“Lo riconosco. Ho fatto una stupidata… Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l'offerta di Milanese...”. Tremonti che confessa a Giannini e a “Repubblica” questo suo tormento è una bella novità – non al “Corriere” di cui pure è stato collaboratore. Giannini lo curva per fargli dire che era Berlusconi a farlo pedinare. Ma il ministro non tentenna: “In caserma non ero tranquillo, temevo di essere vittima di scontri tra bande dentro la Finanza”.
Quello che non è certo è se il ministro si è reso conto di quello che ora rischia. All’Ufficio I della Guardia di Finanza nessuno ha mai resistito indenne. Ci riuscirà Tremonti? Ancora negli anni 1980 si trovavano in Somalia colonnelli e generali formati all’Ufficio I, tutti signori della guerra – Siad Barre ne menava anche vanto (nel nome del comunismo…). Tutti incardinati nel principio che non ci sono compromessi.
Non ci sono stati, in Somalia, casi di cannibalismo, non che si sia saputo. Ma per il resto le guerre tribali non si sono private di niente, quelle in cui l’avversario va annientato.
sabato 30 luglio 2011
Un presidente troppo virtuoso
Rinuncia alle ferie, rinuncia all’appannaggio, ha risparmiato 15 milioni sulle spese del Quirinale. Già affannato a intervenire ogni giorno su ogni questione. Anche due e tre volte al giorno. Con ogni interlocutore e perfino in lingue straniere, come i papi. E quando non ha interlocutori sottomano a mandare messaggi e moniti, proprio come i papi. Per il presidente Napolitano sembra non ci sia pace. E in fondo è lui stesso il primo segnale che l’Italia è in crisi, un esercizio dela presidenza che rischia perfino di appannare il settennato nero di Scalfaro. La vicenda degli appartamenti, a basso fitto,che Bossi chiama ministeri sarebbe da ridere se non fosse tragica: il catalogo propagandistico di Bossi è ormai liso, ma ci pensa Napolitano a rinverdirglelo - i veri ministeri sono stati trasferiti, da tempo, molto più a Nord, a Londra e a Berlino.
C’è perplessità anche tra i Democratici. Che ritengono non più pagate l'immagine del presidente, poco equilibrato, partigiano, al traino dei media. E si chiedano se non pesi l’età, o il mandato troppo lungo. I costituzionalisti non parlano, perché Napolitano è pur sempre della famiglia, ma tutti arricciano il naso: quella del presidente non è più sollecitudine ma intromettenza politica, incostituzionale.
Nessuno dà peso all’ipotesi che Napolitano insegua un governo delle opposizioni (non ha i numeri), né una grande coalizione Pd-Pdl per la legge elettorale e il federalismo (non ha più il candidato presidente, Tremonti). Tutti ritengono che vi vorrebbe più aplomb, soprattutto sulle grandi questioni, la difesa dell’euro, la guerra in Libia.
C’è perplessità anche tra i Democratici. Che ritengono non più pagate l'immagine del presidente, poco equilibrato, partigiano, al traino dei media. E si chiedano se non pesi l’età, o il mandato troppo lungo. I costituzionalisti non parlano, perché Napolitano è pur sempre della famiglia, ma tutti arricciano il naso: quella del presidente non è più sollecitudine ma intromettenza politica, incostituzionale.
Nessuno dà peso all’ipotesi che Napolitano insegua un governo delle opposizioni (non ha i numeri), né una grande coalizione Pd-Pdl per la legge elettorale e il federalismo (non ha più il candidato presidente, Tremonti). Tutti ritengono che vi vorrebbe più aplomb, soprattutto sulle grandi questioni, la difesa dell’euro, la guerra in Libia.
Heidegger teologo
Sacerdote secolare e parroco, Heinrich Heidegger, uno dei figli di Fritz, ha un concetto forte della famiglia, di cui non sa pensare che bene. Dello zio Martin, “il Professore”, ha visione perfino angelica – come della zia Elfride. Avendo sempre avuto dal filosofo segni di vero interesse, negli studi, nella vocazione, all’ordinazione, e alla sua prima “presa di possesso” parrocchiale, nonché nell’organizzazione del proprio funerale. In un solo punto i suoi ricordi coincidono con la biografia demoniaca, quale è nota, dello zio: venuto a sapere da Erika Semmler, sua ex allieva, funzionaria del ministero delle Donne, nell’ottobre del 1938 che ci sarà la guerra, subito telefona a Fritz in banca e gli chiede di redigere cinque copie dattiloscritte dei propri lavori non pubblicati per assicurarne la posterità, da conservare in cinque posti diversi – copie che Fritz realizza rapidamente, senza errori.
I ricordi di don Heinrich ottantenne, qui raccolti da Pierfrancesco Stagi, sono utili per la figura del proprio padre Fritz, che esce con una ben diversa caratura rispetto all’oleografia del buontempone barzellettiere: uomo di pochi studi, con suo costante rammarico, per problemi di salute in gioventù, era appassionato di teologia (come già Martin nei primi due anni di università, al Collegium Borromaeum di Friburgo, il convitto teologico arcivescovile), e l’amicizia ebbe costante col fratello perché era suo maggiore, di cinque anni, e perché lo comprendeva, era in grado di apprezzarne i lavori. Del filosofo il nipote conferma la religiosità innata - compresa la gita-pellegrinaggio ogni anno dei due fratelli al monastero benedettino di Beuron, in omaggio alla stessa pratica della propria madre. E spiega i tanti motivi che Martin ebbe a un certo punto di allontanarsi dalla pratica cattolica, per le troppe forme di chiusura della chiesa a ogni modernità e perfino a ogni intelligenza. Specie in Germania, in conseguenza del Kulturkampf - i cui effetti si trascinarono fino al concordato del futuro Pio XII, 1933. I fratelli Heidegger bambini si spostavano con la famiglia da una chiesa all’altra, in dipendenza dalle lotte tra le fazioni. Quando Martin provò a farsi gesuita dovette andare a Tisis in Austria, presso Feldkirch, i gesuiti non erano ammessi in Germania.
L’argomentata introduzione di Stagi, studioso sperimentato della religiosità in Heidegger, riesce a calibrarne il fondo, costante nell’arco della sua molteplice vita, per un triplice interesse: la conoscenza e l’amore delle Scritture, da “monaco medievale”, la proposta di Lutero come “affinamento” del cattolicesimo, e i costanti molteplici riferimenti ai temi religiosi e del sacro. Quello che Heidegger stesso chiama “la spina nel fianco”, scrivendo a Jaspers, la sua appartenenza al cristianesimo romano, diventa la “fonte viva” della sua riflessione. Si può dire questa una delle poche certezze nella revisione in corso dell’opera e del senso del filosofo del Novecento. Al quale peraltro si deve una non comune “Fenomenologia della vita religiosa”, un “Fenomenologia e Teologia”, e moltrte altre riflessioni sulla religione – un fondo già variamante analizzato soprattutto in Italia, da Vattimo, Cacciari, Agamben, Vitiello, de Vitiis. Su un semplice presupposto, nota Stagi: “Il cristianesimo ha già modificato a livello ontologico l’essere dell’esserci dell’uomo occindetale”. Per la verità (radicalità) del Cristo: “Il cristianesimo come storia è radicato nella verità della storia, anzi è tale solo perché la verità si è rivelata nella storia” – non è una religione come le altre.
Heinrich Heidegger, Martin Heidegger mio zio, Marietti, pp. 106 € 11
I ricordi di don Heinrich ottantenne, qui raccolti da Pierfrancesco Stagi, sono utili per la figura del proprio padre Fritz, che esce con una ben diversa caratura rispetto all’oleografia del buontempone barzellettiere: uomo di pochi studi, con suo costante rammarico, per problemi di salute in gioventù, era appassionato di teologia (come già Martin nei primi due anni di università, al Collegium Borromaeum di Friburgo, il convitto teologico arcivescovile), e l’amicizia ebbe costante col fratello perché era suo maggiore, di cinque anni, e perché lo comprendeva, era in grado di apprezzarne i lavori. Del filosofo il nipote conferma la religiosità innata - compresa la gita-pellegrinaggio ogni anno dei due fratelli al monastero benedettino di Beuron, in omaggio alla stessa pratica della propria madre. E spiega i tanti motivi che Martin ebbe a un certo punto di allontanarsi dalla pratica cattolica, per le troppe forme di chiusura della chiesa a ogni modernità e perfino a ogni intelligenza. Specie in Germania, in conseguenza del Kulturkampf - i cui effetti si trascinarono fino al concordato del futuro Pio XII, 1933. I fratelli Heidegger bambini si spostavano con la famiglia da una chiesa all’altra, in dipendenza dalle lotte tra le fazioni. Quando Martin provò a farsi gesuita dovette andare a Tisis in Austria, presso Feldkirch, i gesuiti non erano ammessi in Germania.
L’argomentata introduzione di Stagi, studioso sperimentato della religiosità in Heidegger, riesce a calibrarne il fondo, costante nell’arco della sua molteplice vita, per un triplice interesse: la conoscenza e l’amore delle Scritture, da “monaco medievale”, la proposta di Lutero come “affinamento” del cattolicesimo, e i costanti molteplici riferimenti ai temi religiosi e del sacro. Quello che Heidegger stesso chiama “la spina nel fianco”, scrivendo a Jaspers, la sua appartenenza al cristianesimo romano, diventa la “fonte viva” della sua riflessione. Si può dire questa una delle poche certezze nella revisione in corso dell’opera e del senso del filosofo del Novecento. Al quale peraltro si deve una non comune “Fenomenologia della vita religiosa”, un “Fenomenologia e Teologia”, e moltrte altre riflessioni sulla religione – un fondo già variamante analizzato soprattutto in Italia, da Vattimo, Cacciari, Agamben, Vitiello, de Vitiis. Su un semplice presupposto, nota Stagi: “Il cristianesimo ha già modificato a livello ontologico l’essere dell’esserci dell’uomo occindetale”. Per la verità (radicalità) del Cristo: “Il cristianesimo come storia è radicato nella verità della storia, anzi è tale solo perché la verità si è rivelata nella storia” – non è una religione come le altre.
Heinrich Heidegger, Martin Heidegger mio zio, Marietti, pp. 106 € 11
Il poeta che inventava il tedesco
Non c’è in realtà cecchinaggio di visioni o presentimenti in questa antologia di inediti dal 1848 al 1969, il periodo pubblico e celebrato del poeta, tra Vienna e Parigi. Tre volte esule, in quanto ebreo, in quanto tedesco, e in quanto rumeno, innamorato di Ingeborg Bachmann ma sposato prudentemente a Parigi, con una francese, Celan finirà per cedere al presagio di morte, buttandosi nella Senna. Ma qui (una parte del lascito di circa 500 componimenti inediti) esercita al meglio la creatività fonetica e semantica che ne fa il migliore linguista del tedesco del Novecento. Insieme con un’altra “minoritaria” tedesca di Romania, Hertha Müller, originaria del Banato, quasi che la formazione dialettale apra le chiavi più segrete di una lingua. O la disintegrazione, variamente causata, dell’io.
Celan è il poeta che più si beatifica del tedesco, che più se la spassa con questa lingua. Un ebreo della Bucovina cresciuto tra yiddish, rumeno e russo, con poche parole tedesche mediate dalla madre, finita poi a Auschwitz, che per venti anni ha vissuto a Parigi con moglie e figlio francesi. Tanti bei suoni ne trae fuori, tanti arricchimenti v’introduce. Ma, a differenza per esempio di Hannah Arendt, la filosofa della “lingua materna”, per un bisogno singolarmente di testa: la sua lingua materna arricchisce di novità asettiche, matematiche, naturalistiche, glottologiche. Come un Joyce, un giocoliere della parola, che si esercitasse su una sola lingua, e questa è il tedesco.
Una creatività più spesso esemplare degli automatismi della follia (Merini, Hölderlin), la scrittura che per immagini e suoni meglio risponde a un io frantumato, asintattico. Non è possibile una “sistemazione” di Celan, una lettura critica ordinata, perché i suoi versi emergono da giacimenti profondi, nascosti. Cioè, tutto sommato, magmatici, confusi. Ci sono molte sorprese ma non impressioni durature, dopo lo sconcerto. Questo tipo di scrittura agevole, non lambiccata ma fredda, moltiplica l’effetto straniamento di molta poesia orfica, da Hölderlin alla Merini, una scrittura automatica alla surrealista. Che costeggia i misteri (morali, logici, storici) senza inciderli.
Anche il suo corteggiare i personaggi dell’epoca è avulso, dalla Bachmann a Heidegger e a Dürrenmatt. È freddo: è il ricercatore che si aspetta sempre la risposta di rimbalzo.
Paul Celan, Sotto il tiro di presagi
Celan è il poeta che più si beatifica del tedesco, che più se la spassa con questa lingua. Un ebreo della Bucovina cresciuto tra yiddish, rumeno e russo, con poche parole tedesche mediate dalla madre, finita poi a Auschwitz, che per venti anni ha vissuto a Parigi con moglie e figlio francesi. Tanti bei suoni ne trae fuori, tanti arricchimenti v’introduce. Ma, a differenza per esempio di Hannah Arendt, la filosofa della “lingua materna”, per un bisogno singolarmente di testa: la sua lingua materna arricchisce di novità asettiche, matematiche, naturalistiche, glottologiche. Come un Joyce, un giocoliere della parola, che si esercitasse su una sola lingua, e questa è il tedesco.
Una creatività più spesso esemplare degli automatismi della follia (Merini, Hölderlin), la scrittura che per immagini e suoni meglio risponde a un io frantumato, asintattico. Non è possibile una “sistemazione” di Celan, una lettura critica ordinata, perché i suoi versi emergono da giacimenti profondi, nascosti. Cioè, tutto sommato, magmatici, confusi. Ci sono molte sorprese ma non impressioni durature, dopo lo sconcerto. Questo tipo di scrittura agevole, non lambiccata ma fredda, moltiplica l’effetto straniamento di molta poesia orfica, da Hölderlin alla Merini, una scrittura automatica alla surrealista. Che costeggia i misteri (morali, logici, storici) senza inciderli.
Anche il suo corteggiare i personaggi dell’epoca è avulso, dalla Bachmann a Heidegger e a Dürrenmatt. È freddo: è il ricercatore che si aspetta sempre la risposta di rimbalzo.
Paul Celan, Sotto il tiro di presagi
venerdì 29 luglio 2011
Rischio Somalia, la guerra a Gheddafi è fallita
La Gran Bretagna tratta con Gheddafi il dopo-Gheddafi dopo aver riconosciuto con Obama che i suoi servizi segreti hanno sbagliato le valutazioni. I servizi inglesi si fanno scudo delle cattive informazioni che avrebbero avute dalla Francia, ma il governo Cameron, già inguaiato per l’affare Murdoch, non intende aprire altri fronti. E quello americano è il più insidioso: Obama, che ha ordinato la sospensione di ogni attività bellica, è furioso con Cameron e Sarkozy per essere stato tratto in inganno sulla questione libica.
Ha sospeso i bombardamenti pure l’Italia. Mentre tace il loquace Frattini, che più di tutti ha fatto per la congrega del governo alternativo o di resistenza a Gheddafi. Tace naturalmente Napolitano, che la guerra ha imposto all’Italia - un presidente della Repubblica non è tenuto a dare spiegazioni. Ma si paventa il rischio - la Farnesina più del Quirinale - di creare in Libia un’altra Somalia, in guerra civile perpetua. Si fanno allora circolare – il Quirinale più della Farnesina - costi gonfiati del conflitto, per “giustificare” la ritirata. Il costo della guerra si fa lievitare a nove miliardi di dollari per parte, mentre è stato probabilmente un decimo.
La ritirata è problematica e sarà lenta. Ma si sa già che va negoziata con Gheddafi. E potrebbe assicurargli la successione che altrimenti gli sarebbe stata impossibile, con un ruolo condizionante per il figlio Saif – di cui si fanno valere ora i buoni studi inglesi. Con la sola garanzia di un’amnistia generale, e di una forma di autonomia per Bengasi – per la città di Bengasi, non per la Cirenaica. Un governo di Bengasi non è stato e non è possibile, malgrado gli sforzi della diplomazia italiana. La stessa giunta ribelle si sta liquefacendo, tra assassinii e altri colpi intestini.
Il negoziato peraltro non è sulla costituzione e sulla successione, che Gheddafi si riserva. Bensì sulla restituzione degli oltre 30 miliardi di dollari d’investimenti della Libia negli Usa. Di cui Obama ha fatto circolare la voce che siano stati confiscati, per giustificare di fronte all’opinione pubblica americana la guerra inutile. Mentre ciò non sarebbe possibile ai termini della risoluzione Onu su cui si basa, per la forma, la guerra alla Libia.
Ha sospeso i bombardamenti pure l’Italia. Mentre tace il loquace Frattini, che più di tutti ha fatto per la congrega del governo alternativo o di resistenza a Gheddafi. Tace naturalmente Napolitano, che la guerra ha imposto all’Italia - un presidente della Repubblica non è tenuto a dare spiegazioni. Ma si paventa il rischio - la Farnesina più del Quirinale - di creare in Libia un’altra Somalia, in guerra civile perpetua. Si fanno allora circolare – il Quirinale più della Farnesina - costi gonfiati del conflitto, per “giustificare” la ritirata. Il costo della guerra si fa lievitare a nove miliardi di dollari per parte, mentre è stato probabilmente un decimo.
La ritirata è problematica e sarà lenta. Ma si sa già che va negoziata con Gheddafi. E potrebbe assicurargli la successione che altrimenti gli sarebbe stata impossibile, con un ruolo condizionante per il figlio Saif – di cui si fanno valere ora i buoni studi inglesi. Con la sola garanzia di un’amnistia generale, e di una forma di autonomia per Bengasi – per la città di Bengasi, non per la Cirenaica. Un governo di Bengasi non è stato e non è possibile, malgrado gli sforzi della diplomazia italiana. La stessa giunta ribelle si sta liquefacendo, tra assassinii e altri colpi intestini.
Il negoziato peraltro non è sulla costituzione e sulla successione, che Gheddafi si riserva. Bensì sulla restituzione degli oltre 30 miliardi di dollari d’investimenti della Libia negli Usa. Di cui Obama ha fatto circolare la voce che siano stati confiscati, per giustificare di fronte all’opinione pubblica americana la guerra inutile. Mentre ciò non sarebbe possibile ai termini della risoluzione Onu su cui si basa, per la forma, la guerra alla Libia.
Tutti a Londra e negli Usa i capitali libici
A quanto ammontano i fondi libici negli Usa, formalmente congelati e possibilmente confiscati, sul cui sblocco si sta trattando a Londra? La stima più attendibile li poneva a 35-36 miliardi di dollari all’inizio del conflitto a san Giuseppe. Sarebbe quasi la metà degli investimenti del fondo sovrano libico, la Libya Investment Authority (Lia). Mentre si sa per certo che, a parte Unicredit, un investimento a strascico dell’antica soggezione libica per la Banca di Roma (la finanziatrice dell’impresa di Tripoli nel 1911), la Lia ha praticamente immobilizzato tutta la sua liquidità a Wall Street e nella City. In casa, si direbbe oggi, dei suoi nemici.
Creata nell’agosto del 2006, sostanzialmente sulle spoglie della Lafico, il fondo d’investimento libico che s’è reso celebre a partire dal 1976, dall’investimento nella Fiat, la Lia è partita con una disponibilità dichiarata di 40 miliardi dollari. Dotazione che all’inizio delle ostilità si reputava raddoppiata, sui 75 miliardi di dollari. Con investimenti negli Usa per 35 miliardi. E con forti partecipazioni peraltro in Gran Bretagna. Nella Bp, addirittura con il 15 per cento, e nel gruppo Pearson (“Economist”, “Financial Times”, Penguin) le partecipazioni più sensibili politicamente. Un esito tanto più importante in quanto la Libia ha avuto rapporti stabili con Londra solo da fine 2007, quando fu perdonata da Blair per la strage di Lockerbie.
Il Lia ha puntato su Londra anche come centro direzionale. Tramite una finanziaria, Dalia Advisory Ltd, registrata nel 2009, che è il tramite tra la Lia e i gruppi finanziari internazionali. Dalia ha ufficio nel cuore della City, e Saif el Gheddafi tra i suoi consiglieri d’amministrazione.
Creata nell’agosto del 2006, sostanzialmente sulle spoglie della Lafico, il fondo d’investimento libico che s’è reso celebre a partire dal 1976, dall’investimento nella Fiat, la Lia è partita con una disponibilità dichiarata di 40 miliardi dollari. Dotazione che all’inizio delle ostilità si reputava raddoppiata, sui 75 miliardi di dollari. Con investimenti negli Usa per 35 miliardi. E con forti partecipazioni peraltro in Gran Bretagna. Nella Bp, addirittura con il 15 per cento, e nel gruppo Pearson (“Economist”, “Financial Times”, Penguin) le partecipazioni più sensibili politicamente. Un esito tanto più importante in quanto la Libia ha avuto rapporti stabili con Londra solo da fine 2007, quando fu perdonata da Blair per la strage di Lockerbie.
Il Lia ha puntato su Londra anche come centro direzionale. Tramite una finanziaria, Dalia Advisory Ltd, registrata nel 2009, che è il tramite tra la Lia e i gruppi finanziari internazionali. Dalia ha ufficio nel cuore della City, e Saif el Gheddafi tra i suoi consiglieri d’amministrazione.
Il “Corriere” della speculazione
Scandali e Btp vanno insieme, la crescita esponenziale degli interessi sul debito italiano. E il “Corriere della sera”, il giornale della borghesia milanese diventato da un anno e mezzo il giornale della Curia, fa da battistrada.
Si discute se non sia un altro 1992, se la politica non sia da buttare, se non ci sia una casta, anzi c’è senza’altro, e se l’Italia non debba uscire nuovamente dall’euro. Si discute ma su un fatto preciso: questa volta il balletto è condotto dalla Rcs, dal “Corriere della sera” in primo luogo. Che “monta” a scandalo qualsiasi evenienza. Fino al ridicolo di due brevi e-mail di un’azienda che, dopo l’accertamento fiscale delle Entrate, si chiedono quando verrà la Finanza. Un’azienda che “al 50 per cento è di Berlusconi”, tuona il giornale della capitale morale. Sulla base di un’informativa mandata dallo svelto Procuratore napoletano Woodcock al suo compare Francesco Greco a Milano, il vice Procuratore che fa della protezione della Rizzoli Corriere della sera la sua bandiera. Un’informativa procurata da un colonnello della Finanza di Milano che non voleva a comandante il generale Adinolfi. E quindi adombrava che la e-mail si riferisse a una talpa. E di conseguenza, se c’è una talpa alla Finanza, perché non sarebbe il generale Adinolfi? Roba da non credere, ma è lì, su una grande pagina del “Corriere della sera” del 15 luglio.
La richiesta di dimissioni a Tremonti, fatta avanzare autorevolmente dall’illustre collaboratore Sergio Romano, è solo la parte visibile. Il lettore del giornale ha ogni giorno insidiose accuse basate sui testimoni anche più screditati, sulla base del noto principio del “Barbiere di Siviglia”, “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. Con l’obiettivo dichiarato di indebolire il governo, e per conseguenza il debito italiano. Con l’incredibile sottovalutazione della finanziaria appena varata, che tocca in una volta i tre totem intoccabili della spesa pubblica, sanità, pensioni e statali. Che il “Corriere” ha ridotto al folklore della casta. Non per cavalcare Beppe Grillo, che è l’indigenza politica, e i cui seguaci comunque non leggono. No, per montare la rabbia. C’è sconcerto per questo fra i collaboratori del giornale, che si gonfi una montagna su una spesa marginale rispetto al costo crescente ogni giorno del Btp. E ben sapendo che la politica ha un costo, e che questo costo è bene sia finanziato pubblicamente.
Lo schieramento del giornale è peraltro, indirettamente e direttamente, a favore della speculazione. Direttamente con la sottolineatura dei tanti punti deboli che il debito italiano invece non ha rispetto al debito europeo – anche quello della Germania per intenderci, che ha da tempo superato in tromba quello italiano. E con una certa onestà d’intenti, dichiarati. Sebbene al coperto dell’autorevolezza di insigni pilastri della speculazione, quali sono, e sono noti per questo, l’“Economist” e il “Financial Times”. Nonché di qualche commento un po’ indignato di giornalisti pensionati della testata, tenendo fuori gli economisti che meglio ne capiscono. Nel quadro della ipotesi neoguelfa della Curia milanese, e del suo uomo d’affari, l’avvocato Giovanni Bazoli. Col fine, anch’esso manifesto, di sbolognare Berlusconi dal governo e possibilmente dalla politica. Per riportare all’ovile, cioè a una nuova Dc, i voti confluiti su Berlusconi.
Il progetto di una nuova Dc sulle cenere del Pdl, che Berlusconi ha ora varato con Alfano, è una reazione al progetto che la Curia milanese ha in cantiere, col presidente dei vescovi Bagnasco, da un paio d’anni. A lungo il cardinale Tettamanzi e Giovanni Bazoli, il creatore del gruppo Intesa, hanno atteso che Berlusconi morisse, si diceva di cancro. Poi, Bazoli essendo diventato nel frattempo, nella sua incontenibile bulimia, anche il patron del già laico “Corriere della sera”, hanno deciso di non aspettare più prendendo l’iniziativa. Hanno cambiato inopinatamente direzione, da Paolo Mieli a Ferruccio de Bortoli. E instaurato in prima pagina i creatori di scandali, Rizzo e Stella, e la confidente della Finanza e dei Carabinieri, Sarzanini. Moltiplicando le trombe del giudizio anti-euro, contro l’Italia e contro ogni altro ostacolo eventuale in Europa: non una grande strategia, ma il vecchio efficace, biblico questo, e pretesco, “muoia Sansone con tutti i filistei”.
Si discute se non sia un altro 1992, se la politica non sia da buttare, se non ci sia una casta, anzi c’è senza’altro, e se l’Italia non debba uscire nuovamente dall’euro. Si discute ma su un fatto preciso: questa volta il balletto è condotto dalla Rcs, dal “Corriere della sera” in primo luogo. Che “monta” a scandalo qualsiasi evenienza. Fino al ridicolo di due brevi e-mail di un’azienda che, dopo l’accertamento fiscale delle Entrate, si chiedono quando verrà la Finanza. Un’azienda che “al 50 per cento è di Berlusconi”, tuona il giornale della capitale morale. Sulla base di un’informativa mandata dallo svelto Procuratore napoletano Woodcock al suo compare Francesco Greco a Milano, il vice Procuratore che fa della protezione della Rizzoli Corriere della sera la sua bandiera. Un’informativa procurata da un colonnello della Finanza di Milano che non voleva a comandante il generale Adinolfi. E quindi adombrava che la e-mail si riferisse a una talpa. E di conseguenza, se c’è una talpa alla Finanza, perché non sarebbe il generale Adinolfi? Roba da non credere, ma è lì, su una grande pagina del “Corriere della sera” del 15 luglio.
La richiesta di dimissioni a Tremonti, fatta avanzare autorevolmente dall’illustre collaboratore Sergio Romano, è solo la parte visibile. Il lettore del giornale ha ogni giorno insidiose accuse basate sui testimoni anche più screditati, sulla base del noto principio del “Barbiere di Siviglia”, “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. Con l’obiettivo dichiarato di indebolire il governo, e per conseguenza il debito italiano. Con l’incredibile sottovalutazione della finanziaria appena varata, che tocca in una volta i tre totem intoccabili della spesa pubblica, sanità, pensioni e statali. Che il “Corriere” ha ridotto al folklore della casta. Non per cavalcare Beppe Grillo, che è l’indigenza politica, e i cui seguaci comunque non leggono. No, per montare la rabbia. C’è sconcerto per questo fra i collaboratori del giornale, che si gonfi una montagna su una spesa marginale rispetto al costo crescente ogni giorno del Btp. E ben sapendo che la politica ha un costo, e che questo costo è bene sia finanziato pubblicamente.
Lo schieramento del giornale è peraltro, indirettamente e direttamente, a favore della speculazione. Direttamente con la sottolineatura dei tanti punti deboli che il debito italiano invece non ha rispetto al debito europeo – anche quello della Germania per intenderci, che ha da tempo superato in tromba quello italiano. E con una certa onestà d’intenti, dichiarati. Sebbene al coperto dell’autorevolezza di insigni pilastri della speculazione, quali sono, e sono noti per questo, l’“Economist” e il “Financial Times”. Nonché di qualche commento un po’ indignato di giornalisti pensionati della testata, tenendo fuori gli economisti che meglio ne capiscono. Nel quadro della ipotesi neoguelfa della Curia milanese, e del suo uomo d’affari, l’avvocato Giovanni Bazoli. Col fine, anch’esso manifesto, di sbolognare Berlusconi dal governo e possibilmente dalla politica. Per riportare all’ovile, cioè a una nuova Dc, i voti confluiti su Berlusconi.
Il progetto di una nuova Dc sulle cenere del Pdl, che Berlusconi ha ora varato con Alfano, è una reazione al progetto che la Curia milanese ha in cantiere, col presidente dei vescovi Bagnasco, da un paio d’anni. A lungo il cardinale Tettamanzi e Giovanni Bazoli, il creatore del gruppo Intesa, hanno atteso che Berlusconi morisse, si diceva di cancro. Poi, Bazoli essendo diventato nel frattempo, nella sua incontenibile bulimia, anche il patron del già laico “Corriere della sera”, hanno deciso di non aspettare più prendendo l’iniziativa. Hanno cambiato inopinatamente direzione, da Paolo Mieli a Ferruccio de Bortoli. E instaurato in prima pagina i creatori di scandali, Rizzo e Stella, e la confidente della Finanza e dei Carabinieri, Sarzanini. Moltiplicando le trombe del giudizio anti-euro, contro l’Italia e contro ogni altro ostacolo eventuale in Europa: non una grande strategia, ma il vecchio efficace, biblico questo, e pretesco, “muoia Sansone con tutti i filistei”.
giovedì 28 luglio 2011
Ombre - 97
Il “Corriere della sera” dichiara Tremonti corrotto: appalti in cambio di tangenti, sotto forma di “affitto pagato”. Schierando, oltre la gola profonda Sarzanini, il severo ambasciatore Romano. Per caso lo stesso giorno in cui si materializza il terzo assalto al debito italiano.
O il caso non c’entra: il “Corriere” è il solo giornale che accredita come credibile l’ex muratore Di Lernia che a Roma legge il giornale al Procuratore della Repubblica Paolo Ielo. E Romano non è sciocco, non si muove per niente.
Tremonti aveva spiegato in dettaglio già venti giorni prima come utilizzava la residenza a ridosso del Parlamento e come pagava. Mettendo in imbarazzo perfino Ielo, un reduce irreducibile di Mani Pulite, ma non il giornale di Milano.
Davide Tenerani, sui 25 anni, ha ucciso a coltellate, quindi con determinazione, un uomo di 27 anni, padre di un bambino, e senza motivo, se non l’aggravante forse dell’alcol. Ma dopo cinque mesi è a casa, graziato dal giudice della Spezia, Diana Brusacà. Con un provvedimento di scarcerazione che riconosce i presupposti per tenere in carcere Tenerani: la reiterazione del reato e l’inquinamento delle prove. Ma vuole sfidare le nuove leggi sulla scurezza del governo. Avvalendosi subito della sentenza della Corte Costituzionale che ha cassato l’obbligo della carcerazione per gli assassini.
Del provvedimento del giudice Brusacà si legge solo sui giornali moderati. I grandi quotidiani non ne parlano. Come della sentenza di Basiglio del giudice Forno. Se ne vergognano? C’è una disposizione superiore di non parlarne? Si sa che i giornali si muovono in pool: i grandi giornali, quelli di sinistra, quelli di destra.
Il Procuratore Capo di Milano si fa un bilancio dei propri uffici, e assicura che il costo delle intercettazioni è diminuito nell’anno della sua gestione del 40 per cento, senza “incidere sull’attività di accertamento”. Ma non dice, né indaga, perché prima le intercettazioni costavano il 40 per cento in più.
Non è la prima volta che la Lega vuole i ministeri. Già Maroni aveva aperto una succursale dell’Interno, nientemeno, a Milano nel 2003. In precedenza la pretesa era stata avanzata dal sindaco berlusconiano Albertini, al grido: Se Roma è la capitale, Milano è il capitale”. Di nuovo c’è ora che Napolitano vuole sbolognare il governo. Per una grande coalizione. Senza parere. A piccoli strappi. Si può dire che è Napoli che muove Milano? È un caso di comunione d’interessi.
Berlusconi è triste da qualche tempo. Nemmeno la televisione lo stimola più, apparire – per non dire delle troie, fa un estate di continenza, il compagno Zappadu ha dovuto ripiegare sulle statue. Si pensava la depressione causata dalla sconfitta alle elezioni nella diletta Milano. E invece no: a tutti, anche a Lino Banfi, confida che è triste perché l’hanno costretto a pagare il salatissimo riscatto a De Benedetti. Che, intascato il malloppo, non lo libera. Una vera ghenga di gentiluomini.
Franceschini e Di Pietro obbligano i propri deputati a dare il voto segreto con un certo dito, per farsi riconoscere. Controllati dalle telecamere, pubbliche e private.
Fini, che è il presidente della Camera, dice che questa è “una libera manifestazione della volontà”. Il che è possibile, perché l’uomo è ignorante: può non sapere chi era Stalin e com’era protetto il voto segreto in Unione Sovietica – per alzata di mano. Ma l’ex presidente della Camera Napolitano?
Diego Della Valle è sempre stato alleato di Moratti contro la Juventus. Da provinciale devoto, asservito a Milano. Anche se gli uomini di Moratti nel 2006, Guido Rossi e Borrelli, hanno picchiato duro sulla Fiorentina, dopo la Juventus e il Milan. Bloccandone il famoso rilancio alla partenza, la maniera più efficace di tagliare le gambe a un concorrente o intruso.
Ora Mr Tod’se ne risente. Dopo cinque anni. Con un argomento lapalissiano: “Due società non possono avere trattamento diverso per comportamenti analoghi”. Vuole poter lasciare la Fiorentina fingendosi offeso?
Il giovane Agnelli vuole fare causa a tutti per conto della Juventus. A tutti meno che ai napoletani che hanno affondato il suo club: l’ufficiale dei CC Auricchio e i giudici Narducci (persecutore dichiarato) e Beatrice. Scaramanzia (meglio non toccare Napoli)? Paura dei carabinieri?
Si giudica a Napoli una società di calcio, la Juventus, che è stata indagata con intento dichiaratamente persecutorio:
- mirato, con anni d’intercettazioni costanti, elaborate
- esclusivo: escludendo ogni altra notizia di reato emersa nelle contingenze.
- distorto: con una lettura parziale, per ciò stesso falsata, dei fatti.
- organizzato: con indiscrezioni pilotate a giornalisti fidati, al “Mattino” (Orfeo) e alla “Gazzetta dello Sport” (Palumbo)
Perché si giudica? Che giudice o giustizia sono quelli che accettano un simile processo?
Dove è finito lo scandalo dei due impiegati Mediolanum che si chiedevano per e-mail: “Quando avremo la Finanza in casa?”, dopo che l’azienda era stata oggetto di un accertamento dell’Agenzia delle Entrate. E-mail sospette, a parere del colonnello della Finanza Tomei e del giudice Robledo, che ne hanno avvisato il “Corriere della sera”. Il 14 luglio. Prima ancora di aprire un procedimento: non era la conferma che c’era una talpa alla Guardia di Finanza?
Poi il 15, o il 16, la prevista promozione del generale Adinolfi a capo dell’Arma è saltata. L’obiettivo talpa è stato raggiunto?
La Camera vota l’arresto di un deputato berlusconiano colpevole, agli atti, di niente. Mentre il Senato evita l’arresto a un esponente Pd colpevole accertato, agli atti. I giornali di regime dicono esultanti che è la fine di Berlusconi. Ma i loro lettori evidentemente sanno leggere. Perché è su questa giustizia che l’incredibile Berlusconi si regge.
Woodcock sollecito manda a Milano anche le virgole delle chiacchiere, all’orecchio assoluto dei colonnelli della Finanza (due e-mail innocenti d’impiegati Mediolanum, l’affitto di Tremonti, etc.) Mentre non manda a Roma le sue inchieste su Roma, un atto palese d’illegalità. Protetta, bisogna dire dal Csm, cioè del presidente Napolitano, la napoletanità c’è e lavora.
Da buon napoletano Woodcock sa chi comanda: è Milano. Nelle vesti del vice Procuratore Francesco Greco, primo napoletano della capitale morale.
Non ci ha messo molto De Magistris a nominare assessore a Napoli il giudice Narducci, e il giudice ad accettare la nomina. Uno specializzato a dare la caccia ai berlusconiani (e agli juventini), di preferenza che ai camorristi. Anche ai nemici dell’onorevole Bocchino.
O il caso non c’entra: il “Corriere” è il solo giornale che accredita come credibile l’ex muratore Di Lernia che a Roma legge il giornale al Procuratore della Repubblica Paolo Ielo. E Romano non è sciocco, non si muove per niente.
Tremonti aveva spiegato in dettaglio già venti giorni prima come utilizzava la residenza a ridosso del Parlamento e come pagava. Mettendo in imbarazzo perfino Ielo, un reduce irreducibile di Mani Pulite, ma non il giornale di Milano.
Davide Tenerani, sui 25 anni, ha ucciso a coltellate, quindi con determinazione, un uomo di 27 anni, padre di un bambino, e senza motivo, se non l’aggravante forse dell’alcol. Ma dopo cinque mesi è a casa, graziato dal giudice della Spezia, Diana Brusacà. Con un provvedimento di scarcerazione che riconosce i presupposti per tenere in carcere Tenerani: la reiterazione del reato e l’inquinamento delle prove. Ma vuole sfidare le nuove leggi sulla scurezza del governo. Avvalendosi subito della sentenza della Corte Costituzionale che ha cassato l’obbligo della carcerazione per gli assassini.
Del provvedimento del giudice Brusacà si legge solo sui giornali moderati. I grandi quotidiani non ne parlano. Come della sentenza di Basiglio del giudice Forno. Se ne vergognano? C’è una disposizione superiore di non parlarne? Si sa che i giornali si muovono in pool: i grandi giornali, quelli di sinistra, quelli di destra.
Il Procuratore Capo di Milano si fa un bilancio dei propri uffici, e assicura che il costo delle intercettazioni è diminuito nell’anno della sua gestione del 40 per cento, senza “incidere sull’attività di accertamento”. Ma non dice, né indaga, perché prima le intercettazioni costavano il 40 per cento in più.
Non è la prima volta che la Lega vuole i ministeri. Già Maroni aveva aperto una succursale dell’Interno, nientemeno, a Milano nel 2003. In precedenza la pretesa era stata avanzata dal sindaco berlusconiano Albertini, al grido: Se Roma è la capitale, Milano è il capitale”. Di nuovo c’è ora che Napolitano vuole sbolognare il governo. Per una grande coalizione. Senza parere. A piccoli strappi. Si può dire che è Napoli che muove Milano? È un caso di comunione d’interessi.
Berlusconi è triste da qualche tempo. Nemmeno la televisione lo stimola più, apparire – per non dire delle troie, fa un estate di continenza, il compagno Zappadu ha dovuto ripiegare sulle statue. Si pensava la depressione causata dalla sconfitta alle elezioni nella diletta Milano. E invece no: a tutti, anche a Lino Banfi, confida che è triste perché l’hanno costretto a pagare il salatissimo riscatto a De Benedetti. Che, intascato il malloppo, non lo libera. Una vera ghenga di gentiluomini.
Franceschini e Di Pietro obbligano i propri deputati a dare il voto segreto con un certo dito, per farsi riconoscere. Controllati dalle telecamere, pubbliche e private.
Fini, che è il presidente della Camera, dice che questa è “una libera manifestazione della volontà”. Il che è possibile, perché l’uomo è ignorante: può non sapere chi era Stalin e com’era protetto il voto segreto in Unione Sovietica – per alzata di mano. Ma l’ex presidente della Camera Napolitano?
Diego Della Valle è sempre stato alleato di Moratti contro la Juventus. Da provinciale devoto, asservito a Milano. Anche se gli uomini di Moratti nel 2006, Guido Rossi e Borrelli, hanno picchiato duro sulla Fiorentina, dopo la Juventus e il Milan. Bloccandone il famoso rilancio alla partenza, la maniera più efficace di tagliare le gambe a un concorrente o intruso.
Ora Mr Tod’se ne risente. Dopo cinque anni. Con un argomento lapalissiano: “Due società non possono avere trattamento diverso per comportamenti analoghi”. Vuole poter lasciare la Fiorentina fingendosi offeso?
Il giovane Agnelli vuole fare causa a tutti per conto della Juventus. A tutti meno che ai napoletani che hanno affondato il suo club: l’ufficiale dei CC Auricchio e i giudici Narducci (persecutore dichiarato) e Beatrice. Scaramanzia (meglio non toccare Napoli)? Paura dei carabinieri?
Si giudica a Napoli una società di calcio, la Juventus, che è stata indagata con intento dichiaratamente persecutorio:
- mirato, con anni d’intercettazioni costanti, elaborate
- esclusivo: escludendo ogni altra notizia di reato emersa nelle contingenze.
- distorto: con una lettura parziale, per ciò stesso falsata, dei fatti.
- organizzato: con indiscrezioni pilotate a giornalisti fidati, al “Mattino” (Orfeo) e alla “Gazzetta dello Sport” (Palumbo)
Perché si giudica? Che giudice o giustizia sono quelli che accettano un simile processo?
Dove è finito lo scandalo dei due impiegati Mediolanum che si chiedevano per e-mail: “Quando avremo la Finanza in casa?”, dopo che l’azienda era stata oggetto di un accertamento dell’Agenzia delle Entrate. E-mail sospette, a parere del colonnello della Finanza Tomei e del giudice Robledo, che ne hanno avvisato il “Corriere della sera”. Il 14 luglio. Prima ancora di aprire un procedimento: non era la conferma che c’era una talpa alla Guardia di Finanza?
Poi il 15, o il 16, la prevista promozione del generale Adinolfi a capo dell’Arma è saltata. L’obiettivo talpa è stato raggiunto?
La Camera vota l’arresto di un deputato berlusconiano colpevole, agli atti, di niente. Mentre il Senato evita l’arresto a un esponente Pd colpevole accertato, agli atti. I giornali di regime dicono esultanti che è la fine di Berlusconi. Ma i loro lettori evidentemente sanno leggere. Perché è su questa giustizia che l’incredibile Berlusconi si regge.
Woodcock sollecito manda a Milano anche le virgole delle chiacchiere, all’orecchio assoluto dei colonnelli della Finanza (due e-mail innocenti d’impiegati Mediolanum, l’affitto di Tremonti, etc.) Mentre non manda a Roma le sue inchieste su Roma, un atto palese d’illegalità. Protetta, bisogna dire dal Csm, cioè del presidente Napolitano, la napoletanità c’è e lavora.
Da buon napoletano Woodcock sa chi comanda: è Milano. Nelle vesti del vice Procuratore Francesco Greco, primo napoletano della capitale morale.
Non ci ha messo molto De Magistris a nominare assessore a Napoli il giudice Narducci, e il giudice ad accettare la nomina. Uno specializzato a dare la caccia ai berlusconiani (e agli juventini), di preferenza che ai camorristi. Anche ai nemici dell’onorevole Bocchino.
Il mondo com'è - 67
astolfo
Australia – Potrebbe essere intraprendente perché è stata galeotta e criminale. Il collegamento è fatto dal latinista inglese Ronald Syme nel 1988, nella presentazione in una serie di conferenze da lui tenute in Canada, all’università di Hamilton, negli anni 1950 (quando l’Australia si pregiava ancora di essere, come il Canada, un dominion della regina Elisabetta), riunite in Italia nella pubblicazione “Tre élites coloniali”, sui gruppi di comando nei tre imperi, romano, spagnolo e britannico. Alla fine della prefazione, mesto per il previsto ingresso della Gran Bretagna nell’Unione Europea, l’illustre antichista esalta con sua stessa sorpresa l’australiano: “L’uomo australiano… esalta la ribellione, l’originalità, il piacere della cultura metropolitana, che non ritiene incompatibile con galeotti e banditi. Come se fossero eroi nazionali”. Si sa che l’Australia fu popolate nel Settecento dall’Inghilterra di galeotti e banditi. Syme giudica positivamente anche l’atteggiamento dell’australiano, “radicale”, cioè aperto alle innovazioni, di fronte al “vecchiume” dell’Inghilterra, al conservatorismo degli stessi proletari.
Si potrebbe dedurne che, lasciando il Sud alle mafie, domani i meridionali saranno intraprendenti, innovativi, moderni? E coraggiosi e leali. O non bisogneebbe prima che ci fossero tanti Syme a Nord?
Europa – Passa indubbiamente da Londra l’attacco al debito europeo e all’euro. A conferma che l’Unione è stata una costruzione forzata, una sorta di opzione fra le tante e non l’esito di un processo storico e politico, e quindi è debole. Un 14 luglio non lontano, del 1988, il pur appassionato latinista inglese Ronald Syme volle concludere la presentazione per il pubblico italiano delle sue conferenze “Tre élites coloniali”, con elogi per l’impero romano e critiche per quello spagnolo e quello britannico, con un apprezzamento per gli ex “domini” di Londra, Canada e Australia, e con la finale amarezza “che l’antico potere imperiale, che aveva reso vane le aspirazioni di Luigi VIV, di Napoleone e del despota tedesco debba scegliere di essere integrato in una «Europa» così eterogenea, costituita da una dozzina di paesi, inclusi Portogallo e Grecia”.
Islam - Khomeini è un fatto, e anche un diritto. “Capisce”, spiegava nel 1987 Alain Touraine a Nanni Filippini (ora in “La verità del gatto”, p. 207), “nel 1956 Guy Mollet pensava ancora, certamente in buona fede, che in Algeria andava difesa la democrazia laica contro il fanatismo mussulmano”. Mollet fu l’ultimo presidente del consiglio francese del vecchio partito socialista, la Sfio. “Invece no”, spiega il sociologo, “ci sono certamente le culture”.
Sempre a Nanni Filippini Ronald Barthes diceva nel 1979 (l’intervista è ora in “La verità del gatto”), dopo la vittoria del khomeinismo:”Le società avanzate attuali hanno un consumo enorme di immagini e un consumo minimo di credenze. Nelle società islamiche avviene il contrario. Così, le società liberali sono meno fanatiche, ma meno autentiche”. Mentre si sa che Khomeini s’impose audiovisivamente (Foucault peraltro lo notava) con una diffusione di audiocassette e superotto, i video di allora, inimmaginabile nei paesi ricchi, in Europa o negli Usa – solo a Teheran, è vero, ma la città ha in Iran il ruolo dominante che ha Parigi in Francia.
Monarchia universale – Frances Yates non sa non magnificarne, in “Astraea”, retrospettivamente il senso superiore, della politica che converge e non si annienta, neppure “civilmente”. Nel corso della prima guerra Luigi Einaudi (“Junius”) constatava invece “la vana chimera della monarchia universale” (“Lettere politiche”, 88-89). Per inseguire la quale Italia e Germania, allora in guerra, rimasero per secoli divise e in costante guerra “civile”.
Séguéla, Jacques – Il pubblicitario francese che ha “inventato” Mitterrand è all’origine anche del successo di Sarkozy. Con più difficoltà, perché il presidente in carica non ha la scorza di Mitterrand, e anzi sembra fallirle tutte. Ma allora con più inventiva.
A Mitterrand Séguéla arrivò creando a fine anni 1970 l’attesa per un Mister X tra le file socialiste, che non si erano riprese dalla decisione nel 1956 della guerra in Algeria. Poi venne il partito Socialista come “forza tranquilla”. Lo slogan ebbe successo, e allora Séguéla lo incollò al semisconosciuto Mitterrand. Al quale creò un passato di militanza nella Resistenza ma anche, oscuramente, di vichysmo, di collusione col governo filotedesco di Vichy nella Francia occupata dalla Germania nazista. Séguéla prendeva atto che nel semipresidenzialismo francese il candidato pesa più del partito. Contemporaneamente, in questa apertura del radicalismo socialista all’ordine, veniva occultata, e anzi segretata, la volagerie del candidato, che aveva un’amante stabile con una figlia, non inconsueta a sinistra. Un buon candidato presidente, nei regimi elettorali plebiscitari, deve pescare a destra e a sinistra
Sarkozy è stato un candidato più difficile per Séguéla perché, giovanilista mezzo radicale, seppure di destra, sposato con una ex modella, era stato da questa abbandonato. Per un amante peraltro di nessuna attrattiva. Séguéla l’ha recuperata per la campagna presidenziale, con un congruo assegno. Dopodiché ha attoniato il presidente di ministre tutte rigorosamente di fascino, giovani e meno giovani, e di ministri giovanilisti transfughi dal partito Socialista. E quando l’ex modella, scaduti i sei mesi, chiese il divorzio, Séguéla s’inventò Carla Bruni: progressista per riequilibrare, ma ricca di suo e quindi indipendente, bella ma anche devota, amante e mamma, tutta presa dal suo ruolo al punto da sacrificare tutto al marito. Recitando sempre correttamente, seppure non convincentemente: non sgarra i tempi. E ora gli fa un figlio in tempo per la campagna elettorale.
La scelta, se si voleva, era anche facile: anche Carla Bruni è stata modella, e questo bastava per innamorare Sarkozy. Ma in più questa modella sente il fascino dell’età e dell’autorità – era famosa per aver fatto un figlio col padre del suo fidanzato, Jean-Paul Einthoven (entrambi, il padre del fidanzato e Sarkozy, li ha impalmati pressappoco alla stessa età, verso i cinquanta).
Carla Bruni potrebbe tuttavia non bastare: Sarkozy è un presidente talmente deludente che Séguéla ha sempre aperta la partita più difficile, la rielezione. Malgrado il matrimonio, il figlio in arrivo, la guerra a Gheddafi, e le continue visite a Angela Merkel il presidente uscente rischia di uscire malconcio dal primo turno – e anche, in dipendenza dalla campagna elettorale di Marine Le Pen, di non andare al ballottaggio. La propaganda in politica non è tutto – forse Mitterrad aveva più stoffa di quanto lo stesso Séguéla pensasse.
Non è quello però che pensa Séguéla. Cui si deve l’affondo, apparentemente insensato, contro il partito Socialista, con tutti i servizi mobilitati, o macchina del fango, contro Strauss Kahn come contro la Aubry, e ora François Hollande. La strategia di Séguéla è di ripetere la rielezione di Chirac. E cioè di lasciar fuori dal ballottaggio il candidato socialista, mandando al secondo turno destra e estrema destra. Con la sinistra nuovamente obbligata a quel punto di votare Sarkozy per scongiurare il pericolo Le Pen.
astolfo@antiit.eu
Australia – Potrebbe essere intraprendente perché è stata galeotta e criminale. Il collegamento è fatto dal latinista inglese Ronald Syme nel 1988, nella presentazione in una serie di conferenze da lui tenute in Canada, all’università di Hamilton, negli anni 1950 (quando l’Australia si pregiava ancora di essere, come il Canada, un dominion della regina Elisabetta), riunite in Italia nella pubblicazione “Tre élites coloniali”, sui gruppi di comando nei tre imperi, romano, spagnolo e britannico. Alla fine della prefazione, mesto per il previsto ingresso della Gran Bretagna nell’Unione Europea, l’illustre antichista esalta con sua stessa sorpresa l’australiano: “L’uomo australiano… esalta la ribellione, l’originalità, il piacere della cultura metropolitana, che non ritiene incompatibile con galeotti e banditi. Come se fossero eroi nazionali”. Si sa che l’Australia fu popolate nel Settecento dall’Inghilterra di galeotti e banditi. Syme giudica positivamente anche l’atteggiamento dell’australiano, “radicale”, cioè aperto alle innovazioni, di fronte al “vecchiume” dell’Inghilterra, al conservatorismo degli stessi proletari.
Si potrebbe dedurne che, lasciando il Sud alle mafie, domani i meridionali saranno intraprendenti, innovativi, moderni? E coraggiosi e leali. O non bisogneebbe prima che ci fossero tanti Syme a Nord?
Europa – Passa indubbiamente da Londra l’attacco al debito europeo e all’euro. A conferma che l’Unione è stata una costruzione forzata, una sorta di opzione fra le tante e non l’esito di un processo storico e politico, e quindi è debole. Un 14 luglio non lontano, del 1988, il pur appassionato latinista inglese Ronald Syme volle concludere la presentazione per il pubblico italiano delle sue conferenze “Tre élites coloniali”, con elogi per l’impero romano e critiche per quello spagnolo e quello britannico, con un apprezzamento per gli ex “domini” di Londra, Canada e Australia, e con la finale amarezza “che l’antico potere imperiale, che aveva reso vane le aspirazioni di Luigi VIV, di Napoleone e del despota tedesco debba scegliere di essere integrato in una «Europa» così eterogenea, costituita da una dozzina di paesi, inclusi Portogallo e Grecia”.
Islam - Khomeini è un fatto, e anche un diritto. “Capisce”, spiegava nel 1987 Alain Touraine a Nanni Filippini (ora in “La verità del gatto”, p. 207), “nel 1956 Guy Mollet pensava ancora, certamente in buona fede, che in Algeria andava difesa la democrazia laica contro il fanatismo mussulmano”. Mollet fu l’ultimo presidente del consiglio francese del vecchio partito socialista, la Sfio. “Invece no”, spiega il sociologo, “ci sono certamente le culture”.
Sempre a Nanni Filippini Ronald Barthes diceva nel 1979 (l’intervista è ora in “La verità del gatto”), dopo la vittoria del khomeinismo:”Le società avanzate attuali hanno un consumo enorme di immagini e un consumo minimo di credenze. Nelle società islamiche avviene il contrario. Così, le società liberali sono meno fanatiche, ma meno autentiche”. Mentre si sa che Khomeini s’impose audiovisivamente (Foucault peraltro lo notava) con una diffusione di audiocassette e superotto, i video di allora, inimmaginabile nei paesi ricchi, in Europa o negli Usa – solo a Teheran, è vero, ma la città ha in Iran il ruolo dominante che ha Parigi in Francia.
Monarchia universale – Frances Yates non sa non magnificarne, in “Astraea”, retrospettivamente il senso superiore, della politica che converge e non si annienta, neppure “civilmente”. Nel corso della prima guerra Luigi Einaudi (“Junius”) constatava invece “la vana chimera della monarchia universale” (“Lettere politiche”, 88-89). Per inseguire la quale Italia e Germania, allora in guerra, rimasero per secoli divise e in costante guerra “civile”.
Séguéla, Jacques – Il pubblicitario francese che ha “inventato” Mitterrand è all’origine anche del successo di Sarkozy. Con più difficoltà, perché il presidente in carica non ha la scorza di Mitterrand, e anzi sembra fallirle tutte. Ma allora con più inventiva.
A Mitterrand Séguéla arrivò creando a fine anni 1970 l’attesa per un Mister X tra le file socialiste, che non si erano riprese dalla decisione nel 1956 della guerra in Algeria. Poi venne il partito Socialista come “forza tranquilla”. Lo slogan ebbe successo, e allora Séguéla lo incollò al semisconosciuto Mitterrand. Al quale creò un passato di militanza nella Resistenza ma anche, oscuramente, di vichysmo, di collusione col governo filotedesco di Vichy nella Francia occupata dalla Germania nazista. Séguéla prendeva atto che nel semipresidenzialismo francese il candidato pesa più del partito. Contemporaneamente, in questa apertura del radicalismo socialista all’ordine, veniva occultata, e anzi segretata, la volagerie del candidato, che aveva un’amante stabile con una figlia, non inconsueta a sinistra. Un buon candidato presidente, nei regimi elettorali plebiscitari, deve pescare a destra e a sinistra
Sarkozy è stato un candidato più difficile per Séguéla perché, giovanilista mezzo radicale, seppure di destra, sposato con una ex modella, era stato da questa abbandonato. Per un amante peraltro di nessuna attrattiva. Séguéla l’ha recuperata per la campagna presidenziale, con un congruo assegno. Dopodiché ha attoniato il presidente di ministre tutte rigorosamente di fascino, giovani e meno giovani, e di ministri giovanilisti transfughi dal partito Socialista. E quando l’ex modella, scaduti i sei mesi, chiese il divorzio, Séguéla s’inventò Carla Bruni: progressista per riequilibrare, ma ricca di suo e quindi indipendente, bella ma anche devota, amante e mamma, tutta presa dal suo ruolo al punto da sacrificare tutto al marito. Recitando sempre correttamente, seppure non convincentemente: non sgarra i tempi. E ora gli fa un figlio in tempo per la campagna elettorale.
La scelta, se si voleva, era anche facile: anche Carla Bruni è stata modella, e questo bastava per innamorare Sarkozy. Ma in più questa modella sente il fascino dell’età e dell’autorità – era famosa per aver fatto un figlio col padre del suo fidanzato, Jean-Paul Einthoven (entrambi, il padre del fidanzato e Sarkozy, li ha impalmati pressappoco alla stessa età, verso i cinquanta).
Carla Bruni potrebbe tuttavia non bastare: Sarkozy è un presidente talmente deludente che Séguéla ha sempre aperta la partita più difficile, la rielezione. Malgrado il matrimonio, il figlio in arrivo, la guerra a Gheddafi, e le continue visite a Angela Merkel il presidente uscente rischia di uscire malconcio dal primo turno – e anche, in dipendenza dalla campagna elettorale di Marine Le Pen, di non andare al ballottaggio. La propaganda in politica non è tutto – forse Mitterrad aveva più stoffa di quanto lo stesso Séguéla pensasse.
Non è quello però che pensa Séguéla. Cui si deve l’affondo, apparentemente insensato, contro il partito Socialista, con tutti i servizi mobilitati, o macchina del fango, contro Strauss Kahn come contro la Aubry, e ora François Hollande. La strategia di Séguéla è di ripetere la rielezione di Chirac. E cioè di lasciar fuori dal ballottaggio il candidato socialista, mandando al secondo turno destra e estrema destra. Con la sinistra nuovamente obbligata a quel punto di votare Sarkozy per scongiurare il pericolo Le Pen.
astolfo@antiit.eu
martedì 26 luglio 2011
Problemi di base - 68
spock
Moody’s che taglia il rating della remora minuscola Grecia, mentre glissa sul default americano e mondiale, è un omaggio alla classicità?
La presidente della commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Bongiorno, che fa assolvere un assassino di cui sa la colpevolezza, che onorevole è?
“Addio alla verità” non è una verità? Sarà Gianni Vattimo il nuovo Epimenide cretese, quello che diceva tutti i cretesi bugiardi?
Rivoltato - nel senso dei vestiti, un tempo, e del cavallo rivoltato a Napoli (“era vecchio e l’abbiamo rivoltato”)
L’Ereignis che nel Filosofo del Novecento Heidegger rende possibile il velamento-disvelamenteo dell’Essere, ha a che fare con i ragni?
Se Murdoch è lo Squalo, Woodcock che pesce può essere?
spock@antiit.eu
Moody’s che taglia il rating della remora minuscola Grecia, mentre glissa sul default americano e mondiale, è un omaggio alla classicità?
La presidente della commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Bongiorno, che fa assolvere un assassino di cui sa la colpevolezza, che onorevole è?
“Addio alla verità” non è una verità? Sarà Gianni Vattimo il nuovo Epimenide cretese, quello che diceva tutti i cretesi bugiardi?
Rivoltato - nel senso dei vestiti, un tempo, e del cavallo rivoltato a Napoli (“era vecchio e l’abbiamo rivoltato”)
L’Ereignis che nel Filosofo del Novecento Heidegger rende possibile il velamento-disvelamenteo dell’Essere, ha a che fare con i ragni?
Se Murdoch è lo Squalo, Woodcock che pesce può essere?
spock@antiit.eu
Letture - 69
letterautore
Conan Doyle – Psicologi, storici, medici operano sempre più a mezzo di congetture. Come dei detective. Procedono con l’immaginazione, di cui nessuno più contesta gli spazi di verità. L’inventore di Sherlock Holmes diventa immortale per avere aperto la gabbia del romanzo ottocentesco (i tipi-ruoli, le tematiche, i finali) non solo, ma anche la storiografia e la filosofia degli schemi (patterns) e dei sistemi.
È dura fare dello stolido, impegnatissimo, occupatissimo Conan Doyle un innovatore, e anche sopraffino, ma non c’è niente di meglio.
Croce – Capita ancora di leggere nei giornali e ascoltare nelle serate culturali estive di Croce come di quello che ha amputato la cultura in Italia, impedendole ogni trasgressione, verso il fantastico, l’insolito, l’irregolare. Mentre Croce è ben morto da moltissimo tempo. Dal 1952 per l’anagrafe, cioè dalla seconda guerra mondiale, e dalla prima, anzi dalla guerra di Libia, per l’anagrafe culturale. L’Italia è amputata dal neo realismo sovietico, che ha dominato, questo sì, e continua a dominare in Italia – di cui Croce è una delle vittime, la vulgata del crocianesimo che ci affligge.
Dante – ”Sulla poesia di Dante e Beatrice”, uno dei Tredici Sonetti di Brecht, ha anche una versione scurrile, come molte altre poesie dello stesso (G.Scholem, “Walter Benjamin”, p.25)
È il riferimento, nel Novecento, della letteratura più solida e innovativa, Joyce, Pound, T.S.Eliot, Beckett. E del fascismo.
Si può liberare il “Paradiso” dagli angelismi, e dalle polifonie (Palestrina), l’“Inferno” da Doré, la vita di Dante dalla politica repubblicana. Certo Dante non è(ra) contemporaneo, se la contemporaneità sta(va) per il centralismo democratico.
“La cultura è notizia che rimane notizia”, assicura Pound. Cronaca viva che rimane storia viva. È qui il successo di ogni opera che si rinnovi costante, la contemporaneità.
Nella “Vita Nuova” invece, così d’avanguardia, il Medio Evo è solo Medio Evo per la studiosissima Vernon Lee, “Genius Loci”, 72.
Rensi lo porta nell’“Autobiografia” (p. 198) a fondamento dello scetticismo in Italia. Che dice felicemente “preparato dal potente individualismo di Dante”. Salvo poi trasporlo in “un pirronismo positivista pascalianamente colorato”.
Dante e Shakespeare, prima che in Croce, è apparentamento di Carlyle, negli “Eroi”.
Il segreto di Dante Carlyle trova, p. 130, nella musicalità, per la facile terza rima, quasi una salmodia. Non per il ritmo – il segreto dell’ultima traduzione, di Jacqueline Risset, che ha introdotto in Francia un “altro” Dante, senza note?
È stato recentemente un represso, un antifemminista e un antigay, c’è anche questo Dante. Che dle resto incredibilmente continua a parlare ai galeotti e ai pastori. Non c’è un Dante donna, che invece c’è per Omero e Shakespeare. È però da qualche tempo gay.
Dante è gay perché l’inferno gli riesce meglio. Teoria forse non provocatoria, del tipo scandalistico, anche se implica una concezione, o esperienza, nera della buggeratura. Di diffidenza e prevaricazione, uguale per i gay liberati come nei secoli dell’occultamento, anche se di pulsioni modernizzate in sadomaso. Che è la realtà di Pasolini e della letteratura e pratica Usa.
Destra – Manca di “cultura” non soltanto in Italia. Il filosofo americano Richard Rorty spiegava nel 1995 in un’intervista (ora in “Micromega” 5/2011), al tempo del “politicamente corretto” che dominava le università: “Università e college sono i bastioni della sinistra americana…I professori delle materie umanistiche e delle scienze sociali votano sempre, in larghissima maggioranza, per i democratici, ed è ovvio che i i giovani che frequentano corsi di scienze sociali e materie umanistiche finiranno per essere vagamente sospinti verso sinistra”.
Manca di una cultura in quanto incapace di fare l’opinione pubblica. Anche quando il voto popolare è stato a suo favore. Questo avviene solo in Italia. Negli Usa e nel Regno Unito si può invece dire in questo senso quella di destra la sola cultura.
Foucault - È l’epigono del Sessantotto che in teoria avrebbe innescato – ma che non lo conosceva, se non di fatto, “nei fatti”. Attardato. Per l’anagrafe, e più per la radicalizzazione compiaciuta, per essere la coda interminabile della cometa – in quanto coda sì, ne è l’incarnazione. Per l’avvento sfasato (fuori tempo), scriteriato (mai in grado di contrastare quel potere di cui è stato l’analista più perspicuo), e mai rivoluzionario, se non nel senso del rivendicazionismo amaro del reduce, incontenibile.
È la coda infinita che rende sospetto il Sessantotto, l’avvitamento nel rifiuto (radicalismo), la deriva antisistema. Oggi antipolitica. Uno scorre la colonna di sinistra del sito “Il Fatto Quotidiano” e rimane esterrefatto alle tante volgari declinazioni foucaultiane, un multiplo interminabile. A opera, guardando le faccine dei blogger, di ex del Sessantotto, anche se qualcuno nato dopo, tutti assertivi, perfino ultimativi, e tutti reduci, tutti contro tutto, mai contro se stessi. Foucault ne è il precursore e l’interprete. Che si è prima lasciato trascinare, studioso modesto e topo di biblioteca, nella contestazione all’università, recalcitrante, e dopo invece ha finito per avallare il terrorismo, il khomeinismo, il sesso cieco di cui è morto.
È l’epigono del Sessantotto nella vicenda personale o “impegno”, non certo negli scritti – anche se, nella seconda fase, post-Nanterre, essi pure si avvitano senza fine. Per una voglia evidente di dissoluzione. Questa non era nel Sessantotto, movimento vitalistico – oppure sì?
Giovanni – Non fosse sacro, il suo Vangelo sarebbe diabolico: ne ha tutte le caratteristiche. Anticipatore perfino della teologia negativa, dell’idea di dio all’epoca dell’incroyance. La Notte di tenebra (Gesù al Getsemani), la Salita al Carmelo, che si vogliono oscure ma non si nascondono: il tema di queste rappresentazioni è l’eclisse della luce, cioè del divino. Il Cristo-Dio stesso, l’uomo, l’anima procedono in un gelido cono d’ombra.
Incipit – È un modo, anche esorcistico, per rompere l’afasia? O solo di rompere l’ozio. Bernanos apre il tragico “Sotto il sole di Satana” con un “Ecco, è l’ora della sera che P.J.Toulet amava”. Che anche a sapere chi è Toulet non cambia, autore di rimette e controrimette.
Proust – Contini raccontò a Nani Filippini (ora in “La verità del gatto”, p. 195): “Ho conosciuto un chirurgo che, essendo amico del fratello, ebbe la ventura di fare alcune iniezioni a Marcel nei suoi ultimi giorni. Gli chiesi com’era. Mi rispose: “Il avait une odeur butyrique…”. L’acido butirrico è quello che sa di sudore o di grasso del latte. Non è l’odore della “Recherche”, che invece sa di muffa.
Il vecchiaccio Contini lo raccontava perché, diceva, “ho sempre ammirato coloro che hanno toccato i grandi”. Perché il corpo del re è come quello di ogni altro, deludente se morto. E solo l’opera resta, a onore dei critici.
letterautore@antiit.eu
Conan Doyle – Psicologi, storici, medici operano sempre più a mezzo di congetture. Come dei detective. Procedono con l’immaginazione, di cui nessuno più contesta gli spazi di verità. L’inventore di Sherlock Holmes diventa immortale per avere aperto la gabbia del romanzo ottocentesco (i tipi-ruoli, le tematiche, i finali) non solo, ma anche la storiografia e la filosofia degli schemi (patterns) e dei sistemi.
È dura fare dello stolido, impegnatissimo, occupatissimo Conan Doyle un innovatore, e anche sopraffino, ma non c’è niente di meglio.
Croce – Capita ancora di leggere nei giornali e ascoltare nelle serate culturali estive di Croce come di quello che ha amputato la cultura in Italia, impedendole ogni trasgressione, verso il fantastico, l’insolito, l’irregolare. Mentre Croce è ben morto da moltissimo tempo. Dal 1952 per l’anagrafe, cioè dalla seconda guerra mondiale, e dalla prima, anzi dalla guerra di Libia, per l’anagrafe culturale. L’Italia è amputata dal neo realismo sovietico, che ha dominato, questo sì, e continua a dominare in Italia – di cui Croce è una delle vittime, la vulgata del crocianesimo che ci affligge.
Dante – ”Sulla poesia di Dante e Beatrice”, uno dei Tredici Sonetti di Brecht, ha anche una versione scurrile, come molte altre poesie dello stesso (G.Scholem, “Walter Benjamin”, p.25)
È il riferimento, nel Novecento, della letteratura più solida e innovativa, Joyce, Pound, T.S.Eliot, Beckett. E del fascismo.
Si può liberare il “Paradiso” dagli angelismi, e dalle polifonie (Palestrina), l’“Inferno” da Doré, la vita di Dante dalla politica repubblicana. Certo Dante non è(ra) contemporaneo, se la contemporaneità sta(va) per il centralismo democratico.
“La cultura è notizia che rimane notizia”, assicura Pound. Cronaca viva che rimane storia viva. È qui il successo di ogni opera che si rinnovi costante, la contemporaneità.
Nella “Vita Nuova” invece, così d’avanguardia, il Medio Evo è solo Medio Evo per la studiosissima Vernon Lee, “Genius Loci”, 72.
Rensi lo porta nell’“Autobiografia” (p. 198) a fondamento dello scetticismo in Italia. Che dice felicemente “preparato dal potente individualismo di Dante”. Salvo poi trasporlo in “un pirronismo positivista pascalianamente colorato”.
Dante e Shakespeare, prima che in Croce, è apparentamento di Carlyle, negli “Eroi”.
Il segreto di Dante Carlyle trova, p. 130, nella musicalità, per la facile terza rima, quasi una salmodia. Non per il ritmo – il segreto dell’ultima traduzione, di Jacqueline Risset, che ha introdotto in Francia un “altro” Dante, senza note?
È stato recentemente un represso, un antifemminista e un antigay, c’è anche questo Dante. Che dle resto incredibilmente continua a parlare ai galeotti e ai pastori. Non c’è un Dante donna, che invece c’è per Omero e Shakespeare. È però da qualche tempo gay.
Dante è gay perché l’inferno gli riesce meglio. Teoria forse non provocatoria, del tipo scandalistico, anche se implica una concezione, o esperienza, nera della buggeratura. Di diffidenza e prevaricazione, uguale per i gay liberati come nei secoli dell’occultamento, anche se di pulsioni modernizzate in sadomaso. Che è la realtà di Pasolini e della letteratura e pratica Usa.
Destra – Manca di “cultura” non soltanto in Italia. Il filosofo americano Richard Rorty spiegava nel 1995 in un’intervista (ora in “Micromega” 5/2011), al tempo del “politicamente corretto” che dominava le università: “Università e college sono i bastioni della sinistra americana…I professori delle materie umanistiche e delle scienze sociali votano sempre, in larghissima maggioranza, per i democratici, ed è ovvio che i i giovani che frequentano corsi di scienze sociali e materie umanistiche finiranno per essere vagamente sospinti verso sinistra”.
Manca di una cultura in quanto incapace di fare l’opinione pubblica. Anche quando il voto popolare è stato a suo favore. Questo avviene solo in Italia. Negli Usa e nel Regno Unito si può invece dire in questo senso quella di destra la sola cultura.
Foucault - È l’epigono del Sessantotto che in teoria avrebbe innescato – ma che non lo conosceva, se non di fatto, “nei fatti”. Attardato. Per l’anagrafe, e più per la radicalizzazione compiaciuta, per essere la coda interminabile della cometa – in quanto coda sì, ne è l’incarnazione. Per l’avvento sfasato (fuori tempo), scriteriato (mai in grado di contrastare quel potere di cui è stato l’analista più perspicuo), e mai rivoluzionario, se non nel senso del rivendicazionismo amaro del reduce, incontenibile.
È la coda infinita che rende sospetto il Sessantotto, l’avvitamento nel rifiuto (radicalismo), la deriva antisistema. Oggi antipolitica. Uno scorre la colonna di sinistra del sito “Il Fatto Quotidiano” e rimane esterrefatto alle tante volgari declinazioni foucaultiane, un multiplo interminabile. A opera, guardando le faccine dei blogger, di ex del Sessantotto, anche se qualcuno nato dopo, tutti assertivi, perfino ultimativi, e tutti reduci, tutti contro tutto, mai contro se stessi. Foucault ne è il precursore e l’interprete. Che si è prima lasciato trascinare, studioso modesto e topo di biblioteca, nella contestazione all’università, recalcitrante, e dopo invece ha finito per avallare il terrorismo, il khomeinismo, il sesso cieco di cui è morto.
È l’epigono del Sessantotto nella vicenda personale o “impegno”, non certo negli scritti – anche se, nella seconda fase, post-Nanterre, essi pure si avvitano senza fine. Per una voglia evidente di dissoluzione. Questa non era nel Sessantotto, movimento vitalistico – oppure sì?
Giovanni – Non fosse sacro, il suo Vangelo sarebbe diabolico: ne ha tutte le caratteristiche. Anticipatore perfino della teologia negativa, dell’idea di dio all’epoca dell’incroyance. La Notte di tenebra (Gesù al Getsemani), la Salita al Carmelo, che si vogliono oscure ma non si nascondono: il tema di queste rappresentazioni è l’eclisse della luce, cioè del divino. Il Cristo-Dio stesso, l’uomo, l’anima procedono in un gelido cono d’ombra.
Incipit – È un modo, anche esorcistico, per rompere l’afasia? O solo di rompere l’ozio. Bernanos apre il tragico “Sotto il sole di Satana” con un “Ecco, è l’ora della sera che P.J.Toulet amava”. Che anche a sapere chi è Toulet non cambia, autore di rimette e controrimette.
Proust – Contini raccontò a Nani Filippini (ora in “La verità del gatto”, p. 195): “Ho conosciuto un chirurgo che, essendo amico del fratello, ebbe la ventura di fare alcune iniezioni a Marcel nei suoi ultimi giorni. Gli chiesi com’era. Mi rispose: “Il avait une odeur butyrique…”. L’acido butirrico è quello che sa di sudore o di grasso del latte. Non è l’odore della “Recherche”, che invece sa di muffa.
Il vecchiaccio Contini lo raccontava perché, diceva, “ho sempre ammirato coloro che hanno toccato i grandi”. Perché il corpo del re è come quello di ogni altro, deludente se morto. E solo l’opera resta, a onore dei critici.
letterautore@antiit.eu
Il Re della(-lo) svastica
Ha titolo a Re del Mondo il primo legislatore universale, Manu. Mina o Menes per gli Egizi, Menw per i Celti, Minosse per i Greci. E perché non Manitù per i Pellirosse?
I simboli possono perdere? Evidentemente sì, se ci si smarrisce Guénon, l’orientalista poi mussulmano, che ne è il massimo esperto. Si legge questo “Re del Mondo” come una favola, seppure arzigogolata. Senza morale. È del resto il libro più ristampato della pur popolare Piccola Biblioteca Adelphi, quasi venti volte (“L’esoterismo di Dante”, successivamente tradotto e da qualche tempo in catalogo presso lo stesso editore, di cui questo “Re del Mondo” si vuole una lunga nota, non è invece praticamente letto).
Dunque, ovunque c’è un Re del Mondo, o Melchisedec, o capro espiatorio. Una Pietra Nera. Una Shekinah, presenza reale della divinità. Un Pontefice. Il Santo Graal, senza del quale non c’è tradizione, e quindi vita. Un Mondo Sotterraneo, o Varuna o Uranos – senza contare che ne parla Varrone… Che è anche Omfalos, comunemente inteso come ombelico o pene eretto, oppure Polo, da cui l’Apollo iperboreo?, o Montagna – l’Inferno diDante è “la«montagna polare» di tutta la tradizione”. Una Terra Santa. Spesso un regno ubiquo del Prete Gianni, da intendersi san Giovanni, quello del Vangelo per intellettuali, un po’ apocalittico e orrifico. E una “Età Nera” o “Età del ferro”, che ci tiene soggiogati da seimila anni.
Detto così sembra ridicolo. Ma non c’è altro modo. Uno dei libri del dopoguerra (1958) intesi a recuperare (esorcizzare, generalizzare) la svastica, anzi lo svastica, nella simbologia “occidentale”, ex indo-europea, per il pruriginoso sottinteso riferimento al simbolo nazista. In cui inevitabili confluiscono la Bibbia, la Cabala, la Massoneria, i Templari, i Rosacroce, e talvolta Zarathustra o l’islam duodecimano (non qui). Un’altra vittima della globalizzazione, la simbologia indo-qualcosa, ora che gli studi escono in Asia fuori dall’ombrello europeo, simbolico o dichiarato che sia.
René Guénon, Il Re del Mondo, Adelphi, pp. 112 €9
I simboli possono perdere? Evidentemente sì, se ci si smarrisce Guénon, l’orientalista poi mussulmano, che ne è il massimo esperto. Si legge questo “Re del Mondo” come una favola, seppure arzigogolata. Senza morale. È del resto il libro più ristampato della pur popolare Piccola Biblioteca Adelphi, quasi venti volte (“L’esoterismo di Dante”, successivamente tradotto e da qualche tempo in catalogo presso lo stesso editore, di cui questo “Re del Mondo” si vuole una lunga nota, non è invece praticamente letto).
Dunque, ovunque c’è un Re del Mondo, o Melchisedec, o capro espiatorio. Una Pietra Nera. Una Shekinah, presenza reale della divinità. Un Pontefice. Il Santo Graal, senza del quale non c’è tradizione, e quindi vita. Un Mondo Sotterraneo, o Varuna o Uranos – senza contare che ne parla Varrone… Che è anche Omfalos, comunemente inteso come ombelico o pene eretto, oppure Polo, da cui l’Apollo iperboreo?, o Montagna – l’Inferno diDante è “la«montagna polare» di tutta la tradizione”. Una Terra Santa. Spesso un regno ubiquo del Prete Gianni, da intendersi san Giovanni, quello del Vangelo per intellettuali, un po’ apocalittico e orrifico. E una “Età Nera” o “Età del ferro”, che ci tiene soggiogati da seimila anni.
Detto così sembra ridicolo. Ma non c’è altro modo. Uno dei libri del dopoguerra (1958) intesi a recuperare (esorcizzare, generalizzare) la svastica, anzi lo svastica, nella simbologia “occidentale”, ex indo-europea, per il pruriginoso sottinteso riferimento al simbolo nazista. In cui inevitabili confluiscono la Bibbia, la Cabala, la Massoneria, i Templari, i Rosacroce, e talvolta Zarathustra o l’islam duodecimano (non qui). Un’altra vittima della globalizzazione, la simbologia indo-qualcosa, ora che gli studi escono in Asia fuori dall’ombrello europeo, simbolico o dichiarato che sia.
René Guénon, Il Re del Mondo, Adelphi, pp. 112 €9
Il Satana di Bernanos è un altro in traduzione
Abbiamo perso “il senso del presente” lo dice Gladstone – lo statista, è da presumere - nell’introduzione di Tommaso Gallarati Scotti. È la cosa più notevole di questa che è stata tempestiva (nel 1928, due anni dopo la pubblicazione) ma demolitrice traduzione, che ancora si ristampa, di un libro vivissimo. Un caso di scuola di come la traduzione possa falsare un’opera, qui dalle radici. A opera di un letterato di non poche virtù, Cesare Vico Lodovici, e anzi visibilmente impegnato a falsificale l’originale per bene. Che invece si legge in originale a quasi novant’anni dall’uscita con lo stesso senso di sorpresa che deve avere colpito all’epoca.
La prima sorpresa è minacciosa: “Ecco, è l’ora della sera che P. J. Toulet amava” è l’incipit. Che non è per ridere come si penserebbe, Toulet avendo qualche residua fama come poeta di facili rime e controrime. Ma subito la prima parte, la “Storia di Mouchette” ha una Lolita vera, oltre che anticipatrice, molto più vera e viva del prototipo (“Gli uomini? Dei bamboccioni, pieni di vizi, magari, ma pur sempre bambocci”): l’innocenza pervertita come specchio e rivelatore dell’indicibile adulto, qui sotto la forma della stupida superiorità. La seconda parte, “Il demone della disperazione”, introduce una figura di prete del tutto fuori dell’ordinario in quanto sfida ogni canone della narrazione: il plot è nientemeno la conformazione di una fede - dapprima sorprendente poi stiracchiata in forma d’interminabile sfida col diavolo (è l’unico punto debole). La terza parte, “Il santo di Lumbres”, fa incontrare Mouchette e il canonico in una figurazione della santità del tutto fuori dell’agiografia. Insomma, per la figura inattesa in una narrazione contemporanea, un prete tra i preti, e per le caratterizzazioni, un libro resistente. Che la traduzione provincializza all’estremo, con una lingua vernacola tanto forbita quanto algida e deviante. Piena di parole precise senza senso, e di regolarissimi costrutti subito desueti.
L’edizione originale e questa traduzione sono due libri diversi. Non era stato questo l’“errore” notorio d Manzoni, l’aver “risciacquato i panni in Arno”? In che acqua, da quale liscivia?
George Bernanos, Sotto il sole di Satana, Corbaccio-Remainders, pp. 377 € 2
La prima sorpresa è minacciosa: “Ecco, è l’ora della sera che P. J. Toulet amava” è l’incipit. Che non è per ridere come si penserebbe, Toulet avendo qualche residua fama come poeta di facili rime e controrime. Ma subito la prima parte, la “Storia di Mouchette” ha una Lolita vera, oltre che anticipatrice, molto più vera e viva del prototipo (“Gli uomini? Dei bamboccioni, pieni di vizi, magari, ma pur sempre bambocci”): l’innocenza pervertita come specchio e rivelatore dell’indicibile adulto, qui sotto la forma della stupida superiorità. La seconda parte, “Il demone della disperazione”, introduce una figura di prete del tutto fuori dell’ordinario in quanto sfida ogni canone della narrazione: il plot è nientemeno la conformazione di una fede - dapprima sorprendente poi stiracchiata in forma d’interminabile sfida col diavolo (è l’unico punto debole). La terza parte, “Il santo di Lumbres”, fa incontrare Mouchette e il canonico in una figurazione della santità del tutto fuori dell’agiografia. Insomma, per la figura inattesa in una narrazione contemporanea, un prete tra i preti, e per le caratterizzazioni, un libro resistente. Che la traduzione provincializza all’estremo, con una lingua vernacola tanto forbita quanto algida e deviante. Piena di parole precise senza senso, e di regolarissimi costrutti subito desueti.
L’edizione originale e questa traduzione sono due libri diversi. Non era stato questo l’“errore” notorio d Manzoni, l’aver “risciacquato i panni in Arno”? In che acqua, da quale liscivia?
George Bernanos, Sotto il sole di Satana, Corbaccio-Remainders, pp. 377 € 2
domenica 24 luglio 2011
La casta, a noi!
Nel pieno delle polemiche conto la casta, il partito Democratico in Toscana imperiosamente chiede, e ottiene, posti anche all’università di Siena e alla Fiorentina, la squadra di calcio. Ha fatto modificare per questo tre volte nel mese di luglio gli statuti dell’università: ora ha cinque rappresentanti nel consiglio d’amministrazione dell’università, compreso quello della fondazione Monte dei paschi. Per questo ha preteso anche un cda pletorico di undici membri, mentre la legge Gelmini li vuole ridotti. Nella Fiorentina ne ha due: Eugenio Giani, ex assessore Ds della giunta Domenici e ora presidente del consiglio comunale, e Nardella, assessore ex Ds nella giunta democratica del sindaco Renzi.
Giani e Nardella sono entrati in consiglio ufficialmente su proposta dei Della Valle, e per migliorare i rapporti della squadra con la città. Ma tutti sanno che dovranno sbloccare il megaprogetto immobiliare di Castello, il più grande d’Italia, al quale sono interessati anche i Della Valle. Con loro sono entrati nel management del club Vincenzo Guerini, un ex calciatore, nel ruolo di “promotore”, o vice direttore generale, e Gianfranco Teotino ai rapporti con i media, entrambi solidi Democratici. Tutto, bisogna dire, in ambito “unitario”: nemmeno “La Nazione”, che pure fa politica per Fini e Casini, ha mai trovato nulla da ridire, come “Repubblica” e “Correre della sera” in edizione Toscana. Se ne parla giusto perché al posto di Guerini doveva andare Gian carlo Antognoni, il viola più popolare.
Giani e Nardella sono entrati in consiglio ufficialmente su proposta dei Della Valle, e per migliorare i rapporti della squadra con la città. Ma tutti sanno che dovranno sbloccare il megaprogetto immobiliare di Castello, il più grande d’Italia, al quale sono interessati anche i Della Valle. Con loro sono entrati nel management del club Vincenzo Guerini, un ex calciatore, nel ruolo di “promotore”, o vice direttore generale, e Gianfranco Teotino ai rapporti con i media, entrambi solidi Democratici. Tutto, bisogna dire, in ambito “unitario”: nemmeno “La Nazione”, che pure fa politica per Fini e Casini, ha mai trovato nulla da ridire, come “Repubblica” e “Correre della sera” in edizione Toscana. Se ne parla giusto perché al posto di Guerini doveva andare Gian carlo Antognoni, il viola più popolare.
La verità è delle Procure
Paradossale controversia tra Roberta De Monticelli e Paolo Flores d’Arcais sulla verità come ontologia, come essere – che da qualche tempo s’intende lo heideggeriano non-essere (“Controversia sull’etica”). Trascurando la logica e il giudizio. De Monticelli assertiva, Flores scettico. Hannah Arendt, di cui il filosofo è benemerito divulgatore, non avrebbe apprezzato.
Alla controversia del resto Flores fa seguire un polemico “Addio alla verità? Addio all’essere!” De Monticelli invece, pur educata da Jeanne Hersch, porta a esempio di verità il suo vivace impegno (“Vergogna! Vergogna! Vergogna!”) contro i manifesti “Via le Br dalle procure”. Dov’era qui la verità? Quella del procuratore Forno a Basiglio?
La verità è che entrambi, Flores e De Monticelli, assertivi editorialisti de “Il Fatto Quotidiano”, la verità trovano nelle Procure – un tempo si sarebbe detto nelle questure. Una fondazionista e un anti- ai quali si potrebbe egualmente applicare il Rorty dell’intervista qui a p. 66: “Quando la polizia segreta arriverà, quando i torturatori violeranno l’innocente, non si potrà dire loro nulla del tipo: «C’è in voi qualcosa che state tradendo»”. Una bella esenzione da colpa.
Il resto dell’almanacco è preso, oltre che da alcuni inediti di H. Arendt e di Adorno, da un’intervista a Vattimo, a proposito del suo libro “Addio alla verità”, e dalle contestazioni a Vattimo di Flores d’Arcais e Ferraris, oltre che di De Monticelli. Tutti del partito dei Valori. Filosofi? Questi filosofi che si vogliono seguaci di Di Pietro (dell’antipolitica, del masaniellismo) non sono immaginabili, sfidano ogni logica – fanno perdere ogni fede, nel ragionamento prima che nella verità. Vattimo è più il tipo eroico che non speculativo, che con la filosofia combatte, ma l’eroe non combatte per la verità?
Micromega. Addio alla verità o addio all’essere?” 5/2011, pp. 230 €14
Alla controversia del resto Flores fa seguire un polemico “Addio alla verità? Addio all’essere!” De Monticelli invece, pur educata da Jeanne Hersch, porta a esempio di verità il suo vivace impegno (“Vergogna! Vergogna! Vergogna!”) contro i manifesti “Via le Br dalle procure”. Dov’era qui la verità? Quella del procuratore Forno a Basiglio?
La verità è che entrambi, Flores e De Monticelli, assertivi editorialisti de “Il Fatto Quotidiano”, la verità trovano nelle Procure – un tempo si sarebbe detto nelle questure. Una fondazionista e un anti- ai quali si potrebbe egualmente applicare il Rorty dell’intervista qui a p. 66: “Quando la polizia segreta arriverà, quando i torturatori violeranno l’innocente, non si potrà dire loro nulla del tipo: «C’è in voi qualcosa che state tradendo»”. Una bella esenzione da colpa.
Il resto dell’almanacco è preso, oltre che da alcuni inediti di H. Arendt e di Adorno, da un’intervista a Vattimo, a proposito del suo libro “Addio alla verità”, e dalle contestazioni a Vattimo di Flores d’Arcais e Ferraris, oltre che di De Monticelli. Tutti del partito dei Valori. Filosofi? Questi filosofi che si vogliono seguaci di Di Pietro (dell’antipolitica, del masaniellismo) non sono immaginabili, sfidano ogni logica – fanno perdere ogni fede, nel ragionamento prima che nella verità. Vattimo è più il tipo eroico che non speculativo, che con la filosofia combatte, ma l’eroe non combatte per la verità?
Micromega. Addio alla verità o addio all’essere?” 5/2011, pp. 230 €14