All’Avvento del 1934 Simone Weil avviava alla fabbrica elettrotecnica Alsthom di Parigi l’agognata esperienza operaia. Dove fu infelice. Non resisteva i ritmi di lavoro, non sperimentò alcuna forma della solidarietà operaia di cui nei libri, nemmeno sotto l’aspetto sindacale. Un’esperienza che dice disumana, anche se era la vita di milioni di persone. Che aveva voluto perché era la sua maniera di conoscere: fare esperienza. Stare nel mezzo – un po’ come il suo adorante traduttore, Franco Fortini.
Il libro è una raccolta di testi diversi, articoli, lettere, abbozzi inediti, frammenti, assemblata postuma, nel 1951, nella collezione “Espoir” di Gallimard che Camus dirigeva, con criterio tematico e non cronologico. Testi vivi, voleva Camus, di pensiero attivo, e non, per allora, di riassetto critico, da opere complete. Mantengono un interesse storico, più di molti saggi di sociologia del lavoro all’epoca. E, come sempre per Simone Weil, di testimonianza di uno spirito irrequieto: generoso e sempre partecipe, perfino invadente.
Il curatore della riedizione francese della raccolta dieci anni fa, Robert Chenavier, apre la presentazione con l’orrore delle retrovie che la filosofa sempre attesta, con Bernanos e altri corrispondenti, in guerra, in politica, nel lavoro, nell’esperienza religiosa, nella vita. Attiva in tutti i fronti di resistenza, dalla Spagna al gollismo, Sempre impegnata e sempre critica. Filosofa informata e acuta del presente, e tanto più a distanza di tempo, ma esempio vivente dell’irrilevanza, forse, della critica nell’azione, sia pure ragionata e vera.
Simone Weil, La condizione operaia
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