I declassamenti degli Stati si succedono senza che i mercati ne tengano conto. Non è irrazionale, è solo nella logica: i declassamenti, come i riclassamenti, servono ad arricchire i “mercati”, cioè le istituzioni finanziarie private (fondi, hedge, etc,) e le banche. Le agenzie di rating non sono dei tribunali, e non sono enti di servizio pubblico: sono aziende, al servizio degli operatori dei mercati finanziari, che sono i loro clienti.
I declassamenti si succedono ora a raffica per consentire alle banche e ai fondi extraprofitti proprio nella prospettiva di non fallimento, se non di cessazione del rischio, dei debiti pubblici presi di mira. Attraverso il trading, e con l’aumento automatico degli interessi sui debiti in essere. Di tutti i debiti in essere, pubblici e privati. Degli Stati ma anche delle regioni, le province, i comuni, le asl e ogni altro ente pubblico. E dei privati: dei muti a tasso variabile e del credito, per consumi o investimenti.
L’analogo avviene con lo spread folle: il suo andamento è solo una questione di bilanciamento per un maggior profitto complessivo degli operatori finanziari. È così che il declassamento dell’Italia un mese fa è andato di pari passo con la riduzione dello spread sui titoli tedeschi: il guadagno atteso dagli operatori sui mercati è trasferito per ora dal trading agli interessi passivi che il sistema Italia deve pagare.
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