mercoledì 11 gennaio 2012

Il mondo com'è - 80

astolfo

Comunismo - Non se ne parla bene, ma neppure male. Non si fanno film sulle impiccagioni a Praga, o sui processi, sugli arresti di notte nella stanza accanto, sui gulag. Perché è soprattutto una “cattiva coscienza”. Non c’è altra ragione per cui tanta degna passione, ben motivata, la passione politica che ha incontrato senza paragoni il più vasto consenso popolare, sia scomparsa, scompaia. Quasi fosse stata un’illusione.
Il consenso è d’altra parte nel comunismo speciale. Il popolo, questo è un fatto, non ha avuto nessuna funzione mai in nessuna esperienza comunista, da Cuba alla Cina. Se non come derivata della funzione intellettuale dominante – della propaganda. In alcuni casi vasta e ragionata, meglio argomentata della propaganda, ma sempre ancillare. Il comunismo sarà stato il tentativo intellettuale di governare la realtà. Da qui il suo appeal e la capacità di persuasione. Al punto di far passare per liberazione la coazione, non soltanto dei corpi, ma delle coscienze e perfino delle passioni e gli affetti, tra i sessi, in famiglia, tra gli amici.

Emigrazione – È all’origine di alcune delle più grandi civiltà. Quella magnogreca per esempio. E – molto – quella romana. Gli antichi greci si consideravano a tutti gli effetti emigrati. Così Ateneo ricorda gli abitanti di Paestum, detti Posidoniati perché raccolti attorno al grande tempio di Poseidone, come moderni emigrati, un po’ nostalgici un po’ radicati: “Ai Posidoniati del golfo Tirrenico, Greci d’origine, avvenne d’imbarbarirsi diventando Tirreni o Romani, e di mutare la loro lingua e molti dei loro costumi; ancora oggi essi celebrano una delle più antiche feste dei Greci, nella quale si ritrovano per ricordare

Giustizia - La passione per l’onore (filotimia, rettitudine), nota Davies, “La Grecia classica”, getta secondo Pindaro la città nell’angoscia. Anche secondo Teognide: “I facchini comandano, il volgo ha il sopravvento sui migliori.\ Temo che le onde possano inghiottire la nave”, filosofa Teognide in enigma non tanto arduo. E Cleobulina di Lindo, figlia di Cleobulo, nel sesto secolo prima di Cristo: “Vidi un uomo che rubava e ingannava violentemente,\ far questo violentemente è la cosa più giusta”. I filosofi che ci hanno forgiato si dilettavano di parabole e indovinelli, e quello di Cleobulina definisce, secondo Wilamowitz, la lotta. “È incinta la città”, scriveva ancora Teognide all’amico del cuore, con un brivido: “Temo che partorisca, Cirno,\ Uno che ci raddrizza la protervia”.
È che la lotta per il potere si appropria del senso dell’onore, la componente prima della personalità, e della consistenza sociale. È la questione morale italiana, che è la stessa questione morale: la giustizia come forma del potere.

Italia - Un paginone del “Domenicale” del “Sole 24 Ore” di domenica 17 febbraio 2008 chiede ad alcune personalità di “indicare un valore, un simbolo, un sentimento, un carattere rappresentativo dell’anima nazionale”, ottenendo risposte non lusinghiere: se Carlo Ossola, che vive a Parigi, indica la generosità, e lo storico Gentile propone una giornata dell’Oblio per dimenticare le insulse guerricciole civili, altri indicano la furbizia (Bodei), la faziosità (Cardini), l’improvvisazione (Melograni), la casa (Melania Mazzucco), l’abusivismo (Rasy), il senso di colpa (Giuseppe Scaraffia), il vittimismo (Bruno Bozzetto), la bella figura (Giuliano Zincone), il piagnisteo... A ognuna di questa caratteristiche si può obiettare il contrario.
La questione dell’italianità è la questione stessa: perché viene posta? Analoga prassi usa per i tedeschi, comprensibile, per più motivi: l’unità recente, il prussianesimo, l’hitlerismo, la colpa, il comunismo, e l’essere zona di mezzo o di frontiera, ancorché vasta, la prima prateria temperata sulla strada delle migrazioni. Ma non per i francesi, per gli inglesi, pure contestabili e contestati, e analogamente per gli americani.

L’Italia è stata grande, e grandissima, da Dante al Sacco di Roma, per un paio di secoli abbondanti.
La Riforma, culminata col Sacco di Roma, a opera dei lanzichenecchi del fiammingo Carlo V, è anche un attacco deliberato a una primazia altrimenti imbattibile. Non armata ma artistica, musicale, letteraria. Un attacco a un sistema di vita estetico e filosofico che più di ogni altra primazia suscitava invidie e gelosie. Con la Riforma l’Europa è passata dall’Italia in balia dei goti, che da allora ferocemente comandano, nel nome della ragione, senza alcuna ragione se non quella dei soldi.
È superfluo elencare i titoli: Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Cellini…. L’Italia non perì subito, anzi ha continuato a illuminare l’Europa per tutto il Cinquecento e oltre, si può dire fino a Shakespeare, e attraverso il latino a mantenere aperto a lungo qualche barlume d’intelligenza, ma sempre più flebile. Nel nome della ragione.

“Artistico,impulsivo, appassionato”, il trittico nel quale si racchiude la personalità italica secondo gli studenti di psicologia sociale di Princeton fu posto da Giulio Bollati in apertura al suo prezioso “L’Italiano”. “Manca il carattere”, osservava Bollati, il cui saggio era parte nella prima redazione de “I caratteri originali”, il primo volume della Storia d’Italia Einaudi.

Lega - “Quelli di Roma” si diceva già nel 1941, v. “L’Orologio”, p. 185-187. Carlo Levi sceneggia l’incontro simbolico, davanti alla sua porta di direttore del giornale “Italia Libera” a Roma (dopo esserlo stato a “La nazione del Popolo” a Firenze) di quattro esponenti della Resistenza del Nord, un avvocato di Cuneo, un operaio di Bergamo, un giudice di Novara e un ingegnere di Udine, i cui umori così sintetizza: “Quell’odio di Roma era l’espressione sentimentale, più o meno rozza, la manifestazione simbolica di uno dei motivi permanenti della nostra storia”. E commenta: erano uomini che, “almeno per un periodo, avevano mosso le cose e gli uomini”, e ora “tornavano a ridursi, al solito, a parole:
Worte, worte, keine Taten,
keine Knödel in der Suppe
” – primo e quarto verso di una poesiola postuma di Heine: parole, parole, niente fatti,\niente carne (polpette) nella zuppa.

Sessantotto – Ha rivoltato culturalmente l’Italia. La società e anche, parzialmente, la psicologia. Da attendista a volitiva. Da calcificata a mobile. Dai doveri ai diritti. E questo è il suo lato deteriore, collegandosi la psicologia ai comportamenti, individuali e sociali: la società che ha liberato il Sessantotto l’ha anche distrutta. Prendendosi come voleva tutto, e cioè le professioni parapolitiche: scuola, dal nido all’università, sindacato, magistratura, informazione. Le cosiddette funzioni pubbliche. Ognuna affossando con l’etica dell’irresponsabilità, tutte in modo grave.
Il sindacato ha minato l’impresa (flessibilità, innovazione, produttività) e i servizi, specie la sanità e la previdenza. La scuola è diventata incapace di alfabetizzare, dopo otto o tredici anni d’insegnamento. La magistratura ha irrigidito i vecchi vizi autoritari: è l’unica istituzione pubblica non democratizzata, autoreferenziale per un lapsus della costituzione ma in realtà fascista, prepotente. Il giornalismo è quello che si vede.
Nella memorialistica dei terroristi il Sessantotto è disprezzato: opera di confusi, o opportunisti.

astolfo@antiit.eu

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