Gli Usa menano fendenti da un quarantennio nel Medio Oriente e in Nord Africa, l’area del petrolio, per quale motivo non si sa bene, e l’Europa paga il conto. O, meglio, l’Italia paga, e pochi altri paesi europei. Non la Germania o la Francia, che metà dei loro consumi di energia li riforniscono autarchicamente, col nucleare e col carbone. Né la Gran Bretagna, che aveva il carbone e ora ha gli idrocarburi, di cui è esportatore netto.
Periodicamente gli Usa scuotono l’area del Golfo e il Nord Africa, il nucleo centrale della produzione di petrolio e gas nel mondo, con embarghi e guerre, in Ira, Iraq, il Golfo, la Libia, e chiamano l’Europa (l’Italia) a pagare il conto. E l’Europa (l’Italia) volentieri obbedisce e paga.
L’Italia è il paese più esposto ai rincari di petrolio e gas, perché ne è il grande importatore, per oltre l’80 per cento del fabbisogno. Come il Giappone, e in prospettiva la Cina. Che, se non altro, si accodano malvolentieri, e anzi protestando spesso si dissociano, sia dalle guerre che dagli embarghi.
C’è una diversa logica degli aumenti dei combustibili per gli importatori (l’Italia, il Giappone) e per gli altri. Uno schema che si è purtroppo consolidato dalla prima crisi del 1973. Per i primi sono un onere, sempre più gravoso: un circolo vizioso. Per gli altri, gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, contribuiscono a rafforzare l’industria nazionale delle fonti di energia, e l’autonomia, in un circolo virtuoso: crescono i margini e gli investimenti.
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