“Finita l’udienza, le toghe sul braccio, ci siamo fermati nel corridoio a continuare con altri colleghi un discorso interrotto alcune ore prima. Come non fosse accaduto nulla in quell’intervallo” . Aspettando “il momento in cui i rimorsi diventano l’orgoglio del mestiere” (p. 47). La “carriera” è tutta qui, senza illusioni sulla giustizia (attenzione, equanimità), si è giudici per mestiere – una delle professioni forensi.
In questa prosa dolente dei primi anni 1950 del giudice che si voleva scrittore, c’è la delusione del volontario in guerra, in Nord Africa, finito prigioniero in Texas per tre anni (su e giù “sette giorni e sette notti”, in un vagone merci, “in tanti da stare a malapena seduti”). Nonché del padre reduce incapace di affettività. Disincantato, incattivito. E di un giudice particolare, che ha conosciuto nella sua piccola superbia le deiezioni dei tanti personaggi minimi che è chiamato ogni giorno a sanzionare. Al punto di dire che “condannare è uccidere” (p. 34). Di non volere – nel minimo di finzione che Troisi architetta sull’esperienza quotidiana – un altro figlio, sia pure a costo del proibitissimo aborto: “Io ho sempre avuto una divisa e in divisa fatto e patito violenze: la divisa di soldato, di prigioniero, di giudice”. Il giudice appaiando al boia. Eal delinquente: “Ho bisogno di commettere un reato per acquitare sfrontatezza, coraggio di vivere e giudicare gli altri. Contro la verità (onestà) della prosa semplice.
Troisi sembra lontano dalla metafisica del giudicare di Sciascia (“Porte aperte”), ma vi è più vicino e miglior filosofo, se non narratore. Narra la giustizia più aderente alla cosa – la giustizia qual è e si esercita, ogni giorno. Fuori dalla disattenzione (routine, velocità, sovraccarico di esperienze) delle metropoli. Racconta un tribunale di provincia, Cassino, dove ogni giudizio è di casi umani. In un’Italia dove c’è ancora il banditore con la trombetta. E si condanna “per mendicità”. Ma il processo – la corte, il dibattimento, la camera di consiglio - è immutato: il presidente è “l’unico che conosce il processo”, i giudici a latere stanno lì a perdere tempo, poi si fa una camera di consiglio, se i tre non sono d’accordo si vota, si fuma una sigaretta, si prende un rinfresco, e si legge la sentenza.
Il racconto è sempre vivo, e questo basta alla riproposizione. Narra un disadattamento e un disamore. Di uno che fa il giudice. Ma la nota di Camilleri che accompagna questa riedizione ci riporta all’ordinamento della giustizia oggi contestato, e alle protezioni di cui esso gode. Contestato oggi da destra, sessant’anni fa da sinistra, ma sempre per lo stesso motivo, per essere indifferente e avulso, ugualmente castale. Poiché di una casta si tratta, l’unica in senso proprio, protetta dalla fama, dalla dottrina e dalle leggi. Da un ordinamento e una pratica solidamente fascisti dopo settant’anni di democrazia: autoreferenziali, protettivi, esclusivi, insindacabili, insanzionabili. Ma protetti ultimamente dalla cattiva coscienza democratica - Camilleri in testa, il cominformismo non è morto. Che è il problema: non i giudici uno per uno, che saranno la parte migliore di noi, ma la cattiva politica che ne stimola i vizi.
Troisi è un dei pochissimi giudici che l’ordinamento abbia sanzionato. Un ordinamento contestato, è vero, da Camilleri nella nota. Ma nel secondo dei due processi disciplinari abusivi che subì Troisi ebbe a compagno nel 1973 il giudice Misiani. Che nel 1996 fu coinvolto da Milano, da Ilde Boccassini, in un altro processo fasullo, anch’esso politico come nel 1973. Dopodiché Boccassini è diventata vice Procuratore Capo a Milano e Misiani avvocato, per il puntiglio di non farsi giudicare una seconda volta, morendone pochi anni dopo. E allora? Camilleri denunzia senza avverbi in tre paginette le cattive azioni della casta del tempo, incluso il guardasigilli Moro, che pure di Troisi era stato il docente a Bari, contro il giudice-scrittore e il suo “Diario”. E una condanna scritta e prescritta, benché Troisi fosse difeso dai maggiori giurisperiti del tempo, Galante Garrone, Jemolo, Piero Calamandrei.
Si ripropone Troisi dunque contro l’ordinamento chiuso della giustizia. Che invece poi i Camilleri dicono intoccabile (Camilleri non lo dice qui, lo dice nella contemporanea prefazione a Giancarlo Caselli, il giudice che scambiò la politica per la mafia, grande regalo). Oggi perché c’è Berlusconi. Ieri perché c’era Mani Pulite. La volta precedente perché c’era Falcone che voleva il coordinamento antimafia – mentre è valsa la pena spezzettarlo in duecento Procure antimafia distrettuali, con duecento posti di Procuratore Capo, e quattrocento di Vice o Vicario? Per la cronaca, Misiani fu subito sanzionato dal Consiglio Superiore della Magistratura. Che dovette rimangiarsi la censura ma non si scusò. Fu poi assolto con formula piena al processo penale, che Boccassini non appellò – nel 2003.
Misiani era di sinistra, uno degli isolati fondatori di Magistratura Democratica nel 1965. Ma non evidentemente della sinistra buona, di Boccassini e Camilleri – che però non ci dicono qual è.
Dante Troisi, Diario di un giudice, Sellerio, pp.239 € 13
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