Silvia Ronchey s’identifica in Ipazia, che dedica “a Teone” questa storia come a dire al proprio padre Alberto – Teone è il padre, anch’egli filosofo, che educò Ipazia? Ma non lo fa pesare. Per metà bibliografia e “documentazione ragionata”, questa “Ipazia” è infine una narrazione filologicamente corretta, una “vera storia” non alla maniera di Luciano, che sempre coinvolge come il miglior romanzo d’invenzione. Anche sciolta: le fonti si ricompongono in una scrittura semplice, d’interesse costante.
Alessandria rivive, seppure del quinto secolo. La sua irradiazione ovunque nell’antichità classica, nella filosofia, la teologia, l’astronomia, la geografia. Cerniera attiva nel rapporto ora trascurato tra Oriente e Occidente cristiani. La distruzione del Serapeo, meraviglia di architettura e statuaria, a opera dei fanatici del vescovo Teofilo, che eguaglia in turpitudine la più tarda distruzione della Biblioteca. La guerra endemica tra cristiani ed ebrei, di cui Alessandria ospitava una colonia di almeno centomila emigrati, dai tempi di Alessandro Magno, con migliaia e in qualche occasione centinaia di migliaia di morti. Il linciaggio di Ipazia, a opera dei “parabalani”, i monaci-infermieri talebani del vescovo Cirillo, nipote di Teofilo, poi santo e dal 1882 “dottore della chiesa”. Al tempo di un imperatore bambino, Teodosio II, di cui è tutrice la sorella Pulcheria, imperatrice di fatto, che alla morte di Ipazia ha quindici anni – ragazza pia, “monaca porporata”, poi santificata, non lascerà impunito il delitto: evita la condanna di Cirillo ma lo esclude dalla vita politica.
Poi c’è la vita postuma di Ipazia. Che è tutta la storia, di Ipazia in vita non si sa nulla. Una storia sempre di cristiani e anticristiani, pagani, ebrei, islamici, poi intercristiana, fra romani e antipapisti. Con più consistenza a partire dal Settecento. Quando Ipazia riemerge nella lettura ragionata dell’illuminismo, di Diderot, Voltaire e la dimenticata Olympe de Gouges, vittima nella rivoluzione del suo femminismo (a opera dei Giacobini…). E in quella, che poi sarà dominante, di pietra dello scandalo, a opera di esoteristi, da Toland a Yeats, ateisti, anticlericali, Gibbons sopratutto, Fielding, Wieland, e massoni. L’ultima reviviscenza la vede al centro delle diatribe tra “la storiografia cattolica..(e) quella protestante, anglicana, giansenista”. Oppure identificata, mutando solo il nome, con Caterina d’Alessandria, una santa di cui invece non si sa nulla - per questo esclusa da Paolo VI nel 1969 dal calendario liturgico (per poi esservi reinsediata da Benedetto XVI, che della santità non ha concezione laica).
La lettura della resurrezione d’Ipazia nella letteratura francese, Chateaubriand, Leconte de Lisle, Flaubert, Barrès, Péguy, Claudel, Renée Vivien, e italiana, Diodata Saluzzo, Mario Luzi, non è meno interessante: è un “nome mantra”, la studiosa arguisce con Luzi. E da ultimo affronta l’inevitabile: san Cirillo è colpevole? Certo che lo è, Ipazia è un’icona. Ma le fonti sono pregiudicate, si sa. Nel caso lo sono dall’arianesimo contro il monofisismo, di Cirillo, da Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria, dall’Oriente cristiano contro l’Occidente, dallo Stato bizantino contro il potere temporale dei vescovi. Sull’analisi delle fonti la narrazione, com’è inevitabile per la buona filologia, prende l’andamento del giallo, parola scoprendo dopo parola, posizione dopo posizione, teologia dopo teologia, e una riserva inesauribile di riserve mentali: tra l’evento e le fonti è sempre rincorsa, un sorpassarsi continuo. Per tornare infine a Ipazia via Sinesio, il vescovo di Tolemaide, che ha molto scritto, ed è ben conosciuto, apprezzato via via fino a Erasmo e a Wilamowitz, coetaneo di Ipazia, che si recò a conoscere ad Alessandria l’anno dopo l’abbattimento del Serapeo, e della quale fu discepolo e costante ammiratore. Fino all’ultima sua lettera, poco prima dell’assassinio di Ipazia.
Silvia Ronchey, Ipazia, Bur, pp.319 €10,90
domenica 19 febbraio 2012
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