“In un paese nel quale un giudice poteva mettere a verbale che la mafia italiana e il governo italiano erano la stessa cosa, non c’era più niente e nessuno che fosse da consederarsi sacro”. Ma Dibdin non fa le barricate per il sacro, vuol solo dire che il suo Aurelio Zen, il commissario veneziano, non è uno scemo, considerando l’equiparazione una stupidaggine e forse una furbata. Mani Pulite del resto, sono gli stessi anni, è un modo per ogni imprenditore di “mettere nei guai due o tre concorrenti”. Come se che accusare gli altri lavasse le colpe.
Questo scrittore inglese di gialli sarà il miglior testimone dell’Italia nell’ultimo ventennio del Novecento. Qui il veneziano Zen, trapiantato a Roma con la mammetta, scandaglia la sua Venezia negli anni del trionfo della Lega – che ci furono: la città forse se ne vergogna, ma qui la Lega trionfa (e in “Aprile”, il film di Moretti). Un luogo arcigno, quale è per i suoi residenti nei giorni vuoti dal turismo, e anche per effetto del turismo. Dove il freddo è insopportabile la notte, e di giorno c’è la nebbia spessa, la neve ghiacciata, o il fango puzzolente, pieno di topi, della bassa marea. Nella Laguna Morta propriamente detta, a nord della città, luogo di desolate paludi e saline, ossari di morti e sabbie mobili. E in periferia, le isole, dove si abita in palazzoni a sei piani. Un cupo scenario per un’Italia senza rimedio: la soluzione in questi gialli italiani è impossibile, ma il racconto di come e perché lo è, quello è appassionante nelle mani in un inglese.
Michael Dibdin, Laguna morta
mercoledì 4 gennaio 2012
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