giovedì 16 febbraio 2012

Il francese sconvolto dall’Occupazione

Un’idea geniale, e una raccolta originale che chiarisce in modo definitivo il lato oscuro di Céline: sono, riprodotte in facsimile e tradotte, con molte foto dei personaggi coinvolti, le lettere che lo scrittore inviò alla stampa collaborazionista francese dal 1940 al 1944. Con un’introduzione di Stelio Solinas che chiarisce il contesto e la biografia. Una raccolta anche necessaria, ma per un Céline per una volta ininteressante. Noioso, ripetitivo, morboso, indigesto – anche ai suoi corrispondenti se, pur vantando “Céline ci scrive” sempre in prima pagina a caratteri cubitali, per la notorietà dello scrittore, lo trattavano da vecchio, quale non era, brontolone, con tagli e qualche volta con brevi sintesi invece delle escandescenze d’autore. Solinas insiste sulla speciale abilità celiniana di fantasmizzare il reale. No, queste esasperate, orride lettere mostrano come l’umiliazione della sconfitta e dell’occupazione isolino Céline nello spirito da portinaia, da “signora mia”, che a sua volta lo immiserisce e lo isola. Anche fisicamente, lo scrittore bell’uomo, alto, biondo, ha perduto l’allure: le foto ce lo mostrano ingobbito, incupito, l’occhio glauco sornione è diventato buio. I biografi e lo stesso Solinas ce lo dicono scaduto anche nel tratto, a casa e con i vicini. Una deriva che la fuga, la condanna e l’esilio accresceranno: al ritorno è un bottegaio bisbetico, che urla alla moglie dal sottoscala, e appesta i vicini con l’immondizia dei suoi cani - chi non ha provato non sa cosa vuol dire avere vicini canari che tengono le bestie all’aperto e non le accudiscono ogni giorno. Nei pamphlet c’è un filo, qui solo furori: la sconfitta e l’occupazione lo hanno ridotto al peggior qualunquismo, il tipo che odia egualmente Hitler e gli ebrei, e odia i suoi anzitutto, i francesi, perché odia e basta. In una sorta di schizofrenia, se scrive nello stesso tempo “Guignol’s Band” e altri testi di qualità. Il complesso del reduce, che ne aveva mobilitato le energie migliori nella prima guerra e tra le due guerre, ne mina il giudizio, lasciando intatta la capacità narrativa, di trasfigurazione. “È come se da dieci anni portassi a spasso con me una prigione, attorno a me, che non mi abbandona mai”, dirà lui stesso a conclusione della memoria difensiva presentata il 20 febbraio 1950 dal carcere danese. L’odio di sé, Sartre ancora una volta ci vedeva bene, che dice di Drieu, senza nominarlo, nel numero di aprile 1943 di “Les Lettres françaises”: “Non è un venduto: non ne ha il comodo cinismo. È venuto al nazismo per affinità elettiva: al fondo del suo cuore come al fondo del nazismo c’è l’odio di sé”. Il dossier del “Magazine Littéraire”, che contiene questa e molte altre annotazioni e foto degli intellettuali francesi nei quattro anni dell’occupazione tedesca, 1940-44, copre anche inevitabilmente le renitenze di vario tipo alla Resistenza, ma sono poche. L’unica di rilievo è quella di Malraux. Mentre “convivevano” Sartre (“Non siamo mai stati più liberi che sotto l’occupazione tedesca”, è un’altra sua frase famosa), Blanchot, Bataille, Caillois, Colette, Montherlant, Cocteau, Paulhan, Jouhandeau, Sacha Guitry, Ramon Fernandez. I teatri e i cinema erano pieni, all’Opéra veniva Karajan, e si pubblicava molto, malgrado la censura e il contingentamento della carta - mentre, come si sa, Céline restava proibito in Germania, se non per una traduzione accomodata di “Bagattelle”. Claire Paulhan, nipote di Jean, curatrice della mostra “Archivi della vita letteraria sotto l’Occupazione” nel 2011 a New York e a Parigi, dice “rari... quelli che sì impegnarono rapidamente nel “combattimento dello spirito”, c’è qui un mistero…”. Nei primi due anni dell’occupazione, del resto, la guerra era vinta per la Germania. Su questo sfondo si può anche dire che il collaborazionismo è stato tiepido in Francia. Non tra i grandi intellettuali. A parte l’antisemitismo, acuito dal complesso della “pugnalata alla schiena”, o del “complotto”, magari giudeo-massonico. Lo choc della sconfitta era stato forte. A luglio del 1939 si festeggiava il cento cinquantenario della Rivoluzione, un anno dopo la Francia era vinta e occupata. Molti emigrarono oltreoceano. Tra i rimasti non ci fu viltà. La delazione, bizzarramente, che in Francia fu feroce, sembra aver risparmiato gli intellettuali. Marguerite Duras ricorderà spesso con simpatia, in particolare in “L’amante”, Fernandez, suo coinquilino, che non pensò mai di denunciarla benché fosse stato messo al corrente che organizzava col marito una cellula comunista nella Resistenza. Né Céline pensò mai di denunciare la coppia di resistenti che abitava al piano di sotto al suo e riceveva. Il caso più famoso è di Gertrude Stein, che ebrea, ricca di una collezione d’arte di prim’ordine, visse indisturbata a Parigi – il caso più tristemente famoso di delazione, contro Irène Némirovsky, si ebbe in campagna, la “Francia profonda”. Resta tuttavia molto da indagare - nello stesso dossier si capisce indirettamente dai volteggiamenti politici di Drieu, tra sinistra e destra (nel 1944 abbandona Hitler per Stalin, per un comunismo nazionale…), o di Fernandez - su una parte del nazionalismo anteguerra, ideologicamente confuso. Nonché sul rivoluzionarismo, forse confuso ma ben di destra, dei fini ingegni Blanchot e Bataille, che il dossier trascura. E sulla cultura di destra che negli anni 1930 era preminente, ben viva anche e innovatrice, in Francia come altrove, nella editoria, le riviste, i giornali. Lo stesso Céline canta qui, nell’ultima intervista a metà 1944, il Socialismo con la maiuscola: “Contro il Comunismo, non vedo altro che la Rivoluzione, ma allora quella vera! Sovracomunista!” Non senza ragione pretendendo dopo la guerra di averla invocata nel 1941, nei “Beaux Draps” (“La bella rogna”). Mentre resta del tutto vergine l’argomento forse più interessante: l’impatto della sconfitta lampo e dell’occupazione lunga sulla scrittura, dell’epoca e successiva. I facsimile di “Céline ci scrive” offrono ampia materia, ma più se ne trova nella pubblicistica riedita, di Céline, Drieu, Brasillach, anche di Sartre, che “nasceva” in quegli anni come drammaturgo e narratore, e di chi sotto l’Occupazione si formò, Vian, Nimier. Sul vocabolario, i linguaggi (filosofie), le espressioni: le céliniane sospensioni, le apostrofi, il polemismo, l’irrisione. Attorno al tema “essere buoni francesi”, “essere”. Tutto convulso, esagerato, esasperante, e classificato all’ingrosso come letteratura della crisi, ma con connotazioni molto datate. 
Louis-Ferdinand Céline, a cura di Andrea Lombardi, Céline ci scrive, Settimo Sigillo, pp. 240 € 25
“Le Magazine Littéraire”, febbraio 2012, Les Écrivains et l’Occupation € 6

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