Pasolini è presto stato personaggio, ai trent’anni, subito dopo “Ragazzi di vita” e prima dei film, con rubriche sui periodici. La più continuativa è stata con “Vie Nuove”, settimanale del Pci, dal 1960 al 1965, con lunghi intervalli. Una collaborazione che Gian Carlo Ferretti restituisce qui nei tempi principali, con una nutrita antologia. Nel “«ruolo»”, scrive Ferretti, “che più o meno implicitamente gli viene assegnato dal settimanale del PCI… Il ruolo, cioè, di un intellettuale che con il movimento operaio (e con i suoi intellettuali) e con il marxismo ha un rapporto spregiudicato e fortemente problematico”. Fino a conquistarsi il “ruolo” del personaggio. Tra proteste di “sincerità” e “buona volontà”. E forse il giornalismo d’opinione è la cosa sua migliore, benché sia genere malapartiano, e anche, suo malgrado, dannunziano. Tra alti e bassi.
Il genio c’è. “Il contenuto dell’Orestiade è essenzialmente politico”, lo stato democratico, sia pure rozzo, si sostituisce all’arcaica tirannia: “La dea Atena (la Ragione: nata dalla mente del padre: priva cioè dell’esperienza uterina, materna, irrazionale) istituisce l’assemblea dei cittadini che giudicano col diritto di voto”. O Pascoli in mezza pagina: un trattato. O “La lingua di Gramsci”, due pagine che sono una biografia – tanto veritiera (poco atteggiata) da farla culminare nell’anticomunismo semplice di Saba: “No, il comunismo\ non oscurerà la bellezza e la grazia!”. O “i quasi duemila anni di Imitatio Christi”, che “non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono”. E lo “stalinismo beatnik” dei “Quaderni piacentini”.
È un genio però controvoglia, molte pagine sono vacue: “Accattone e Tommasino”, o quelle ripetute sul marxismo (la forza del marxismo, la crisi del marxismo – il marxismo del Pci, di Pasolini…). In gara un paio di volte col principe dell’ “oggettivamente”, Carlo Salinari. O in sintonia con Moravia, col quale Pasolini rifonda il marxismo su “Nuovi Argomenti” – con Moravia? Un Marx nel quale vuole “inglobare Gesù”: Lucio Lombardo Radice lo mette argomentatamente in guardia, ma invano. Altre pagine sono confuse: “Invito in Calabria”, l’assurdo reportage dal Marocco (“la media dell’intelligenza tra i marocchini è bassa” – la media dell’intelligenza?), o la difesa del neo-realismo, che nel primo impegno, con la rivista “Officina”, aveva tentato di demolire, o “Il censore e l’«Arialda», che finisce contro Testori... Altre sono fastidiose, contro Pasternak, contro Fellini, contro Antonioni - “Antonioni e Moravia”, un ludibrio (anche se non senza cattiveria: i dialoghi goffi di Antonioni trovano “riscontro solo in certi endecasillabi di Quasimodo…”). E ovunque l’ingombrante politica che in Pasolini è passione posticcia: ingombrante (poco avvertita in realtà) ma anche insincera, perfino opportunista. Con tratti da “1984”: “il decennio dell’Impegno, della Realtà e della Speranza”, o “la nuova «linea» culturale”. E l’attribuzione ribadita di “una certa purezza e passione – residuo degli anni della Resistenza”, che invece evitò.
Ricorre qui l’orrido: “Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l’operato del partigiano Guido Pasolini”. Il fratello giovane ucciso come si sa a vent’anni da una formazione comunista, in un agguato organizzato, l’ultimo della sua banda di venti combattenti, quando già si era arreso, fucilato alle spalle. Una morte che il poeta dice avvenuta “in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare”.
Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere
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