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Céline - Bernard Henri-Lévy, su “L’Espresso” 15 novembre 1981, ora in “L’ideologia francese”, pp. 119-132, dice Céline un iperprogressista, o progressista radicale, e uno tra i fondatori di un “socialismo alla francese”. Anche questa ci mancava, Céline socialista.
Cesare Cases criticava sullo stesso “Espresso” il ragionamento di Henri-Lévy. Riportando Céline all’“anticapitalista romantico”. Non feroce né specialmente antisemita, che in “Bagatelle” (“libro assai notevole, forse il migliore dell’autore dopo il «Viaggio al termine della notte»)” assembla “i vecchi e più plausibili oggetti del suo odio…: l’impero del denaro, la standardizzazione, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America, l’Urss”.
Confezione – La Capria rispolvera, sul “Corriere della sera” di mercoledì 14, la nozione di “composizione” come opposta a “creazione”, la distinzione che Sedlmayr opera in “Arte e verità”, per spiegare il profluvio di grandi opere oggi illeggibili. Citati due giorni prima aveva lamentato sullo stesso giornale di non trovare più nulla da leggere.
Confezione è lo stucchevole di tanta pittura e statuaria che va sotto il nome di manierismo. Anche se con punte talvolta elevate di qualità nella replica, o di produttività, quale è il caso del Tintoretto nell’attuale mostra romana. È la differenza che corre – correva quando si poteva scegliere – tra il vestito del sarto e la confezione.
Con lo stesso rischio. Del sarto che diventa proibitivo, e suo modo, manierato, una sorta di confezione su misura – si fa anche a distanza. Mentre l’arte della confezione, prêt-à-porter, si impreziosisce. Che è l’essenza del manierismo (Tintoretto, “Guido” che Stendhal adorava).
Cose viste – È titolo di Victor Hugo, di un lungo diario in pubblico. S’impongono, dice Montale alla “Volpe” Spaziani (“Montale e la Volpe”, 73-74) per mancanza d’immaginazione. A proposito di Simenon, che sull’autorità di Gide Montale vuole dice “sottile pensatore, un poeta in prosa, un visionario del profondo, un maestro dello stile”, una vocazione poi tradita per accedere al successo: “Ha dovuto salire verso la superficie e sviluppare un’immaginazione di supporto”, mescolando “i frammenti variopinti” dell’osservazione esterna.
Montale include se stesso tra i non immaginativi: “Perché in un certo senso abito altrove. Ho scritto pochi raccontini… e sai come sono nati? Non invento niente ma mi guardo in giro con curiosità”. Con una ricetta: “Se ognuno di noi, la sera, pensasse a una cosa buffa vista nel corso della giornata avremmo una quantità di raccontini in nuce, anche se mancassimo d’immaginazione”.
“E perché la cosa vista dev’essere buffa?”, obietta Maria Luisa. “Perché concentra il suo senso in una situazione o una battuta”.
Dante - È matematico. Piergiorgio Odifreddi ne ha fatto tema di un saggio al festival dell’Aurora a Capo Colonna nel maggio del 2000.
Tutti i tempi della Commedia sono “calcolati”. Tutto è misurato nelle cantiche. La geometria dei gironi impressionò Galileo, che nel 1588 tenne due lezioni all’Accademia Fiorentina sulle misure dell’“Inferno”, rispondenti a precisi canoni geometrici. Ci sono Empedocle, Talete e Euclide nel limbo. Di Empedocle è la teoria delle quattro radici, che saranno elementi in Platone, e chiamate “forze” sono al centro dell’odierna Teoria Standard dell’universo. Di Talete e Euclide un teorema ciascuno è messo in versi. Dio è un cerchio di cui non si conoscerà mai la quadratura.
Destra-sinistra – Le riviste d’informazione e culturali erano in Francia negli anni 1930 di destra: vivaci, avvolgenti, innovative. Palestre ambite degli scrittori anche non di destra – un po’ come le riviste del Guf e i Littoriali, anche se in Francia non c’era il regime. Il caso di maggior rilievo è quello di Maurice Blanchot, che fu attivista culturale (editore, direttore, giornalista) di destra fino a guerra inoltrata. Riccardo De Benedetti, che questo primo Blanchot ha indagato (“La politica invisibile di Maurice Blanchot”) ha censito 252 suoi articoli “su quasi tutte le riviste di destra degli anni 1930”. Che lo storico Sternhell, studioso del fascismo, dice (“Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia”) “il perfetto esempio dello spirito fascista” in Francia in quel periodo.
Caillois e Bataille, che peraltro saranno icone nel dopoguerra della destra europea, non erano alieni dal fascino hitleriano. Anche se Bataille era sicuro comunista, dal 1936 troskista ma pur sempre comunista. Caillois e Bataille tennero al Collège de Sociologie, ha ricordato Carlo Ginzburg già nel lontano “Miti, emblemi e spie” (“Mitologia germanica e nazismo. Su un vecchio libro di Georges Dumézil”) “un atteggiamento estremamente ambiguo nei confronti delle ideologie fasciste e comuniste”. Di Bataille si ricorda anche la conferenza, tenuta il 24 gennaio 1939, su “Hitler e l’ordine teutonico”, la massima onorificenza nazista ricalcata sull’ordine creato in Terrasanta nella Terza Crociata. Di quell’anno al Collège de Sociologie scrissero criticamente sia Kojève che W.Benjamin. Il quale però, al momento del confino in Francia quale tedesco dopo la dichiarazione di guerra, e successivamente, dopo l’occupazione di Parigi, al momento di tentare la fuga in Spagna, confidò manoscritti e progetto dei “Passages” a Bataille.
L’ambiguità c’è stata, c’è, in politica. C’è stata anche in letteratura, per tutto il Novecento. In Italia come in Francia – e in Germania, Polonia, Romania eccetera. Di destra, anche accesa, prima della guerra, che diventa sinistra dopo. Di Malaparte e Ungaretti come di Pound e Céline, i casi di maggiore risonanza, e Blanchot, Caillois, lo stesso Bataille, la lista è lunga. Praticamente con le stesse parole, senza rinnegare niente.
In campo culturale, dalla letteratura alla storiografia e all’ideologia, c’è una sorta di rovesciamento a specchio, tra le due decadi 1930-1940, col discrimine della guerra, fra la destra e la sinistra. Che spesso si riduce a opportunismo, ma ha sicuramente un fondamento. Si vede ripercorrendo l’editoria, le riviste e i giornali degli anni 1930, che in Italia obbligatoriamente, in Francia per scelta, sono di destra ma sono anche vivi e innovativi. Per le stesse esigenze, d’innovazione e invenzione, che si troveranno dopo la guerra a loro agio nel (relativo) progressismo della sinisitra, mentre la destra, sconfitta in guerra, si faceva arcigna e, di colpo, invecchiata.
Riccardo De Benedetti ne tratta in un’altra prospettiva (“La politica invisibile di Maurice Blanchot”, 2004), quella dell’anticonformismo - Blanchot diceva dei “dissidenti”. Come di una iperpresunzione di sé che i “rivoluzionari conservatori”, in Germania e in Francia, esibivano: più che alla parola d’ordine “né di destra né di sinistra”, pronti a “essere realmente contro la destra e contro la sinistra” - dove quell’“essere”, per uno scrittore e filosofo forbito dei linguaggi quale Blanchot, è povera cosa, come povero è il concetto.
Italiano - “Come dobbiamo chiamala: baronetto?”, Fabio Fazio esordisce ironico con Anthony Pappano, che pure ha invitato a onorare la sua trasmissione. Il maestro capisce e si ritira in buon ordine, l’intervista sarà freddissima. Non prima però di avere detto: “È un riconoscimento. Che uno è fiero di poter comunicare alla mamma. È un riconoscimento all’opera educativa dei genitori”. La mamma, i sacrifici dei genitori: Pappano fa suo il linguaggio Rai. Senza naturalmente il sottinteso “Dio stramaledica gli inglesi”, o gli americani, che ne è parte costituiva.
È il limite dell’italiano oggi, di cui si riprende la discussione. Della sua inconsistenza. Del linguaggio parlato e scritto, e della pubblica opinione: giornali, media, politica, istituzioni, giustizia. L’italiano di oggi è Rai senza residui, ventiquattro ore di notiziari che non lasciano scampo, Orwell non l’avrebbe immaginato. Il linguaggio Rai è moralista. Cioè, ognuno lo sa, falso moralista, essendo la Rai la quintessenza del sottobosco politico, corrotto e corruttivo. Ma per questo stesso motivo aggressivo Una parte quindi accusa, non la migliore, l’altra parte si difende. Parlando poco, o non parlando.
Se Pappano fosse stato insignito del cavalierato del Lavoro, magari da Napolitano, della cui bandiera Fazio oggi trova comodo gloriarsi, grandi lodi al maestro. Poiché il cavalierato glielo ha dato la regina Elisabetta, sberleffi.
Traduzione - In Italia, dove usa doppiare i film, gli attori stranieri prendono la voce dei doppiatori. La cui voce finisce per identificarli, un doppiatore è Bogart, uno è Jean Gabin, una è Marilyn. Ma può capitare che un doppiatore richiesto, se il suo attore non lavora, è impedito, è malato, faccia parlare con le stesse sue cadenze, pause, ticchi altri attori, anche altrettanto importanti ma diversi dall’originale, per i personaggi che interpretano, il fisico, lo sguardo, e questo suona falso, senz’altra ragione. Così è per la traduzione. La traduzione non è solo arbitraria, è violenta: per la filosofia è un’insidia radicale, per l’espressione e lo stesso pensiero. Il traduttore sa che non c’è idea o concetto a sé stante, ogni lingua ha i suoi, che differiscono più spesso per gli attributi, direbbe Spinoza, ma talvolta per la sostanza. La linguistica, con le sue apparenti balordaggini, ne è il segno più evidente. Saussure lo dice chiaro, per quanto perturbante: “Se le idee fossero predeterminate nello spirito umano prima di essere valori di lingua, accadrebbe forzatamente che i termini di una lingua in un’altra corrisponderebbero esattamente. La corrispondenza esatta non c’è”.
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domenica 18 marzo 2012
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