggi al “tono convincente” del relatore e commistioni confuse di misticismo sacro e peccato battagliano. Sartre invece a un certo punto glielo dice: “Non vedo perché, secondo i vostri principi, non si dovrebbe violare gli esseri come si beve una tazza di caffè”.
La “morale volgare”, il cristianesimo, il bene e il male, è noiosa, la derivazione nietzcheana prende molte pagine. A favore di un’etica del culmine e del declino. Che si governa attraverso il peccato costante, la violazione degli altri che è anche violazione del sé, eccetera. Klossowski, che dell’esposizione di Bataille al seminario si assume la sintesi, così glossa: “Il culmine corrisponde all’eccesso, all’esuberanza delle forse. Conduce al massimo l’intensità tragica. Si lega agli sprechi smisurati di energia e alla violazione dell’integrità degli esseri” Al declino, “che corrisponde ai momenti di esaurimento e di stanchezza”, fanno capo “le regole morali”.
Lo stesso Klossowski nel dibattito si dà queste ragioni: “«Essere colpevole o non essere», ecco il dilemma, perché essere senza colpevolezza, per Bataille, significa non spendere, non poter spendere, non avere nulla da dare”. Senza peccato è il ritorno dell’uguale se stesso, la noia, l’insignificanza (sarà il “dibbattito” in Italia, a Roma, naturalmente annoiato, di trent’anni dopo). Ma a un certo punto se ne accorge, che soprattutto “il mondo del peccato è noioso”. Gli sarà balenato l’amato Sade, che nei piaceri si annoiava, ed è noiosissimo.
Ma non è di improsamenti liberi che a marzo del 1944, a casa di Marcel Moré a Parigi, l’intelligenza francese occupata discute. Incalzato da Hyppolite, dopo Sartre, lo stesso Bataille candido lo ammette: “Il peccato è la violazione degli esseri”. Pretendendolo naturalmente rigeneratore: in grado di sovvertire il declino, e rilanciare l’ascesi, che sono i suoi due assi della storia, invece degli aborriti bene e male – ancora Nietzsche. Una morale inappellabile (inspiegabile). Che si vuole anticristiana, ma si fa forte del peccato, che è concetto cristiano. Travolgendolo in libertà. Magari del nulla, interno ed esterno.
Ci siamo salvati perché Hitler ha perduto la guerra. Il nazismo, si dice, è “affondato” nell’Olocausto. Come se avesse potuto evitarlo. Ma si vuole dire che ha solo perduto una guerra.
Georges Bataille, La condizione del peccato, Ass. Eterotopia, pp. 169 € 8
Il romanzo dell’amore amato
Ha l’handicap dell’“amore platonico”. Che ritorna a ogni pagina (un paio di volte perfino in “idea platonica). Per dire dell’amicizia nell’amore con la moglie, anche se, cinquantenne, è sempre lontano con la carne giovane. E del “si”, questo toscanismo castrante già all’epoca (1979) morto. Sono gli unici nei in una storia scritta di getto e tuttavia misurata e pregna di senso – di sensi. L’odore del sangue, da cui tutto germoglia, un ricordo di guerra, è declinato in cento chiavi, tutte calzanti, concludenti, incisive: dolce, esilarante, pieno di linfa, odore dell’origine della gioventù, della passione, della vita.
Il cosiddetto platonismo è però la chiave della vicenda, dove la violenza è in agguato. È “il vero romanzo di Parise”, può dire Giacomo Magrini, che ne ha curato la pubblicazione postuma. È la summa dell’amore estremo (libero, voluto, a ogni istante rinnovato) di coppia, che è il segno dell’epoca – di cui Parise potrebbe avere scritto “il romanzo”, più bello e definitivo, anche nell’eccesso di sperma che ancora fa diffidare molti-e. Nel solco dell’“amore amato” che ha fatto la storia occidentale - anche se il Duecento rifuggiva dalle crudezze. Resta una moderna carte du tendre, una cartina dell’amore a scala Igm, con isobare minuziose, una miniera e un trattato informale se non definitivo, che in materia non è possibile, di quello che l’amore è, “si sa”, “come è noto”, e non è. Malgrado le solite approssimazioni parisiane: Grazia, la ricca e generosa ospite fiorentina del narratore e della moglie, ha “grandi occhi ebrei”, la “forza della ragione protestante”, e “a correzione del protestantesimo” ha “la pietas cristiana”. E l’ingombro di Garboli.
La presentazione di Cesare Garboli, che fa ormai parte del testo, è tanto puntigliosa e affettuosa quanto tetra (gli amici sono un dono, talvolta ingombrante): ne fa “un romanzo invece di una cura psicanalitica”, a sfondo autobiografico. Mentre Parise era semplice, e in fatto di sesso non portato alla gelosia: era uno che si masturbava a Milano, quando faceva il redattore editoriale e divideva per risparmiare una stanza in albergo con Nico Naldini - è vero invece, purtroppo, ciò che Garboli gli porta a vanto, che invitava Gadda a colazione per dileggiarlo, disseminando la casa di ciclopici falli di cartone (dopo avere avuto cura, va aggiunto, di prendere casa nello stesso palazzo di Gadda, per poterlo incontrare casualmente). Insistente, per lunghe pagine, Garboli ne fa il romanzo della gelosia, mentre è, con ogni evidenza, una trasposizione o proiezione: un’immedesimazione, e il rimpianto, di una passione travolgente che non è, o non è stata, nelle corde del narratore.
Goffredo Parise, L’odore del sangue
Il cosiddetto platonismo è però la chiave della vicenda, dove la violenza è in agguato. È “il vero romanzo di Parise”, può dire Giacomo Magrini, che ne ha curato la pubblicazione postuma. È la summa dell’amore estremo (libero, voluto, a ogni istante rinnovato) di coppia, che è il segno dell’epoca – di cui Parise potrebbe avere scritto “il romanzo”, più bello e definitivo, anche nell’eccesso di sperma che ancora fa diffidare molti-e. Nel solco dell’“amore amato” che ha fatto la storia occidentale - anche se il Duecento rifuggiva dalle crudezze. Resta una moderna carte du tendre, una cartina dell’amore a scala Igm, con isobare minuziose, una miniera e un trattato informale se non definitivo, che in materia non è possibile, di quello che l’amore è, “si sa”, “come è noto”, e non è. Malgrado le solite approssimazioni parisiane: Grazia, la ricca e generosa ospite fiorentina del narratore e della moglie, ha “grandi occhi ebrei”, la “forza della ragione protestante”, e “a correzione del protestantesimo” ha “la pietas cristiana”. E l’ingombro di Garboli.
La presentazione di Cesare Garboli, che fa ormai parte del testo, è tanto puntigliosa e affettuosa quanto tetra (gli amici sono un dono, talvolta ingombrante): ne fa “un romanzo invece di una cura psicanalitica”, a sfondo autobiografico. Mentre Parise era semplice, e in fatto di sesso non portato alla gelosia: era uno che si masturbava a Milano, quando faceva il redattore editoriale e divideva per risparmiare una stanza in albergo con Nico Naldini - è vero invece, purtroppo, ciò che Garboli gli porta a vanto, che invitava Gadda a colazione per dileggiarlo, disseminando la casa di ciclopici falli di cartone (dopo avere avuto cura, va aggiunto, di prendere casa nello stesso palazzo di Gadda, per poterlo incontrare casualmente). Insistente, per lunghe pagine, Garboli ne fa il romanzo della gelosia, mentre è, con ogni evidenza, una trasposizione o proiezione: un’immedesimazione, e il rimpianto, di una passione travolgente che non è, o non è stata, nelle corde del narratore.
Goffredo Parise, L’odore del sangue
Letture - 68
letterautore
Camilleri – Ha collaudato, con più costanza che Pirandello, Capuana o De Roberto, anzi come tipologia unica, il meridionale “fascistone”. Specie nei gialli di Montalbano, ma anche negli altri racconti.
Del fascistone Montalbano non è il prototipo in quanto personaggio d’invenzione, ma ha tutte le carature prescritte. Un capoccione dotato di molto ego (si dice personalità) e che non bada a nessuno, al procuratore, al questore, al vescovo, all’onorevole, una sorta di anarchico dell’ordine. È il fascistone simpatico perché integrale, in ogni suo gesto, detto o rapporto, con la fidanzata, gli amici, i subordinati, i cittadini, uno che parla male, un po’, dei carabinieri, e della Dc, e copre le tresche del suo vice, della cui moglie si professa amico. Le donne attorno a lui sono inaffidabili, mantidi, sciocche, ricattatrici, sfruttate, eccetto qualche vecchia insegnante - una tipologia tutta negativa, che Luca Zingaretti nei film ammorbidisce, non resistendo al fascino delle caratteriste locali, tutte con esperienza collaudata di teatro.
Sono del fascistone anche i cliché che fanno Montalbano consolatorio. E i luoghi comuni: tutto è bello in Sicilia, gli sbirri sono un po’ scemi (in basso e in alto, i piantoni e i questori), la politica è bugiarda e ladra, la mafia strana, le donne infide, e c’è pure la svedese, facile. Il lieto fine. I ruoli notabilari. L’immutabilità soddisfatta. Tutto peraltro realistico. Molto. Sicuramente più del tutto mafioso, e più produttivo. Ma in un quadro di compiaciuta stabilità.
Montalbano è peraltro l’ordine di cui di cui Camilleri soprattutto si compiace, nell’intervista con Francesco Piccolo (il lungo colloquio è buona parte del “Michele Sparacino”). Pretendendosi impegnato per la giustizia, che invece teme, e nella politica che invece non cura, giusto per non creare increspature andando controcorrente, e la vita di paese e i plot risolve nei circoli, dei nobili, dei borghesi, dei compagni, gli altri comprimari riducendo a maschere da commedia dell’arte. Al suo personaggio avendo assegnato immutabile, senza sorprese - il fascistone non è uomo di sorprese - questo quadro: una fidanzata impicciona e inesistente, puro dileggio, ragazze e checche ricattabili e ricattate, politicanti mai puliti o intelligenti, questure di trogloditi. La stessa concezione che Camilleri ha del Pci e del movimento è di destra: del galantomismo, per l’ordine e il coraggio. Anche il rapporto di Camilleri col proprio padre naturale, nella stessa intervista, è, sebbene rispettoso, molto fascistone: quando il figlio in carriera è sempre migliore del padre, più sensato, di più esperienza, più generoso, al limite sempre della disperazione (per colpa del padre, la colpa di esistere), più saggio, più capace, più previdente e protettivo.
Fascistone – È il tipo risolutivo: pieno di sé, rassicurante, maneggione, sapientone, introdotto, un trickster aggiustatutto. Senza il riserbo che caratterizzava il vecchio notabile, anzi invadente, se non vantone, pure nel fisico: petto in fuori, testa eretta, occhi perforanti, voce tonante, quando non è sorretto dall’altezza.
Una parola meridionale per una figura però non necessariamente meridionale. Montalbano, il personaggio più popolare e amato, certamente lo è. Anche il suo creatore Camilleri vi si atteggia. Ma Montanelli ne è il prototipo, sempre pieno di sé, nella coerenza e nell’incoerenza, nella generosità e nella cattiveria, fascista e antifascista, comunista e anticomunista, e sempre con la coscienza pulita, anzi più pulita di ogni altro.
Il fascistone meridionale non è un reduce di Mussolini, anzi lo avrebbe disprezzato, ma è autorevole e autoritario, e tutto dice, sa, fa, e risolve. Non è nemmeno di sinistra, non può esserlo, ma un po’ come Croce ci voleva tutti liberali, concede che tutti dobbiamo essere un po’ di sinistra. Si vuole anticonformista, ma con moderazione, un po’ laico, con moderazione, e un po’ bacchettone, sempre con moderazione: non vuole sollevare onde, vuole piacere a tutti. Vuol’essere il centro della simpatia, l’interprete del sentimento comune, quello che tutti vorrebbero essere – magari comunista, una volta, nell’intimo, poiché il Pci, che ha avuto al Sud breve vita, si è creata per quei lontani anni un’aura d’irenismo e giustizia, ma non del Partito. Critica i Dc ma li rispetta. E del fascismo ha solo la doverosa memoria storica, più ridicola peraltro che violenta.
Pasolini – Il poeta debutta con componimenti filologici – subito adocchiati dal filologo Contini – in “volgare”. Sul modello di Dante, con analoga pretesa di separazione dalla cultura colta, e invece con onnivora scienza. Conclude con “Le ceneri di Gramsci”, che sono Foscolo ingigantito. Per l’eloquenza ricercata, che anche la sfida fa sempre retorica – qui è nel metro martelliano, recuperato perché squalificato, “maledetto”. Si può dire che ha perduto l’occasione di una nuova “Commedia” che la storia, personale, politica, gli proponeva?
Pasolini ne ha sempre cognizione, ma sempre la omette, della feroce, violenta antropofagia comunista, benché invasiva, anche sul piano personale, e opprimente. Per pavidità? Per opportunismo? Perché non era nelle sue corde. Era un esteta foscoliano, quindi ingaggiato e polemista nello spirito del tempo nel quale era cresciuto, dannunziano – della vita che imita l’opera (tanto dismesso-omesso quanto invadente nei suoi anni formativi).
Non si misurano ancora abbastanza le omissioni cui la cultura di partito chiamava, con inevadibili autocensure. Togliatti insomma. Altrove, dove c’è un partito con la stessa egemonia culturale, in Francia per esempio, o nell’antifascismo spagnolo, non c’erano le stesse censure, il centralismo fu ferramente democratico solo in Italia. Pasolini ne fu partecipe, anche se si costituiva alibi, ma in quanto letterato, cresciuto nella concezione della letteratura aliena – in contrasto con la vena di polemista, e quindi con la sua capacità di giudizio politico, ma questo è un altro discorso, dell’eroismo o coerenza.
Il friulano non è la lingua di Pasolini. Si dice che era la lingua materna. Ma non si parlava friulano in casa. Pasolini non parlava friulano con la mamma e i cugini. Il suo eloquio, le sue prose non ne hanno gli accenti né le cadenze. Il friulano è il suo “volgare”, un campetto di esercitazione, o uso a freddo delle parole – come lo sarà, con maggiore-minore fortuna, il suo romanesco. Il friulano Pasolini dice, in un testo postumo, “la lingua di mia madre”, che non è propriamente la lingua materna.
Pound – Collaborò negli anni 1930, con William Carlos Wiliams, T.S. Eliot e E.E.Cummings, a una rivista di poesia intitolata “Furioso”, creata e curata all’università di Yale da James Jesus Angleton. Che a fine anni 1940 sarà ai vertici della neonata Cia, dopo aver fatto con successo le prime esperienze di spia a Roma alla Liberazione.
Angleton, cresciuto a Milano, dove suo padre aveva rilevato la sussidiaria italiana della NCR, era bilingue. Fu a capo dell’ufficio Italia dei servizi segreti americani dal febbraio 1944, da Londra. A novembre fu trasferito in Italia, dove rimase dopo la guerra. Gli storici della Cia gli attribuiscono un ruolo di iniziativa e organizzazione nella sconfitta del Fronte popolare l’8 aprile del 1948, aggregando il potere d’influenza della mafia e del Vaticano, e il voto neo fascista. E quindi nella successiva decisione del Congresso Usa di creare la Cia. Nel 1951 fu incaricato dell’ufficio Israele. Nel 1954 fu nominato capo del controspionaggio, carica che mantenne fino alla pensione nel 1975.
Angleton era in eccellenti rapporti con Kim Philby, a Londra e a Washington, per cui negli anni 1950 subì il contraccolpo della defezione di Philby e altri intellettuali inglesi a Mosca. Ma il capo della Cia Allen Dulles apprezzò la sua capacità di giudizio. In particolare la cautela sulle operazione di rollback (sovversione) proposte e tentate da altri suoi dirigenti in Albania e Polonia, tutte fallite.
Con Pound Angleton rimase sempre in contatto – così come con Eliot, Cummings e Williams. Una lettera di Pound al futuro capo del controspionaggio è in testa al sito leconomistamascherato (Geminello Alvi?). Sarebbe di Angleton l’escamotage per cui Pound divenne non giudicabile perché “pazzo”.
J.Roth – Si ricorda – anche Magris - soprattutto che fu cattolico e ubriacone. Cattolico con più forte riprovazione. È un’assurdità ma è la contemporaneità, sia nordica (protestante) che latina (anticlericale). È anche un reliquato della vecchia intramontabile ostilità dell’ebraismo contro il cristianesimo, solo “ribattezzata” (rigiustificata) dall’Olocausto, con la colpa.
letterautore@antiit.eu
Camilleri – Ha collaudato, con più costanza che Pirandello, Capuana o De Roberto, anzi come tipologia unica, il meridionale “fascistone”. Specie nei gialli di Montalbano, ma anche negli altri racconti.
Del fascistone Montalbano non è il prototipo in quanto personaggio d’invenzione, ma ha tutte le carature prescritte. Un capoccione dotato di molto ego (si dice personalità) e che non bada a nessuno, al procuratore, al questore, al vescovo, all’onorevole, una sorta di anarchico dell’ordine. È il fascistone simpatico perché integrale, in ogni suo gesto, detto o rapporto, con la fidanzata, gli amici, i subordinati, i cittadini, uno che parla male, un po’, dei carabinieri, e della Dc, e copre le tresche del suo vice, della cui moglie si professa amico. Le donne attorno a lui sono inaffidabili, mantidi, sciocche, ricattatrici, sfruttate, eccetto qualche vecchia insegnante - una tipologia tutta negativa, che Luca Zingaretti nei film ammorbidisce, non resistendo al fascino delle caratteriste locali, tutte con esperienza collaudata di teatro.
Sono del fascistone anche i cliché che fanno Montalbano consolatorio. E i luoghi comuni: tutto è bello in Sicilia, gli sbirri sono un po’ scemi (in basso e in alto, i piantoni e i questori), la politica è bugiarda e ladra, la mafia strana, le donne infide, e c’è pure la svedese, facile. Il lieto fine. I ruoli notabilari. L’immutabilità soddisfatta. Tutto peraltro realistico. Molto. Sicuramente più del tutto mafioso, e più produttivo. Ma in un quadro di compiaciuta stabilità.
Montalbano è peraltro l’ordine di cui di cui Camilleri soprattutto si compiace, nell’intervista con Francesco Piccolo (il lungo colloquio è buona parte del “Michele Sparacino”). Pretendendosi impegnato per la giustizia, che invece teme, e nella politica che invece non cura, giusto per non creare increspature andando controcorrente, e la vita di paese e i plot risolve nei circoli, dei nobili, dei borghesi, dei compagni, gli altri comprimari riducendo a maschere da commedia dell’arte. Al suo personaggio avendo assegnato immutabile, senza sorprese - il fascistone non è uomo di sorprese - questo quadro: una fidanzata impicciona e inesistente, puro dileggio, ragazze e checche ricattabili e ricattate, politicanti mai puliti o intelligenti, questure di trogloditi. La stessa concezione che Camilleri ha del Pci e del movimento è di destra: del galantomismo, per l’ordine e il coraggio. Anche il rapporto di Camilleri col proprio padre naturale, nella stessa intervista, è, sebbene rispettoso, molto fascistone: quando il figlio in carriera è sempre migliore del padre, più sensato, di più esperienza, più generoso, al limite sempre della disperazione (per colpa del padre, la colpa di esistere), più saggio, più capace, più previdente e protettivo.
Fascistone – È il tipo risolutivo: pieno di sé, rassicurante, maneggione, sapientone, introdotto, un trickster aggiustatutto. Senza il riserbo che caratterizzava il vecchio notabile, anzi invadente, se non vantone, pure nel fisico: petto in fuori, testa eretta, occhi perforanti, voce tonante, quando non è sorretto dall’altezza.
Una parola meridionale per una figura però non necessariamente meridionale. Montalbano, il personaggio più popolare e amato, certamente lo è. Anche il suo creatore Camilleri vi si atteggia. Ma Montanelli ne è il prototipo, sempre pieno di sé, nella coerenza e nell’incoerenza, nella generosità e nella cattiveria, fascista e antifascista, comunista e anticomunista, e sempre con la coscienza pulita, anzi più pulita di ogni altro.
Il fascistone meridionale non è un reduce di Mussolini, anzi lo avrebbe disprezzato, ma è autorevole e autoritario, e tutto dice, sa, fa, e risolve. Non è nemmeno di sinistra, non può esserlo, ma un po’ come Croce ci voleva tutti liberali, concede che tutti dobbiamo essere un po’ di sinistra. Si vuole anticonformista, ma con moderazione, un po’ laico, con moderazione, e un po’ bacchettone, sempre con moderazione: non vuole sollevare onde, vuole piacere a tutti. Vuol’essere il centro della simpatia, l’interprete del sentimento comune, quello che tutti vorrebbero essere – magari comunista, una volta, nell’intimo, poiché il Pci, che ha avuto al Sud breve vita, si è creata per quei lontani anni un’aura d’irenismo e giustizia, ma non del Partito. Critica i Dc ma li rispetta. E del fascismo ha solo la doverosa memoria storica, più ridicola peraltro che violenta.
Pasolini – Il poeta debutta con componimenti filologici – subito adocchiati dal filologo Contini – in “volgare”. Sul modello di Dante, con analoga pretesa di separazione dalla cultura colta, e invece con onnivora scienza. Conclude con “Le ceneri di Gramsci”, che sono Foscolo ingigantito. Per l’eloquenza ricercata, che anche la sfida fa sempre retorica – qui è nel metro martelliano, recuperato perché squalificato, “maledetto”. Si può dire che ha perduto l’occasione di una nuova “Commedia” che la storia, personale, politica, gli proponeva?
Pasolini ne ha sempre cognizione, ma sempre la omette, della feroce, violenta antropofagia comunista, benché invasiva, anche sul piano personale, e opprimente. Per pavidità? Per opportunismo? Perché non era nelle sue corde. Era un esteta foscoliano, quindi ingaggiato e polemista nello spirito del tempo nel quale era cresciuto, dannunziano – della vita che imita l’opera (tanto dismesso-omesso quanto invadente nei suoi anni formativi).
Non si misurano ancora abbastanza le omissioni cui la cultura di partito chiamava, con inevadibili autocensure. Togliatti insomma. Altrove, dove c’è un partito con la stessa egemonia culturale, in Francia per esempio, o nell’antifascismo spagnolo, non c’erano le stesse censure, il centralismo fu ferramente democratico solo in Italia. Pasolini ne fu partecipe, anche se si costituiva alibi, ma in quanto letterato, cresciuto nella concezione della letteratura aliena – in contrasto con la vena di polemista, e quindi con la sua capacità di giudizio politico, ma questo è un altro discorso, dell’eroismo o coerenza.
Il friulano non è la lingua di Pasolini. Si dice che era la lingua materna. Ma non si parlava friulano in casa. Pasolini non parlava friulano con la mamma e i cugini. Il suo eloquio, le sue prose non ne hanno gli accenti né le cadenze. Il friulano è il suo “volgare”, un campetto di esercitazione, o uso a freddo delle parole – come lo sarà, con maggiore-minore fortuna, il suo romanesco. Il friulano Pasolini dice, in un testo postumo, “la lingua di mia madre”, che non è propriamente la lingua materna.
Pound – Collaborò negli anni 1930, con William Carlos Wiliams, T.S. Eliot e E.E.Cummings, a una rivista di poesia intitolata “Furioso”, creata e curata all’università di Yale da James Jesus Angleton. Che a fine anni 1940 sarà ai vertici della neonata Cia, dopo aver fatto con successo le prime esperienze di spia a Roma alla Liberazione.
Angleton, cresciuto a Milano, dove suo padre aveva rilevato la sussidiaria italiana della NCR, era bilingue. Fu a capo dell’ufficio Italia dei servizi segreti americani dal febbraio 1944, da Londra. A novembre fu trasferito in Italia, dove rimase dopo la guerra. Gli storici della Cia gli attribuiscono un ruolo di iniziativa e organizzazione nella sconfitta del Fronte popolare l’8 aprile del 1948, aggregando il potere d’influenza della mafia e del Vaticano, e il voto neo fascista. E quindi nella successiva decisione del Congresso Usa di creare la Cia. Nel 1951 fu incaricato dell’ufficio Israele. Nel 1954 fu nominato capo del controspionaggio, carica che mantenne fino alla pensione nel 1975.
Angleton era in eccellenti rapporti con Kim Philby, a Londra e a Washington, per cui negli anni 1950 subì il contraccolpo della defezione di Philby e altri intellettuali inglesi a Mosca. Ma il capo della Cia Allen Dulles apprezzò la sua capacità di giudizio. In particolare la cautela sulle operazione di rollback (sovversione) proposte e tentate da altri suoi dirigenti in Albania e Polonia, tutte fallite.
Con Pound Angleton rimase sempre in contatto – così come con Eliot, Cummings e Williams. Una lettera di Pound al futuro capo del controspionaggio è in testa al sito leconomistamascherato (Geminello Alvi?). Sarebbe di Angleton l’escamotage per cui Pound divenne non giudicabile perché “pazzo”.
J.Roth – Si ricorda – anche Magris - soprattutto che fu cattolico e ubriacone. Cattolico con più forte riprovazione. È un’assurdità ma è la contemporaneità, sia nordica (protestante) che latina (anticlericale). È anche un reliquato della vecchia intramontabile ostilità dell’ebraismo contro il cristianesimo, solo “ribattezzata” (rigiustificata) dall’Olocausto, con la colpa.
letterautore@antiit.eu
giovedì 7 luglio 2011
Bossi flaubertiano
Elementare e geniale. Un’idea non italiana naturalmente - noi siamo arrivati, con difficoltà, all’Uomo Qualunque. Detta in tre battute. L’uso volgare, brutale, provocatore del linguaggio da parte di Bossi, per smontare la politica tradizionale. Il suo parcheggio in una zona ben visibile, un teatro all’aperto da commedia dell’arte, con ruoli riconoscibili, e per questo stesso fatto rassicuranti oltre che distruttivi. La riconquista su queste basi affidabili – la semplicità, la chiarezza, la secchezza - della politica.
È “l’arroganza della semplicità”, nota l’autrice, antropologa di professione. Che però non può non vedere che essa si dimostra, negli enunciati e nei fatti, più “gramsciana” della vecchia sinistra. Nel senso che recupera dal nulla, insomma con poco, l’egemonia culturale, molto al di là dei suoi esiti elettorali, che pure sono lusinghieri – resta da dire che la Lega è fenomeno milanese, e che diventa nazionale perché Milano si è impossessata dell’Italia: è un fatto più propriamente economico e sociologico, e quindi bisognerà aspettare qualcun altro oltralpe ne abbia voglia.
Il titolo echeggia “L’idiota in famiglia”, il volumone che Sartre affettuosamente ha dedicato a Flaubert. Spiritoso. Ma ha propiziato una terribile reprimenda di Pierluigi Battista a Gad Lerner, reo di aver firmato la prefazione: “Bobbio non chiamava idioti gli avversari” – ed è l’unica eco che il libro ha suscitato, per il resto il solito assordante silenzio. Un’altra cosa da dire però ci sarebbe: Lerner stigmatizza lo stilema della beffa, che “svuota di significato la politica”. Lui non si rivede mai? Meglio la beffa comunque dell’indignazione – un Umberto Eco onesto direbbe Bossi più onesto di Lerner.
Lynda Dematteo, L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, Feltrinelli, pp. 266 € 16
È “l’arroganza della semplicità”, nota l’autrice, antropologa di professione. Che però non può non vedere che essa si dimostra, negli enunciati e nei fatti, più “gramsciana” della vecchia sinistra. Nel senso che recupera dal nulla, insomma con poco, l’egemonia culturale, molto al di là dei suoi esiti elettorali, che pure sono lusinghieri – resta da dire che la Lega è fenomeno milanese, e che diventa nazionale perché Milano si è impossessata dell’Italia: è un fatto più propriamente economico e sociologico, e quindi bisognerà aspettare qualcun altro oltralpe ne abbia voglia.
Il titolo echeggia “L’idiota in famiglia”, il volumone che Sartre affettuosamente ha dedicato a Flaubert. Spiritoso. Ma ha propiziato una terribile reprimenda di Pierluigi Battista a Gad Lerner, reo di aver firmato la prefazione: “Bobbio non chiamava idioti gli avversari” – ed è l’unica eco che il libro ha suscitato, per il resto il solito assordante silenzio. Un’altra cosa da dire però ci sarebbe: Lerner stigmatizza lo stilema della beffa, che “svuota di significato la politica”. Lui non si rivede mai? Meglio la beffa comunque dell’indignazione – un Umberto Eco onesto direbbe Bossi più onesto di Lerner.
Lynda Dematteo, L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, Feltrinelli, pp. 266 € 16
L’enciclopedia sovietica di Togliatti
Uno spiraglio la storica Gilda Zazzara riesce infine ad aprire nel rimosso, un blocco durissimo. Ventidue anni dopo la caduta del sovietismo, venti dopo la fine del Pci. Un segnale tanto più promettente per venire dall’editore che la storia più di tutti ha costipato – perfino Le Goff, perfino Canfora – nella sua seconda reincarnazione postliberale. E da una studiosa alieva di Guido Quazza, che fu censore occhiuto per conto del Partito di De Felice, della popolarità del fascismo.
Fra le tante assurdità del progetto egemonico togliattiano spicca quello di controllare la storia controllando la storiografia. Tanto più assurdo per essere stato non solo tentato ma (quasi) riuscito: basta scorrere la lista degli storici accreditati dal Partito in questo libro e confrontarla con la produzione storiografica edita dalle grandi case editrici e pubblicizzata nei giornali egemonizzati per vedere che poco ne restava fuori – e quel poco massacrato, da Chabod a De Felice. Tutti presto perenti, Spriano, Alatri, Procacci, Ragionieri, Caracciolo, Cafagna, Zangheri, Rosario Villari, Villani, Santarelli, Carocci, Zangheri, Gastone Manacorda, lo stesso Quazza, nessuna opera se ne ricorda, ma dominanti. Maestri della “memoria trapiantata”, guardie giurate del centralismo democratico, o delle parole d’ordine, il politicamente corretto di una volta. A Chabod, alla sua “Storia della politica estera italiana” fu rimproverato di non aver tenuto conto della masse contadine – proprio così: lo scrisse Caracciolo su “Rinascita” nel 1951, e lo ribadirono Arfè e Carocci, la reazione era, come è, sempre corale.
Si suole dire quello dell’egemonia progetto gramsciano ma in realtà è del partito di Togliatti, e poi di Berlinguer. Un progetto talmente insidioso, malgrado la ridicolaggine, da essersi insediato stabilmente nell’“opinione pubblica”, sempre e unicamente faziosa: i media, i talk show, le intercettazioni, le indiscrezioni, i vari servizi che, nell’abolizione della storia decretata da Luigi Berlinguer a fine millennio, tengono ora il posto della storiografia. Del resto si può riderne solo standone fuori: il rifacimento degli eventi e dei personaggi fu collaudata specialità sovietica, già da Lenin e fino a Breznev, di grandi capacità persuasorie bisogna dire (la storia dell’opinione pubblica al tempo del Komintern e di Willi Münzenberg, pure così appassionante, resta sempre da fare).
Gilda Zazzara, La storia a sinistra, Laterza, pp. 208 € 20
Fra le tante assurdità del progetto egemonico togliattiano spicca quello di controllare la storia controllando la storiografia. Tanto più assurdo per essere stato non solo tentato ma (quasi) riuscito: basta scorrere la lista degli storici accreditati dal Partito in questo libro e confrontarla con la produzione storiografica edita dalle grandi case editrici e pubblicizzata nei giornali egemonizzati per vedere che poco ne restava fuori – e quel poco massacrato, da Chabod a De Felice. Tutti presto perenti, Spriano, Alatri, Procacci, Ragionieri, Caracciolo, Cafagna, Zangheri, Rosario Villari, Villani, Santarelli, Carocci, Zangheri, Gastone Manacorda, lo stesso Quazza, nessuna opera se ne ricorda, ma dominanti. Maestri della “memoria trapiantata”, guardie giurate del centralismo democratico, o delle parole d’ordine, il politicamente corretto di una volta. A Chabod, alla sua “Storia della politica estera italiana” fu rimproverato di non aver tenuto conto della masse contadine – proprio così: lo scrisse Caracciolo su “Rinascita” nel 1951, e lo ribadirono Arfè e Carocci, la reazione era, come è, sempre corale.
Si suole dire quello dell’egemonia progetto gramsciano ma in realtà è del partito di Togliatti, e poi di Berlinguer. Un progetto talmente insidioso, malgrado la ridicolaggine, da essersi insediato stabilmente nell’“opinione pubblica”, sempre e unicamente faziosa: i media, i talk show, le intercettazioni, le indiscrezioni, i vari servizi che, nell’abolizione della storia decretata da Luigi Berlinguer a fine millennio, tengono ora il posto della storiografia. Del resto si può riderne solo standone fuori: il rifacimento degli eventi e dei personaggi fu collaudata specialità sovietica, già da Lenin e fino a Breznev, di grandi capacità persuasorie bisogna dire (la storia dell’opinione pubblica al tempo del Komintern e di Willi Münzenberg, pure così appassionante, resta sempre da fare).
Gilda Zazzara, La storia a sinistra, Laterza, pp. 208 € 20
Intercettare è peccato, a Londra
Unanime e scandalizzata è la riprovazione di Murdoch, e della sua amante e collaboratrice Rebekah Brooks, bella donna peraltro, perché hanno spiato principi, attrici e calciatori per i loro giornali di pettegolezzi. Oggetto della riprovazione è che avrebbero intercettato i telefonini di alcune bambine rapite, e poi uccise – cosa impossibile: i rapitori per prima cosa distruggono i cellulari dei rapiti. “Intercettare i telefoni è un brutto reato”, salomoneggiano i quotidiani italiani. Eccetto che in Italia, ovviamente.
La vera differenza è che Murdoch e la sua ex segretaria non stampavano cose false, “montate”: tagliate, cucite, e soprattutto ammassate. Murdoch non spreca la carta – e infatti, ora che gli inserzionisti disertano il suo tabloid lo chiude. A questo riguardo anzi Murdoch è un santo verde, non stampa tre milioni di copie al giorno, una foresta, per nulla, e si può star certi che presto se ne farà la proclamazione - troppi giornalisti sono lautamente incensati da Sky. Se non prevarrà l’invidia per la sua rossa e aggressiva Rebekah, che esaurisce tutto l’immaginario nazionale, roba da obliterare i sogni. O il dispetto per l’onestà, malgrado tutto, dell’affarista, che non spaccia la spazzatura per giustizia – anche Rebekah non fa la morale, solo vuole essere prima nel giornalismo di serie B.
La vera differenza è che Murdoch e la sua ex segretaria non stampavano cose false, “montate”: tagliate, cucite, e soprattutto ammassate. Murdoch non spreca la carta – e infatti, ora che gli inserzionisti disertano il suo tabloid lo chiude. A questo riguardo anzi Murdoch è un santo verde, non stampa tre milioni di copie al giorno, una foresta, per nulla, e si può star certi che presto se ne farà la proclamazione - troppi giornalisti sono lautamente incensati da Sky. Se non prevarrà l’invidia per la sua rossa e aggressiva Rebekah, che esaurisce tutto l’immaginario nazionale, roba da obliterare i sogni. O il dispetto per l’onestà, malgrado tutto, dell’affarista, che non spaccia la spazzatura per giustizia – anche Rebekah non fa la morale, solo vuole essere prima nel giornalismo di serie B.
Torna la chiesa col proporzionale, senza bipolarismo
C’è la chiesa di Bagnasco dietro il proporzionale e contro il bipolarismo, e dunque il ritorno del vecchio si può dire acquisito. Tutte le forze confessionali, non solo l’Udc, sono mobilitate: le varie associazioni e fondazioni delle opere, gli ex Popolari del Pd, i nuovi credenti di Fini e Rutelli. Che in aggiunta a Bossi e Di Pietro possono, se non fare maggioranza, innescare una valanga maggioritaria.
All’indomani dei referendum - il colpo che la Cei, la conferenza dei vescovi, ha giudicato risolutivo contro Berlusconi, e quindi all’asse centrale del bipolarismo - il cardinale Bagnasco l’ha fatto scrivere con chiarezza al suo giornale, “Avvenire”. La “primavera elettoral-referendaria” ha aperto “quell’agognata «fase nuova» della politica italiana”. Fase che il giornale dice ancora faticosa ma “interessante e coinvolgente”. E il senso del coinvolgimento è la rottura del “bipolarismo «furioso»”, per un nuovo assetto politico: si apre “il cantiere della «ristrutturazione» di partiti e alleanze, e questo sarà certamente un bene”.
La chiesa torna al controllo, e alla gestione del potere, attraverso i governi di coalizione,che un’istituzione extratemporale può gestire agevolmente. E che non si fa più coincidere con l’interesse dell’Italia. L’opzione del Vaticano, col pontificato debole, è tornata quella curiale e degli interessi di bottega, pre-Giovanni Paolo II e pre-Ruini. I quali invece avevano puntato al recupero del senso religioso e cristiano della vita nazionale, e alla proiezione sociale più che politica.
All’indomani dei referendum - il colpo che la Cei, la conferenza dei vescovi, ha giudicato risolutivo contro Berlusconi, e quindi all’asse centrale del bipolarismo - il cardinale Bagnasco l’ha fatto scrivere con chiarezza al suo giornale, “Avvenire”. La “primavera elettoral-referendaria” ha aperto “quell’agognata «fase nuova» della politica italiana”. Fase che il giornale dice ancora faticosa ma “interessante e coinvolgente”. E il senso del coinvolgimento è la rottura del “bipolarismo «furioso»”, per un nuovo assetto politico: si apre “il cantiere della «ristrutturazione» di partiti e alleanze, e questo sarà certamente un bene”.
La chiesa torna al controllo, e alla gestione del potere, attraverso i governi di coalizione,che un’istituzione extratemporale può gestire agevolmente. E che non si fa più coincidere con l’interesse dell’Italia. L’opzione del Vaticano, col pontificato debole, è tornata quella curiale e degli interessi di bottega, pre-Giovanni Paolo II e pre-Ruini. I quali invece avevano puntato al recupero del senso religioso e cristiano della vita nazionale, e alla proiezione sociale più che politica.
La chiesa specula, contro le parrocchie
Torna la chiesa prim’attrice degli affari italiani, dopo il lungo intervallo di papa Woytiła, e torna la speculazione edilizia. A Milano non è mai cessata. A Roma, dove ha possedimenti immensi da valorizzare, il Vicariato è all’opera per un nuovo sacco. Ora nella zona Nord-Ovest, nei quartieri Aurelio e Monteverde, dove i terreni erano stati frazionati fra i tanti ordini di frati e suore. Cessando l’attività di molti di questi ordini per la crisi dei ruoli e delle vocazioni, conventi, case-madri, scuole, istituti vengono rapidamente ceduti per la valorizzazione immobiliare. Chiavi in mano.
È questa la formula risolutiva del business, che mette i costruttori in grado di vendere, e gli investitori di comprare con sicurezza, prima ancora di avviare la costruzione: il venditore è garanzia che le pratiche procedono senza intoppi e nei tempi, per il souci d’éfficacité che è sempre stato il marchio vaticano. I progetti di valorizzazione fioriscono già muniti di ogni crisma regolamentare, anche contro i vincoli alla valorizzazione – verde, impatto ambientale, servizi, parcheggi, antropizzazione. Che così diventa un affare imbattibile, moltiplicando per dieci e anche per venti le volumetrie rispetto alle vecchie case di religiosi, in altezza e in superficie, cancellando tutte le aree verdi, moltiplicando la densità abitativa e l’intasamento. I margini diventano così enormi.
Il guadagno per il vicariato dev’essere così robusto. Al punto che la politica della valorizzazione viene spinta anche contro gli interessi delle parrocchie. Nel quartiere romano di Monteverde, una scuola raddoppiata in volume e venduta ai bei tempi, cinque anni fa, come immobile di lusso ha tra i nuovi proprietari irriducibili laici, che hanno fatto causa all’adiacente parrocchia contro il suono delle campane, “fonte di angosce”, e l’uso pomeridiano dei cortili come oratorio per i ragazzi, e l’hanno vinta.
È questa la formula risolutiva del business, che mette i costruttori in grado di vendere, e gli investitori di comprare con sicurezza, prima ancora di avviare la costruzione: il venditore è garanzia che le pratiche procedono senza intoppi e nei tempi, per il souci d’éfficacité che è sempre stato il marchio vaticano. I progetti di valorizzazione fioriscono già muniti di ogni crisma regolamentare, anche contro i vincoli alla valorizzazione – verde, impatto ambientale, servizi, parcheggi, antropizzazione. Che così diventa un affare imbattibile, moltiplicando per dieci e anche per venti le volumetrie rispetto alle vecchie case di religiosi, in altezza e in superficie, cancellando tutte le aree verdi, moltiplicando la densità abitativa e l’intasamento. I margini diventano così enormi.
Il guadagno per il vicariato dev’essere così robusto. Al punto che la politica della valorizzazione viene spinta anche contro gli interessi delle parrocchie. Nel quartiere romano di Monteverde, una scuola raddoppiata in volume e venduta ai bei tempi, cinque anni fa, come immobile di lusso ha tra i nuovi proprietari irriducibili laici, che hanno fatto causa all’adiacente parrocchia contro il suono delle campane, “fonte di angosce”, e l’uso pomeridiano dei cortili come oratorio per i ragazzi, e l’hanno vinta.
mercoledì 6 luglio 2011
Dio e la Svizzera imbroglioni
L’immaginazione è realtà. O singolare allegoria della Svizzera anni 1980, piena di delinquenti, imbroglioni (mercanti d’arte, avvocati, albergatori), ricchi che fanno i poveri, e di Dio. Che, con la barba e senza, non sa fare che male. Al coperto di un qualche (ex) consigliere federale, e il solito poliziotto inutile. Ubriacona e, s’indovina, scorreggiona. Ma più assorta delle altre allegorie di Dürrenmatt – una dama di compagnia “Uriel” vi fa gli orologi a tempo mobile, di cento oppure quindici ore, ore di quindici, o cinquanta o cento minuti. Non polemica né satirica, di normale ferocia – la valle di lacrime echeggiata nel titolo (l’originale è “Durcheinandertal”, la valle sottosopra), i beati poveri del famoso messaggio, e i tanti, specie i ricchi, che “vivono nella grazia, peccato più peccato meno”, anche se specializzati nel crimine. E tuttavia di lettura sempre incalzante e rapida, sorretta da una traduzione molto scorrevole di Giovanna Agabio.
Il Grande Vecchio e Belial vi sceneggiano anche quella che sarà la pubblicità del caffè di Bonolis. Dürrenmatt è morto prima, si sarebbe divertito. La caccia a un cane da abbattere, per avere morso lo stupratore della sua padroncina, impegna a turno la polizia locale, cantonale, federale, e infine l’esercito, con l’artiglieria. Testimone della vicenda è il maestro, che, “influenzato da Robert Walser, era stato uno dei primi a introdurre la candida innocenza nella letteratura confederale” - sebbene perseguitato dalla “maledetta signora von Stein”: il fatto è un fatto.
Friedrich Dürrenmatt, La Valle del Caos, Einaudi Tasc., pp. 116 € 9,50
Il Grande Vecchio e Belial vi sceneggiano anche quella che sarà la pubblicità del caffè di Bonolis. Dürrenmatt è morto prima, si sarebbe divertito. La caccia a un cane da abbattere, per avere morso lo stupratore della sua padroncina, impegna a turno la polizia locale, cantonale, federale, e infine l’esercito, con l’artiglieria. Testimone della vicenda è il maestro, che, “influenzato da Robert Walser, era stato uno dei primi a introdurre la candida innocenza nella letteratura confederale” - sebbene perseguitato dalla “maledetta signora von Stein”: il fatto è un fatto.
Friedrich Dürrenmatt, La Valle del Caos, Einaudi Tasc., pp. 116 € 9,50
Il complotto è perfetto contro Strauss Kahn – troppo?
Tutti gli ingredienti del complotto sono presenti nel caso Strauss Kahn. Non è possibile in un albergo americano che una cameriera si prostituisca: i controlli di sicurezza sono al primo posto nei servizi dei grandi alberghi in Usa. Una signorina guineana non pensa a emigrare negli Usa: la Guinea ha come solo orizzonte la Francia. Due problemi che si risolvono se i servizi segreti francesi parlano (lo ricattano, lo minacciano, lo blandiscono, anche senza soldi) col direttore del Sofitel, catena francese di alberghi, di New York. O col suo direttore per la sicurezza. Che normalmente è un ex agente. Mentre la cameriera-prostituta si ritrova sul conto tre versamenti per centomila dollari. Cifra fatidica. Di origine ignota – la polizia di New York parla di entrate dalla droga ma per mascherare la propria incapacità, o connivenza: i soldi della droga non marciano per bonifico bancario da conto cifrato, un pusher non ha un saldo attivo di tale entità.
Il resto è marginale. Una giornalista-politica-poetessa, che copre la psicolabilità con uno strano snobismo, accusa a intermittenza Strauss Kahn di averla stuprata durante un’intervista. Ma la cosa si segnala per essere isolata: di ricordi del genere in questi casi di solito ce ne sono molti. Altre donne che preannunciavano rivelazioni ora tacciono – forse, speranzose, per ingordigia.
I servizi francesi hanno una storia anche recente di obbedienza politica, di spericolatezza, e di approssimazione. Il caso di Gheddafi, dall’abbattimento dell’aereo a Ustica alla guerra in corso, è solo uno. Altre azioni, note perché abortite, tentarono contro Greenpeace, e contro lo stesso Sarkozy. Anche lo sgonfiamento della vittima-teste può fare parte del gioco: i servizi servono sempre più padroni.
L’abbattimento di Strauss Kahn non è da poco: è l’unico spiraglio aperto a Sarkozy alla riconferma tra un anno. Contro di lui il presidente uscente partiva battuto. Addirittura, umiliazione suprema, al primo turno. Il presidente Sarkozy è stato il primo a sapere dell’arresto di Strauss Kahn, tramite la direzione del Sofitel. Sarkozy ha già occupato con una sua fedelissima, Christine Lagarde, l’importante direzione generale del Fmi, al posto dell’ingombrante Strauss Kahn.
Non c’è tassello, insomma, che non combaci nel puzzle del complotto. Che tuttavia probabilmente non c’è stato: i complotti non ci sono mai. Mentre ci può essere, perché no, una prostituta guineana che riesce ad avere il visto per gli Usa (i due paesi, com’è noto, non sono confinanti), e un posto in un albergo di lusso, dove si prostituisce ricattando i clienti. Anche una prostituta che sappia cosa vuole dire direttore del Fmi, perché no.
Il resto è marginale. Una giornalista-politica-poetessa, che copre la psicolabilità con uno strano snobismo, accusa a intermittenza Strauss Kahn di averla stuprata durante un’intervista. Ma la cosa si segnala per essere isolata: di ricordi del genere in questi casi di solito ce ne sono molti. Altre donne che preannunciavano rivelazioni ora tacciono – forse, speranzose, per ingordigia.
I servizi francesi hanno una storia anche recente di obbedienza politica, di spericolatezza, e di approssimazione. Il caso di Gheddafi, dall’abbattimento dell’aereo a Ustica alla guerra in corso, è solo uno. Altre azioni, note perché abortite, tentarono contro Greenpeace, e contro lo stesso Sarkozy. Anche lo sgonfiamento della vittima-teste può fare parte del gioco: i servizi servono sempre più padroni.
L’abbattimento di Strauss Kahn non è da poco: è l’unico spiraglio aperto a Sarkozy alla riconferma tra un anno. Contro di lui il presidente uscente partiva battuto. Addirittura, umiliazione suprema, al primo turno. Il presidente Sarkozy è stato il primo a sapere dell’arresto di Strauss Kahn, tramite la direzione del Sofitel. Sarkozy ha già occupato con una sua fedelissima, Christine Lagarde, l’importante direzione generale del Fmi, al posto dell’ingombrante Strauss Kahn.
Non c’è tassello, insomma, che non combaci nel puzzle del complotto. Che tuttavia probabilmente non c’è stato: i complotti non ci sono mai. Mentre ci può essere, perché no, una prostituta guineana che riesce ad avere il visto per gli Usa (i due paesi, com’è noto, non sono confinanti), e un posto in un albergo di lusso, dove si prostituisce ricattando i clienti. Anche una prostituta che sappia cosa vuole dire direttore del Fmi, perché no.
Il rating (la speculazione) fa grande la Germania
Il disegno è trasparente, a un effetto dichiarato, con un timing perfino annunciato, e in un certo senso obbligato: abbattere l’euro, con la tattica degli Orazi e i Curiazi. Con guadagni spropositati a ogni mossa, e un premio finale di cui è difficile immaginare la dimensione. Benefici cui non si vede perché il mercato debba rinunciare. Le agenzie angloamericane di rating, che sono emanazione e socie in affari delle banche angloamericane, fanno il loro mestiere in questa ottica: com’è pensabile altrimenti che siano a premio i mutui sub-prime, gravati dalla quarta o quinta ipoteca, e spazzatura i debiti di due stati europei, Grecia e Portogallo – non l’Irlanda, perché l’Irlanda è parte del sistema angloamericano? L’obiettivo prossimo è scardinare la Spagna. Infine l’Italia, già costretta a pagare un interesse del 2,50 per cento in più dei titoli tedeschi.
Ciò che non si capisce invece è che difesa voglia fare l’Europa. O l’euro. O la Germania, che si penserebbe la potenza dell’euro. L’Europa non c’è: basterebbe un impegno della Bce sulle emissioni dei titoli di debito nazionali per calmierare i rendimenti, evitandone l’avvitamento sul Bund tedesco. Che, in teoria, in una moneta unica, non ha senso: un costo diverso, anche molto diverso, tra i vari titoli di Stato. Tenendo il timone saldo, sicuro, antiscosse. Con grande risparmio, monetario e di attenzione (annunci, rinvii, polemiche), sulle crisi ricorrenti. Che vanno a beneficio unicamente dei fondi e delle banche. È questo che non si vuole? Ma è possibile che sia solo stupidità.
L’Europa non c’è perché la Germania non la vuole, questa Germania a pochi ani dalla riunificazione. La verità è che la Germania non vuole fare nessuna difesa, la realtà cioè: ogni intervento programma a rate e a gocce, sapendo, lo sa anche l’uomo della strada, che l’interveto rateizzato è solo un invito alla speculazione. Nessuna soluzione globale è studiata, nonché non proposta. Le verità – la realtà – è che la Germania trae, da questo euro “sgranato” per via della diversa affidabilità del debito nazionale, un beneficio concorrenziale enorme sulle altre economie europee, dalla Francia in giù – anche il debito francese deve pagare un premio sui titoli tedeschi.
Si dice la Germania incapace politicamente. O condizionata da un’opinione pubblica contraria a “pagare per gli altri”. La verità – la realtà – è che la Germania già “paga per gli altri”, seppure a vuoto. Ma questo in termini contabilistici. A una sommatoria reale la Germania non paga e anzi ci guadagna: in termini di stabilità sociale, d’incrementi possibili di produttività, di crescita economica, di riduzione del rapporto deficit\pil. La Germania di oggi (di Berlino, riunificata) è molto diversa da quella di vent’anni fa, di Pöhl e Tietmeyer, che creava l’euro.
Ciò che non si capisce invece è che difesa voglia fare l’Europa. O l’euro. O la Germania, che si penserebbe la potenza dell’euro. L’Europa non c’è: basterebbe un impegno della Bce sulle emissioni dei titoli di debito nazionali per calmierare i rendimenti, evitandone l’avvitamento sul Bund tedesco. Che, in teoria, in una moneta unica, non ha senso: un costo diverso, anche molto diverso, tra i vari titoli di Stato. Tenendo il timone saldo, sicuro, antiscosse. Con grande risparmio, monetario e di attenzione (annunci, rinvii, polemiche), sulle crisi ricorrenti. Che vanno a beneficio unicamente dei fondi e delle banche. È questo che non si vuole? Ma è possibile che sia solo stupidità.
L’Europa non c’è perché la Germania non la vuole, questa Germania a pochi ani dalla riunificazione. La verità è che la Germania non vuole fare nessuna difesa, la realtà cioè: ogni intervento programma a rate e a gocce, sapendo, lo sa anche l’uomo della strada, che l’interveto rateizzato è solo un invito alla speculazione. Nessuna soluzione globale è studiata, nonché non proposta. Le verità – la realtà – è che la Germania trae, da questo euro “sgranato” per via della diversa affidabilità del debito nazionale, un beneficio concorrenziale enorme sulle altre economie europee, dalla Francia in giù – anche il debito francese deve pagare un premio sui titoli tedeschi.
Si dice la Germania incapace politicamente. O condizionata da un’opinione pubblica contraria a “pagare per gli altri”. La verità – la realtà – è che la Germania già “paga per gli altri”, seppure a vuoto. Ma questo in termini contabilistici. A una sommatoria reale la Germania non paga e anzi ci guadagna: in termini di stabilità sociale, d’incrementi possibili di produttività, di crescita economica, di riduzione del rapporto deficit\pil. La Germania di oggi (di Berlino, riunificata) è molto diversa da quella di vent’anni fa, di Pöhl e Tietmeyer, che creava l’euro.
martedì 5 luglio 2011
Il calcio malato di Milano
Si punta sempre sulle scommesse e le chiacchiere al bar quando l’evidenza è che il calcio è malato al vertice. Ora la Juventus chiede giustizia da Abete, ed è tutto dire. È l’uomo che nel 2006 tentò di affossare Lippi e gli atleti simbolo della Nazionale che poi vinse il Mondiale, Buffon e Cannavaro, con falsi scandali, e Lippi ebbe difficoltà ad abbracciare nelle celebrazioni.
Le prove che l’Inter telefonava agli arbitri sono di due anni fa. Il procuratore Palazzi le ha acquisite un anno e mezzo fa, e dopo “giornate di duro lavoro”, le ha chiuse con la prescrizione. Erano bastate poche settimane nel 2006 per condannare tutti gli altri, a partire dalla Juventus. I debiti dell’Inter sono più del fatturato, e niente, questo non interessa a nessuno. Dopo perdite cumulative negli ultimi quattro anni per 578 milioni, che avrebbero fatto fallire qualsiasi altra società con un fatturato di 300 milioni.
Le perdite sono state in parte colmate con artifici contabili, su cui la Corte Federale ha steso un velo. E col collocamento discusso della Saras in Borsa, e niente nemmeno su questo versante: la Procura di Milano ha dovuto aprire un’inchiesta ma aspetta il momento opportuno per archiviarla, anche se ogni sottoscrittore sa che il furto c’è stato.
Non solo nessun provvedimento di rigore viene preso, ma non del vero malaffare si legge neppure una riga, neppure a titolo di gossip. Anche il gossip è selettivo, come la giustizia. Un arbitro sicuramente corrotto ha diretto per anni il calcio dopo Calciopoli: non se ne parla. Gli organi federali sono stati presi d’assalto nel 2006 da uomini del Milan e dell’Inter, che non li hanno più mollati: non se ne parla. Il consiglio della Figc che dovrebbe ridecidere sullo scudetto che la stessa Figc ha assegnato a tavolino all’Inter deciderà ora di non decidere, i presidenti sanno chi comanda. L’Inter ha vinto due scudetti con due e tre punti, più che sospetti, di vantaggio sulla Roma: non se ne parla – la Roma (società, tifo, e Totti-De Rossi se non la squadra) se la prende sempre con la Juventus, perché sa che non conta niente. Ha pagato la Juventus perché ai due eredi, sicuramente non cerebrolesi, non sembrò vero di potersi liberare d’un colpo di ogni concorrenza all’interno della Famiglia. I due erano disposti per questo a ripartire dalla serie C, si ricorderà, se non dalla Promozione. E ancora non smettono di omaggiare per questo Milano, allestendo società e squadre da Eccellenza, o giù di lì.
Le prove che l’Inter telefonava agli arbitri sono state omesse dai giudici napoletani che hanno istruito il caso (uno dei quali ha fatto un balzo in carriera) e\o dalla polizia giudiziaria che le smaterializzò. E questo è un altro aspetto, più inquietante, perché denuncia lo stato della giustizia. È lo stesso blocco d’accusa che ha ricusato per ben due volte la presidente del tribunale che giudica Moggi, Teresa Casoria, per intimorirla: con che serenità la giudice Casoria potrà giudicare? Un processo senza nessun crimine accertato. Senza nemmeno un tentativo di corruzione. E pieno di “prove” consistenti nelle cronache delle partite il lunedì, e cioè di moviole sui rigori, sul pallone fuori o dentro, sul fuorigioco millimetrico – roba da non credere, ma l’istruttoria è stata stampata dall’“Espresso”, firmata da un colonnello dei carabinieri, ed è ancora recuperabile. Ma si sa che Napoli ha scelto di fare da killer per Milano.
A proposito di notizie occultate basti quanto detto dalla giudice Casoria di fronte al Csm, al quale era stata denunciata, che nessun giornale ha riferito (l'ha denunciata la giudice Francesca Pandolfi, di cui chi ha seguito un poco il processo a Moggi – la giudice è nella terna – si meraviglia che abbia ancora titolo alla professione): “La Procura di Napoli ha chiesto al presidente del Tribunale di fare qualcosa per farmi astenere. La Pandolfi ha reiterato questo invito ma io non avevo nessun motivo per non fare il processo Calciopoli. Ho sostenuto l’accusa in processi importantissimi (alla Nuova Camorra, Cutolo & soci, et al., n.d.r.), non avevo alcun interesse in questo processo, il calcio non lo conosco, non tifo per nessuno, quindi fare il processo era il mio dovere. Ci si astiene se c’è motivo di farlo perché svolgere i processi è un dovere. Due sentenze della Corte d’Appello sulle precedenti ricusazioni hanno ribadito che era un dovere andare avanti.
“Devo notare come è stato strumentalizzato in tutti i modi questo procedimento. Il pm Beatrice (è il pubblico accusatore che ha fatto il salto in Cassazione, n.d.r.) addirittura si era lamentato perché facevo cominciare il processo troppo in fretta. Quando vennero rigettate le richieste per le parti civili si rischiava la paralisi di Calciopoli, ma il pericolo era di avere in udienza come parte civile ogni singolo tifoso di calcio. Invece siamo arrivati alla fine del dibattimento. Piuttosto, vedo i Pm renitenti a fare la requisitoria. Hanno chiesto indagini supplementari…”
Le hanno i Procuratori le hanno poi concluse, prolungando i tempi del processo. Ma ancora non hanno la requisitoria e forse le riapriranno. Hanno ottenuto i nuovi testimoni che chiedevano, che hanno fatto saltare con le assenze (compreso Gianfelice Facchetti) alcune udienze, giusto per tirarla ancora in lungo, e non hanno chiarito nulla. E hanno visto ammonito il loro teste principale, l’ex arbitro Nucini, per “scarsa attendibilità” – “consenziente lo stesso Pm Capuano” (quello subentrato a Beatrice, n.d.r.), ha fatto notare al Csm la giudice Casoria. Napoli resta sempre la succursale di Milano per gli affari sporchi - la Napoli che conta, segreta e fredda come un buon killer.
Le prove che l’Inter telefonava agli arbitri sono di due anni fa. Il procuratore Palazzi le ha acquisite un anno e mezzo fa, e dopo “giornate di duro lavoro”, le ha chiuse con la prescrizione. Erano bastate poche settimane nel 2006 per condannare tutti gli altri, a partire dalla Juventus. I debiti dell’Inter sono più del fatturato, e niente, questo non interessa a nessuno. Dopo perdite cumulative negli ultimi quattro anni per 578 milioni, che avrebbero fatto fallire qualsiasi altra società con un fatturato di 300 milioni.
Le perdite sono state in parte colmate con artifici contabili, su cui la Corte Federale ha steso un velo. E col collocamento discusso della Saras in Borsa, e niente nemmeno su questo versante: la Procura di Milano ha dovuto aprire un’inchiesta ma aspetta il momento opportuno per archiviarla, anche se ogni sottoscrittore sa che il furto c’è stato.
Non solo nessun provvedimento di rigore viene preso, ma non del vero malaffare si legge neppure una riga, neppure a titolo di gossip. Anche il gossip è selettivo, come la giustizia. Un arbitro sicuramente corrotto ha diretto per anni il calcio dopo Calciopoli: non se ne parla. Gli organi federali sono stati presi d’assalto nel 2006 da uomini del Milan e dell’Inter, che non li hanno più mollati: non se ne parla. Il consiglio della Figc che dovrebbe ridecidere sullo scudetto che la stessa Figc ha assegnato a tavolino all’Inter deciderà ora di non decidere, i presidenti sanno chi comanda. L’Inter ha vinto due scudetti con due e tre punti, più che sospetti, di vantaggio sulla Roma: non se ne parla – la Roma (società, tifo, e Totti-De Rossi se non la squadra) se la prende sempre con la Juventus, perché sa che non conta niente. Ha pagato la Juventus perché ai due eredi, sicuramente non cerebrolesi, non sembrò vero di potersi liberare d’un colpo di ogni concorrenza all’interno della Famiglia. I due erano disposti per questo a ripartire dalla serie C, si ricorderà, se non dalla Promozione. E ancora non smettono di omaggiare per questo Milano, allestendo società e squadre da Eccellenza, o giù di lì.
Le prove che l’Inter telefonava agli arbitri sono state omesse dai giudici napoletani che hanno istruito il caso (uno dei quali ha fatto un balzo in carriera) e\o dalla polizia giudiziaria che le smaterializzò. E questo è un altro aspetto, più inquietante, perché denuncia lo stato della giustizia. È lo stesso blocco d’accusa che ha ricusato per ben due volte la presidente del tribunale che giudica Moggi, Teresa Casoria, per intimorirla: con che serenità la giudice Casoria potrà giudicare? Un processo senza nessun crimine accertato. Senza nemmeno un tentativo di corruzione. E pieno di “prove” consistenti nelle cronache delle partite il lunedì, e cioè di moviole sui rigori, sul pallone fuori o dentro, sul fuorigioco millimetrico – roba da non credere, ma l’istruttoria è stata stampata dall’“Espresso”, firmata da un colonnello dei carabinieri, ed è ancora recuperabile. Ma si sa che Napoli ha scelto di fare da killer per Milano.
A proposito di notizie occultate basti quanto detto dalla giudice Casoria di fronte al Csm, al quale era stata denunciata, che nessun giornale ha riferito (l'ha denunciata la giudice Francesca Pandolfi, di cui chi ha seguito un poco il processo a Moggi – la giudice è nella terna – si meraviglia che abbia ancora titolo alla professione): “La Procura di Napoli ha chiesto al presidente del Tribunale di fare qualcosa per farmi astenere. La Pandolfi ha reiterato questo invito ma io non avevo nessun motivo per non fare il processo Calciopoli. Ho sostenuto l’accusa in processi importantissimi (alla Nuova Camorra, Cutolo & soci, et al., n.d.r.), non avevo alcun interesse in questo processo, il calcio non lo conosco, non tifo per nessuno, quindi fare il processo era il mio dovere. Ci si astiene se c’è motivo di farlo perché svolgere i processi è un dovere. Due sentenze della Corte d’Appello sulle precedenti ricusazioni hanno ribadito che era un dovere andare avanti.
“Devo notare come è stato strumentalizzato in tutti i modi questo procedimento. Il pm Beatrice (è il pubblico accusatore che ha fatto il salto in Cassazione, n.d.r.) addirittura si era lamentato perché facevo cominciare il processo troppo in fretta. Quando vennero rigettate le richieste per le parti civili si rischiava la paralisi di Calciopoli, ma il pericolo era di avere in udienza come parte civile ogni singolo tifoso di calcio. Invece siamo arrivati alla fine del dibattimento. Piuttosto, vedo i Pm renitenti a fare la requisitoria. Hanno chiesto indagini supplementari…”
Le hanno i Procuratori le hanno poi concluse, prolungando i tempi del processo. Ma ancora non hanno la requisitoria e forse le riapriranno. Hanno ottenuto i nuovi testimoni che chiedevano, che hanno fatto saltare con le assenze (compreso Gianfelice Facchetti) alcune udienze, giusto per tirarla ancora in lungo, e non hanno chiarito nulla. E hanno visto ammonito il loro teste principale, l’ex arbitro Nucini, per “scarsa attendibilità” – “consenziente lo stesso Pm Capuano” (quello subentrato a Beatrice, n.d.r.), ha fatto notare al Csm la giudice Casoria. Napoli resta sempre la succursale di Milano per gli affari sporchi - la Napoli che conta, segreta e fredda come un buon killer.
Ombre - 94
Berlusconi si meraviglia della meraviglia generale sulla non esecutività delle sentenze d’appello da lui introdotta surrettiziamente in un codicillo della finanziaria. Che consentirà a Fininvest di non pagare i danni a De Benedetti (750 milioni….) prima del giudizio della Cassazione. Insensibilità? Ineticità? Delinquenza pura? È Milano.
Milano dà peraltro ragione a Berlusconi nel fatto: è giusto che il soccombente paghi a condanna definitiva. Ma lo massacra personalmente.
Ma la non esecutività è solo una sfida alla Corte d’Appello, la solita corte ambrosiano-partenopea che che si appresta a confermare la cervellotica condanna del giudice monocratico. Berlusconi non avrà problemi a cassarla. Voleva fissare l’attenzione sulla vicenda, per poi poter dire: ecco la prova che sono perseguitato – tanto la sentenza definitiva si fa in Cassazione, cioè a Roma, e secondo diritto. Diabolico? Ma è vero che Milano vuole assolutamente condannato Berlusconi: è stato la sua vittima sacrificale in questi venti anni di ladrocinio generale, e deve continuare a esserlo, una sorta di ombrello protettivo.
Un gruppo ambientalista scopre entusiasta uno squalo bianco al largo della Capraia. È la natura, è una specie in estinzione, è un bell’esemplare, eccetera. Ma la Capraia non ci sta: “Non me la sento di lanciare accuse senza prove su queste campagne di ricerca finanziate dagli enti pubblici”, dice l’assessore Mazzei, una vita da subacqueo. Ma vuole dire il contrario: cosa non si fa per la natura, anche inventarsi gli squali bianchi.
“Il Fatto Quotidiano” ha centinaia, forse un migliaio, di blogger. È la moltiplicazione dei pareri, si sa che la rete offre questa opportunità, gratuiti. Ma i blogger del “Fatto”, e le blogger, si distinguono. Cioè non si distinguono: tutti concordano, sono anzi tutti di un solo argomento, con un’unica parola.
Anche fisicamente sembrano fatti con lo stampo, per piacere: in pose sempre d’autore nelle fotine che animano i blog, molto più giovani, anche i giovani, molto fiduciosi e anzi sfottenti, con i capelli molto curati, arricciolati, o stirati, e tinti.
Furio Colombo, finito purtroppo ad animare uno di questi blog, dice del popolo No Tav: “L’espressione e il rispetto della volontà popolare fa parte del progresso”. Le ferrovie no?
Ma la stessa espressione si può applicare al popolo della Tav – Furio Colombo è un po’ troppo Pd ultimamente.
Non ci sono libri su Berlusconi in libreria a Forte dei Marmi o Viareggio, città che pure votano da sempre a sinistra, nemmeno Travaglio, eroe televisivo, si vede che non sono richiesti e non invogliano. Mentre le librerie Feltrinelli a Roma sono già a un centinaio di titoli, che esibiscono a cataste. Si legge di più a Roma? È dubbio. Sono le Feltrinelli un focolaio antiberlusconiano? È possibile, ma non esporrebbero titoli che non tirano. È che ci vuole uno stomaco infetto per digerire storie di Berlusconi trafficante di droga, terrorista, mafioso – mafioso in senso proprio, uomo di Riina e Ciancimino.
“Avevo letto Proust da piccola ma senza capirlo. Quarant’anni dopo, quando diventai un fan dei Sopranos, ho ripreso a leggere la «Recherche» e da allora nella mia mente i due sono collegati”, dice l’ultimo grido dell’editoria americana Jennifer Egan ad Alessandra Farkas, che non se ne meraviglia: Proust dunque come i Sopranos, “entrambi affrontano il problema del tempo che passa”. E i vecchi no, che sono un terzo dell’umanità? O la serie del “Padrino” prima dei Sopranos.
La bella scrittrice ha 48 anni. Dunque ha letto Proust a otto anni, poveretta: è giustificabile. Ma dobbiamo proprio credere a tutto?
Vittorio Pisani, il capo della Mobile che ha il record del contrasto alla camorra, con arresti eccellenti e sequestri, e alla criminalità urbana – non c’è delitto a Napoli senza un colpevole – è accusato dai giudici napoletani di favorire la camorra. Non proprio accusato, sospettato: giusto per rimuoverlo con l’incompatibilità. Sempre c’è un camorra più forte di un’altra.
Si può essere così camorristi e incolpevoli, se non per quanto basta alla rimozione.
Lucia Annunziata lascia preventivamente la Rai, in polemica con Paolo Ruffini, il direttore di Rai Tre, che voleva estrometterla. Ma questo, quello di Ruffini, non è un attentato alla libertà d’espressione: il sindacato dei giornalisti è – in questo caso – per l’istituzione (la burocrazia, il partito) e non per il giornalista.
Dopo aver messo alla berlina mezzo mondo, politico e non, che con le sue intercettazioni non c’entravano, il Procuratore Capo di Napoli Lepore li irride: “Stiamo subendo una vera e propria aggressione”, insinua mefistofelico alla compiacente Gruber, “i politici vogliono essere intoccabili”. È pronto per la politica?
Vorrei dire la mia “a prescindere dai reati contestati”, continua il Procuratore Capo. Un torturatore? In effetti, a riguardarlo, ne ha il ghigno freddo.
Lepore, questo cacciaotre dei politici, è l’ultimo di una lunga galleria: la giustizia politica è sempre stata l’arma letale del potere - oggi si direbbe della destra. Nella cui nomina Fini (non) ha messo naturalmente bocca - oppure Bocchino, lo dice la parola stessa?
Prima ancora di decidere se c’è materia per un processo, il giudice ammette alcune parti civili. Sembra impossibile ma non nella giustizia a Milano: la giudice dell’udienza preliminare Maria Grazia Domanico l’ha fatto, per questo apprezzata.
La gup Domanico deve decidere se Berlusconi va processato per prossenetismo. Nel merito non si pone problemi perché sa che il procedimento le verrà sottratto dalla consulta. Ma fra sei mesi. Intanto, si sarà acquisiti dei titoli sul fronte della resistenza. Al diritto.
Di Pietro che “si riposiziona” a destra sembra ai più da ridere. Ma è da lì che viene l’ex giudice ex commissario di polizia (in quanto tale organizzava spedizioni per “fottersi le colleghe”, spiegavano i primi biografi autorizzati). La giustizia politica è di destra.
Un padrone vale l’altro (Lactalis non potrà essere peggio della famiglia Tanzi), e anche i manager sono fungibili. Ma Enrico Bondi deve lasciare Parmalat non rimpianto, dopo averla salvata e rilanciata, per un motivo preciso: non ha obbedito a Milano. I fondi volevano un superdividendo, lui ha detto no. Mediobanca voleva fare affari con la liquidità che era riuscito ad accumulare dopo il salvataggio, e lui ha detto no. Intesa voleva rifilargli Granarolo, e lui ha detto no. Ma non si sfida Milano indenni.
Milano dà peraltro ragione a Berlusconi nel fatto: è giusto che il soccombente paghi a condanna definitiva. Ma lo massacra personalmente.
Ma la non esecutività è solo una sfida alla Corte d’Appello, la solita corte ambrosiano-partenopea che che si appresta a confermare la cervellotica condanna del giudice monocratico. Berlusconi non avrà problemi a cassarla. Voleva fissare l’attenzione sulla vicenda, per poi poter dire: ecco la prova che sono perseguitato – tanto la sentenza definitiva si fa in Cassazione, cioè a Roma, e secondo diritto. Diabolico? Ma è vero che Milano vuole assolutamente condannato Berlusconi: è stato la sua vittima sacrificale in questi venti anni di ladrocinio generale, e deve continuare a esserlo, una sorta di ombrello protettivo.
Un gruppo ambientalista scopre entusiasta uno squalo bianco al largo della Capraia. È la natura, è una specie in estinzione, è un bell’esemplare, eccetera. Ma la Capraia non ci sta: “Non me la sento di lanciare accuse senza prove su queste campagne di ricerca finanziate dagli enti pubblici”, dice l’assessore Mazzei, una vita da subacqueo. Ma vuole dire il contrario: cosa non si fa per la natura, anche inventarsi gli squali bianchi.
“Il Fatto Quotidiano” ha centinaia, forse un migliaio, di blogger. È la moltiplicazione dei pareri, si sa che la rete offre questa opportunità, gratuiti. Ma i blogger del “Fatto”, e le blogger, si distinguono. Cioè non si distinguono: tutti concordano, sono anzi tutti di un solo argomento, con un’unica parola.
Anche fisicamente sembrano fatti con lo stampo, per piacere: in pose sempre d’autore nelle fotine che animano i blog, molto più giovani, anche i giovani, molto fiduciosi e anzi sfottenti, con i capelli molto curati, arricciolati, o stirati, e tinti.
Furio Colombo, finito purtroppo ad animare uno di questi blog, dice del popolo No Tav: “L’espressione e il rispetto della volontà popolare fa parte del progresso”. Le ferrovie no?
Ma la stessa espressione si può applicare al popolo della Tav – Furio Colombo è un po’ troppo Pd ultimamente.
Non ci sono libri su Berlusconi in libreria a Forte dei Marmi o Viareggio, città che pure votano da sempre a sinistra, nemmeno Travaglio, eroe televisivo, si vede che non sono richiesti e non invogliano. Mentre le librerie Feltrinelli a Roma sono già a un centinaio di titoli, che esibiscono a cataste. Si legge di più a Roma? È dubbio. Sono le Feltrinelli un focolaio antiberlusconiano? È possibile, ma non esporrebbero titoli che non tirano. È che ci vuole uno stomaco infetto per digerire storie di Berlusconi trafficante di droga, terrorista, mafioso – mafioso in senso proprio, uomo di Riina e Ciancimino.
“Avevo letto Proust da piccola ma senza capirlo. Quarant’anni dopo, quando diventai un fan dei Sopranos, ho ripreso a leggere la «Recherche» e da allora nella mia mente i due sono collegati”, dice l’ultimo grido dell’editoria americana Jennifer Egan ad Alessandra Farkas, che non se ne meraviglia: Proust dunque come i Sopranos, “entrambi affrontano il problema del tempo che passa”. E i vecchi no, che sono un terzo dell’umanità? O la serie del “Padrino” prima dei Sopranos.
La bella scrittrice ha 48 anni. Dunque ha letto Proust a otto anni, poveretta: è giustificabile. Ma dobbiamo proprio credere a tutto?
Vittorio Pisani, il capo della Mobile che ha il record del contrasto alla camorra, con arresti eccellenti e sequestri, e alla criminalità urbana – non c’è delitto a Napoli senza un colpevole – è accusato dai giudici napoletani di favorire la camorra. Non proprio accusato, sospettato: giusto per rimuoverlo con l’incompatibilità. Sempre c’è un camorra più forte di un’altra.
Si può essere così camorristi e incolpevoli, se non per quanto basta alla rimozione.
Lucia Annunziata lascia preventivamente la Rai, in polemica con Paolo Ruffini, il direttore di Rai Tre, che voleva estrometterla. Ma questo, quello di Ruffini, non è un attentato alla libertà d’espressione: il sindacato dei giornalisti è – in questo caso – per l’istituzione (la burocrazia, il partito) e non per il giornalista.
Dopo aver messo alla berlina mezzo mondo, politico e non, che con le sue intercettazioni non c’entravano, il Procuratore Capo di Napoli Lepore li irride: “Stiamo subendo una vera e propria aggressione”, insinua mefistofelico alla compiacente Gruber, “i politici vogliono essere intoccabili”. È pronto per la politica?
Vorrei dire la mia “a prescindere dai reati contestati”, continua il Procuratore Capo. Un torturatore? In effetti, a riguardarlo, ne ha il ghigno freddo.
Lepore, questo cacciaotre dei politici, è l’ultimo di una lunga galleria: la giustizia politica è sempre stata l’arma letale del potere - oggi si direbbe della destra. Nella cui nomina Fini (non) ha messo naturalmente bocca - oppure Bocchino, lo dice la parola stessa?
Prima ancora di decidere se c’è materia per un processo, il giudice ammette alcune parti civili. Sembra impossibile ma non nella giustizia a Milano: la giudice dell’udienza preliminare Maria Grazia Domanico l’ha fatto, per questo apprezzata.
La gup Domanico deve decidere se Berlusconi va processato per prossenetismo. Nel merito non si pone problemi perché sa che il procedimento le verrà sottratto dalla consulta. Ma fra sei mesi. Intanto, si sarà acquisiti dei titoli sul fronte della resistenza. Al diritto.
Di Pietro che “si riposiziona” a destra sembra ai più da ridere. Ma è da lì che viene l’ex giudice ex commissario di polizia (in quanto tale organizzava spedizioni per “fottersi le colleghe”, spiegavano i primi biografi autorizzati). La giustizia politica è di destra.
Un padrone vale l’altro (Lactalis non potrà essere peggio della famiglia Tanzi), e anche i manager sono fungibili. Ma Enrico Bondi deve lasciare Parmalat non rimpianto, dopo averla salvata e rilanciata, per un motivo preciso: non ha obbedito a Milano. I fondi volevano un superdividendo, lui ha detto no. Mediobanca voleva fare affari con la liquidità che era riuscito ad accumulare dopo il salvataggio, e lui ha detto no. Intesa voleva rifilargli Granarolo, e lui ha detto no. Ma non si sfida Milano indenni.
lunedì 4 luglio 2011
Prove di Dc col Pdl di Alfano
L’ha proposto Berlusconi, lo propone Bagnasco, e le prime elezioni che si terranno in Sicilia, cassaforte della Udc, diranno se è la scelta anche degli elettori: Angelino, nomen omen, Alfano è stato messo in pista per annunciare la nuova Dc, per ora sotto forma di partito Popolare. Il passaggio più significativo è l’endorsement a scatola chiusa del cardinale, nonché del suo bellicoso segretario, monsignor Crociata. Ma non basta: toccherà alla Sicilia avallare il nuovo corso, oppure confermare finito il ciclo del Pdl, dopo lo scrollone di Milano, che si presume esprima il più grande voto lombardo – come sempre, decidono elettoralmente, e quindi politicamente, le due regioni più popolose.
Nulla però sarà come prima dopo la mossa di Berlusconi, in entrambi i casi, che Alfano si riprenda il voto Dc, oppure che fallisca. In questo secondo caso i liberalrepubblicani e i socialisti del Pdl, gli elettori naturalmente più che gli eletti, potrebbero aprire nuove diaspore, verso il centro di Fini-Casini-Rutelli, o verso il partito Democratico. Una terza ipotesi si fa: che Berlusconi abbia lanciato Alfano subito dopo la sconfitta di Milano per operare poi, in caso di fallimento, un recupero personale prima delle politiche nel 2013. Ma è la meno fondata: a quel punto, dopo il voto di Milano e della Sicilia, ci sarà solo da raccogliere i cocci.
La gara alla leadership del Pdl, finita la gestione laica di Cicchitto, Bondi e Verdini, era com’è noto tra Scajola e Alfano. Il ministro s’è imposto perché va il giovane e bello, e perché è intemerato. Ma era un ritorno alla Dc. Il Grande Centro i vescovi se lo fanno sulle ceneri di Berlusconi, non più con Casini, Rutelli e Fini. Non abbandonano Casini, ma non si fanno più illusioni su di lui, con i Buttiglione, Cesa, Follini, mentre puntano molto sul Pdl senza Berlusconi - in fondo, sono già vent’anni che ne aspettano la morte, di Berlusconi.
La decisione di Berlusconi, poi avallata dai vescovi, era stata peraltro propiziata dal deciso intervento dell’“Avvenire” per una “fase nuova” della politica. Non più morale, o più sociale, ma nel senso di “cantiere della ristrutturazione di partiti e alleanze”, pescando “nel nostro associazionismo, nel volontariato, e nelle parrocchie”. E dalla giunta delineata da Pisapia dopo il successo al primo voto, confermata dopo l’elezione, che reintroduce l’arcivescovado al governo della città: vicesindaco, con delega all’istruzione, è Maria Grazia Guida, direttrice della Casa della Carità di don Colmegna, assessore alla Sicurezza e alla Coesione sociale è Marco Granelli, dipendente della Caritas, presidente della CsvNet, il coordinamento dei servizi per il volontariato, assessore al Bilancio Bruno Tabacci, l’ultimo presidente della Lombardia venticinque anni fa. Il primo atto pubblico della nuova giunta sarà tra un mese la Settimana della Famiglia, per la quale è atteso infine a Milano il papa: Pisapia passa la maggior parte del suo tempo con la presidenza della Fondazione per la Famiglia. Mentre si attende il rilancio della imponente Fondazione Toniolo (Gemelli, Policlinico).
Nulla però sarà come prima dopo la mossa di Berlusconi, in entrambi i casi, che Alfano si riprenda il voto Dc, oppure che fallisca. In questo secondo caso i liberalrepubblicani e i socialisti del Pdl, gli elettori naturalmente più che gli eletti, potrebbero aprire nuove diaspore, verso il centro di Fini-Casini-Rutelli, o verso il partito Democratico. Una terza ipotesi si fa: che Berlusconi abbia lanciato Alfano subito dopo la sconfitta di Milano per operare poi, in caso di fallimento, un recupero personale prima delle politiche nel 2013. Ma è la meno fondata: a quel punto, dopo il voto di Milano e della Sicilia, ci sarà solo da raccogliere i cocci.
La gara alla leadership del Pdl, finita la gestione laica di Cicchitto, Bondi e Verdini, era com’è noto tra Scajola e Alfano. Il ministro s’è imposto perché va il giovane e bello, e perché è intemerato. Ma era un ritorno alla Dc. Il Grande Centro i vescovi se lo fanno sulle ceneri di Berlusconi, non più con Casini, Rutelli e Fini. Non abbandonano Casini, ma non si fanno più illusioni su di lui, con i Buttiglione, Cesa, Follini, mentre puntano molto sul Pdl senza Berlusconi - in fondo, sono già vent’anni che ne aspettano la morte, di Berlusconi.
La decisione di Berlusconi, poi avallata dai vescovi, era stata peraltro propiziata dal deciso intervento dell’“Avvenire” per una “fase nuova” della politica. Non più morale, o più sociale, ma nel senso di “cantiere della ristrutturazione di partiti e alleanze”, pescando “nel nostro associazionismo, nel volontariato, e nelle parrocchie”. E dalla giunta delineata da Pisapia dopo il successo al primo voto, confermata dopo l’elezione, che reintroduce l’arcivescovado al governo della città: vicesindaco, con delega all’istruzione, è Maria Grazia Guida, direttrice della Casa della Carità di don Colmegna, assessore alla Sicurezza e alla Coesione sociale è Marco Granelli, dipendente della Caritas, presidente della CsvNet, il coordinamento dei servizi per il volontariato, assessore al Bilancio Bruno Tabacci, l’ultimo presidente della Lombardia venticinque anni fa. Il primo atto pubblico della nuova giunta sarà tra un mese la Settimana della Famiglia, per la quale è atteso infine a Milano il papa: Pisapia passa la maggior parte del suo tempo con la presidenza della Fondazione per la Famiglia. Mentre si attende il rilancio della imponente Fondazione Toniolo (Gemelli, Policlinico).
Il Cristo dei Cuorisolitari
Ilare amaro ritratto di solitudini urbane – non dissimili oggi nella neo metropolitana Italia da quelle di New York del proibizionismo, quando l’alcol era d’obbligo (la differenza è che d’obbligo è ora la coca?), Miss Cuorisolitari fa sempre ridere amaro. È un’anticipazione anche della successiva, oggi dilagante, decomposizione del “sogno americano”.
"Nathanael West”, nato Nathan von Wallenstein Weinstein a New York da ebrei russi di Lituania di lingua tedesca, albergatore in quegli anni nella stessa città (specialmente benevolente con l’insolvibile Dashiell Hammett), aveva fatto presto ad afferrarne il frigore luciferino. Con un solo flash, già allora residuo, di ordinaria umanità: quando il ventiseienne titolare della posta del cuore, figlio di pastore battista, giornalista pieno di ambizione e di Cristo, il “Cristo dei Cuorisolitari”, a tratti “un Mussolini dell’anima”, si rivede ragazzo al piano, a una sonata di Mozart, che la sorellina danza, come “tutti i bambini, in ogni paese: al mondo non c’era un solo bambino che non danzasse, con gravità e dolcezza”.
La riedizione tiene a battesimo la nuovissima sigla milanese et al./edizioni. Mantiene il titolo delle precedenti traduzioni, ma con una nuova smagliante versione, di Marina Morpurgo, mozzafiato (“migliore” dell’originale). Il ritmo è tutto, in questa narrativa apparentemente leggera, alla Dorothy Parker, di cui West ha fatto la sua cifra, immortalata poi ne “Il giorno della locusta”, il mondo delle ombre di Hollywood.
Nathanael West, Signorina Cuorinfranti, et al./ edizioni, pp. 103, € 12
"Nathanael West”, nato Nathan von Wallenstein Weinstein a New York da ebrei russi di Lituania di lingua tedesca, albergatore in quegli anni nella stessa città (specialmente benevolente con l’insolvibile Dashiell Hammett), aveva fatto presto ad afferrarne il frigore luciferino. Con un solo flash, già allora residuo, di ordinaria umanità: quando il ventiseienne titolare della posta del cuore, figlio di pastore battista, giornalista pieno di ambizione e di Cristo, il “Cristo dei Cuorisolitari”, a tratti “un Mussolini dell’anima”, si rivede ragazzo al piano, a una sonata di Mozart, che la sorellina danza, come “tutti i bambini, in ogni paese: al mondo non c’era un solo bambino che non danzasse, con gravità e dolcezza”.
La riedizione tiene a battesimo la nuovissima sigla milanese et al./edizioni. Mantiene il titolo delle precedenti traduzioni, ma con una nuova smagliante versione, di Marina Morpurgo, mozzafiato (“migliore” dell’originale). Il ritmo è tutto, in questa narrativa apparentemente leggera, alla Dorothy Parker, di cui West ha fatto la sua cifra, immortalata poi ne “Il giorno della locusta”, il mondo delle ombre di Hollywood.
Nathanael West, Signorina Cuorinfranti, et al./ edizioni, pp. 103, € 12