Più che un’antologia un assaggio. Uno dei tanti progetti editoriali di farci scoprire la letteratura araba che abortiscono al fatto per prudenza. La concettosissima introduzione di Gianroberto Scarcia propone tesori che poi tralascia. Tra parentesi si dice a un certo punto la poesia araba “spudorata e oscena” ma qui non ce n’è traccia. Solo si vede che i tempi e il lessico della poesia d’amore cortese sono qui, tra il l’VIII e l’XImo secolo – quando il Mediterraneo era ancora unito (Pirenne).
Scarcia (con collaboratori) e Leonardo Capezzone si dividono il lavoro. Il primo cura la sezione “I Persiani e gli altri”, il secondo “Gli Arabi”. Le premesse sono golosissime. Partendo da Lucifero, la Stella del Mattino, oscurata perché “«non obbedì» al suggerimento divino (suggerimento idolatricamente tentatore, sorta di prova di Giobbe) di credere a un Adamo «vicario» dell’Assoluto”, dalla ribellione cioè come esaltazione del potere divino (“il mito del mistico genuino”). Per finire al “lamento per il distacco, orgoglio di distacco, assaporamento e gusto di distacco”. È la Persia che umanizza la metafisica, spiega Scarcia nell’introduzione, le idee buone facendo angeli, le cattive diavoli, “sino alla prospettiva della Remunerazione finale; cioè, anche qui, all’umanizzazione del concetto di Salvezza (che più a occidente era idea pura e più a oriente era il Nulla)”. E promette una poesia di “raffinata, cerebrale, sottile radicalità”. In un’altra, meno asfittica, antologia? Di cui ogni pagina o quasi pone le premesse – settanta poeti in trecento paginette.
È una poesia sempre colta, ci sono poeti ciechi dalla nascita che hanno tavolozze di fini sfumature, e sanno gli astri collocare con perfette geometrie. Ibn Arabi, il poeta e pensatore all’origine di buona parte del nostro Medio Evo, è lui che ha di Dio immagine femminile, della bellezza femminile. C’è un genere specializzato nell’amata-o di fede cristiana e nelle “pratiche liturgiche e culturali della religione dell’altro” – non ci fu sempre guerra. Un Ibn al-Mu’tazz fu “califfo per un giorno”. C’era, ancora nel nono e decimo secolo, una “letteratura «di monasteri»”, che celebra l’amore, il vino, la gioia di vivere nei monasteri cristiani, “rappresentati dalla cultura araba classica come un locus amenus meta di gite e di avventure. Questi poeti islamici sempre bevono vino. Ed è utile riscoprire, seppure per accenni, che Gesù, Cristo, i vangeli sono figure eminenti della vulgata dell’islam - non Maometto per i cristiani. C'è anche un Mano Bianca, “attributo esclusivamente islamico di Mosè”, che qui “possiede” la pianta del piede nel “blasone” della Bella, che “gelsomino sembra, tant’è delicata..\ è petalo a rosa, uno specchio polito di fresco”. Ma di più non è dato sapere.
Delle trecento pagine una trentina li prende un “Libro dell’Amore” di “malnoto autore del Trecento in lingua turca centroasiatica” – pieno, è vero, di fiamme, perle, rose, roveti, zefiri, rubini e tremori di salice che faranno il canone occidentale, un filologo delle fonti ci impazzirebbe.
Altrettante l’indo-persiano Bīdil. La raccolta è per questo ancora più densa, di autori, temi, tradizioni. Di poesia, in queste traduzioni, tutta elevata. Ma è tutta d’amore, metafisico e non. Con parafrasi poco simulate di omoerotismo.
Gianroberto Scarcia, a cura di, Poesia dell’islam, Sellerio, pp. 320 € 11
giovedì 2 febbraio 2012
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