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Céline – “Bagatelles” fu subito tradotto in Italia e in Germania, ai primi del 1938 è già in libreria.
Ma tagliato di un terzo, delle invettive contro Hitler e Mussolini, il nazismo e il fascismo. Era un resistente, anche lui?
Nelle recensione che il primo “Combat” quello di destra, dei trentenni Blanchot e Maulnier, fece di “Bagatelles” nel 1937, il prolisso pamphlet è ascritto al gusto ebraico, se non alla tradizione rabbinica, partendo dalla constatazione che è un romanzo e non un saggio, “un’invenzione soggettiva” più che lo sforzo di “esprimervi la realtà”. Il recensore René Vincent, direttore del mensile, conclude: “S’intende piuttosto male l’ispirazione di tanto furore”, se non associando “l’estetica di Céline” ai “procedimenti che l’influenza israelita ha introdotto nelle nostre arti, nella nostra letteratura. Questa dissociazione frenetica della personalità, questo freudismo latente, questa libertà lasciata all’istinto a spese di ogni sforzo di composizione nella creazione artistica, fino a questo tono di lamentazione che si carica nella prosa di Céline di accenti sboccati, sono tutti apporti di Israele alla tradizione francese”.
Céline ebreo mancava.
Dal 1937, dall’approssimarsi della guerra che lui vede con chiarezza, alla guerra, e negli inevitabili sospetti e processi successivi, vive in una sorta di schizofrenia. Uno stato dissociativo era affiorato nelle affabulazioni sulle persecuzioni in Danimarca. Le sue lettere ai giornali (“Céline ci scrive”) nei quattro anni tra l’occupazione e la fuga dalla Francia lo rendono evidente. Scrive lettere più spesso non richieste e talvolta imposte, fa discorsi, dà patrocini del tutto dissennati, a volte mettendo in imbarazzo fascisti e antisemiti dichiarati, i collaborazionisti e il governo di Vichy. Mentre scrive “Guignol’s Band” e altri testi narrativi di qualità.
Nei pamphlet c’è un filo razionale, seppure contestabile, da profeta inascoltato sull’ombra che si proietta della guerra, negli interventi degli anni di guerra solo escandescenze: la sconfitta e l’occupazione lo hanno ridotto al qualunquismo, il tipo che odia egualmente Hitler e gli ebrei, e odia i suoi anzitutto, i francesi, perché odia e basta. Che può essere un’insorgenza della condizione piccolo borghese familiare, dell’infanzia, una sorta di spirito della portinaia, della “signora mia” di Arbasino. Ma è anche una dissociazione marcata, con quanto riesce a scrivere nella sua personalità di autore riconosciuto. Il complesso del reduce, che ne aveva mobilitato le energie migliori nella prima guerra e tra le due guerre, ne mina il giudizio, lasciando intatta la capacità narrativa, di trasfigurazione.
Dante - Vive la politica, non la esercita.
È poliglotta. Cosmopolita poliglotta. E nazionalista.
È geografo preciso e storico attendibile.
È terzomondista, “vivendo” la politica. Da guerra di liberazione: in costante lotta per la libertà, di cui è insoddisfatto, la libertà politica essendo legata al potere – è esemplare (ispiratore) degli irlandesi in questo senso, Joyce, Beckett, Heaney, e ultimamente degli afroamericani, degli Usa e dei Caraibi – Walcott.
È europeista. Il tardo ghibellinismo di Dante nell’esilio è il superamento del nazionalismo gretto, campani misto e dinastico (della Francia che usurpava il potere universale del papato), in un’Europa saldamente mistica – mondo di “valori”, amore e libertà. Scrive allora il “De Monarchia”.
È imperialista, in questa seconda fase. L’impero è terreno ma è “universale e provvidenziale” (Nino Borsellino). Provvidenziale se universale, perché allora il dominio, senza più nemici esterni da combattere o spazi da conquistare, non avrà da esercitarsi che nelle forme della socialità e della libertà. L’unità garantisce la pace e apre i mondo alla felicità.,
È “iniziato” e mistico – l’iniziazione è sancita da Pascoli.
È pornografo – ci mancherebbe. Monsignor Della Casa, quello del “Galateo”, sconsiglia Dante ai giovani. Meglio per lui Boccaccio: che specie col “Decameron” è maestro di vita e di stile corretto.
Omosessualità – Al di fuori della letteratura di genere, si connota come incompiutezza. Di un desiderio insaziabile per la mancanza dell’ingrediente base, l’amore. Negli stessi gaudiosi celebranti, Isherwood, White, Whitman, Auden.
Nel dolore costante per la morte della madre Roland Barthes si trova “liberato” nelle abitudini sessuali ma sempre affettivamente inerte. Si dice, in “Dove lei non è”, “liberato dalla «paura» (dell’asservimento) che è all’origine di tante meschinerie”, dall’asservimento-paura della sessualità. Ma ci arriva a cannocchiale rovesciato, che restringe invece di allargare e spiegare. E infatti si sente sempre più chiudersi invece di aprirsi: continua a “preferirsi”, nell’“«aridità del cuore» - l’acedia”. E conclude: “Non riesco a investire amorosamente in un essere”. Se non evidentemente nella madre morta, cui tutto lo unisce, una foto, due parole della commessa in pasticceria, i sogni, i silenzi. La sua sessualità dice acculata al “Desiderio infantile”, continuando nel lutto “i flirts, gli amorazzi, …i «ti amo»” di un giorno, un’ora, una sessualità comunque onanistica. È il tormento che Pasolini sfiora in innumerevoli poesie e anche testi d’occasione, che Barthes non cita. E di Proust, cui invece Barthes fa ampio riferimento, nella “ricostituzione” della nonna, della madre, nella “Ricerca” e nelle lettere. Proust che fa dire ad Albertine dell’amore:”È una parte della nostra anima, più durevole degli io diversi che muoiono in successione in noi”.
Pasolini – Le lucciole sono, tra i suoi tanti temi quello che ritorna: ritracciandole, Didi-Huberman ha disegnato in “Come le lucciole” un suo più vero (realistico, circostanziato) ritratto. Le Madonne non piangono più, lamentava. E le lucciole sono sparite. Ripeteva Montale, le falene, le farfalle, i grilli – in aggiunta al troppo odio (l’odio in Pasolini è un tema da esplorare, la sua amicizia sempre difficile). Lucciole e grilli sono lasciti del marchesino De Pisis, che fu poeta. Ma bisogna farli partire dal secentista Biagio Guaragna Galluppo di Morano, barone figlio di baroni, sposato a una santippe “dal femmineo latrar”, che col titolo “Alle lucciole” rifà “A una zanzara” del Materdonna. Se non sono la luna di Alvaro, sparita e riapparsa, l’esercizio era comune al tempo del realismo magico.
Pound – È un esiliato volontario. A Londra, a Parigi e infine in Italia. Un vero emigrato, a differenza degli scrittori che si divertirono a Parigi per una stagione. Ma un emigrato americano in Europa, territorio di burocrazia e di trappole.
Una scelta non facile, che la forza dell’emigrante gli ha consentito, che sempre è superiore, moltiplicata per due e più volte.
Proust - Nella “signorina” Vinteuil, che oltraggia con gli amori saffici il ritratto del padre, e perché mai?, non si esprime in Proust, nella solita finzione del genere rovesciato (Albertine-Alfred), l’inconfessato ma ineliminabile senso di colpa verso l’amata genitrice?
letterautore@antiit.eu
venerdì 9 marzo 2012
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