martedì 20 marzo 2012

Per la patria tedesca non basta la lingua

“Se Irene avesse dovuto dire quello che stava pensando, nessuna frase sarebbe stata adatta”, nessuna sillaba che il caso legasse. A metà del primo libro tradotto della scrittrice poi premio Nobel 2009 (pubblicato nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, tradotto nel 1992, riedito ora in economica), questo si può dirne il codice: lo stupore. Con espressione mediata dalla filosofia di Jeanne Hersch ma con altro senso, riduttivo: della solitudine, nello spaesamento. Di chi ha due patrie e non ne ha nessuna. Del disadattamento, si sarebbe tentati di pensare, che però viene rifiutato con ostinazione, con una vigilanza politica in Romania, e sociale poi in Germania, costante. Della stessa condizione esistenziale, allora, di chi vive in Romania nella sua piccola patria tedesca del Banato, e nella grande Germania da immigrata, anche se privilegiata per essere Aussiedler, una cittadina tedesca di fuori: tra “il paese di là” e “il paese di qua”, nel quale solo incontra “abitanti con la valigia”, non di più, niente di meglio. Che Irene-Herta, in questo racconto che è un excursus dei primi mesi in Germania dopo l’emigrazione definitiva nel 1987, si fa spiegare in uno dei due omaggi all’Italia: da un tedesco di origine italiana nato in Svizzera – l’altro omaggio è a Calvino: Irene viene esplicitamente dalle “Città invisibili”. Lui è “senza patria”, ma lei non è “in patria”, è “soltanto all’estero”.
Un’impossibilità che non è evidentemente linguistica. Herta Müller fa anche qui la “scoperta della lingua” che è la sua cifra di scrittura, delle forme grammaticali e sintattiche, delle metafore e delle altre figure, ma da padrona della lingua stessa. Di chi come lei è cresciuto in una lingua – integrato in un’altra comunità ma differenziato (marchiato) dalla lingua. Qui è come se dicesse, o chiedesse (ponesse il problema): si può essere “all’estero” nella lingua materna?
Un paradosso solo tedesco – non c’è tra i tanti franco-africani, né fra gli anglo-indiani, o gli indiani delle West Indies, e tra gli anglo-africani. Di cui si vorrebbe sapere di più dai germanisti. Ma i germanisti da qualche tempo tacciono, sui Nobel d’area che pure sono tanti: Grass, Jelinek, Müller, Tranströmer. Perplessi?
Herta Müller, In viaggio su una gamba sola, Marsilio, pp. 169 € 9

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