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martedì 6 marzo 2012

Secondi pensieri - (93)

zeulig

Amore – Se ne è fatto grande uso nella seconda parte de “La certosa di Parma” in tv. A un Fabrizio Del Dongo ritagliato sulla bellezza dei mannequin, tanto più nelle sequenze finali in abito talare, facendo recitare come sermoni in chiesa dei passi tratti da “Dell’amore” – tutti convergenti sulla vita che è amore, e che non c’è vita senza amore. Per una versione così popolare della “Certosa”, con colori pop e inquadrature da fotoromanzo, il “discorso” dell’amore è dunque ritenuto il motore dell’audience. In un’epoca che a tutti gli effetti (giuridici, sociali, letterari) è invece segnata dall’amore-sesso, e da una concezione concorrenziale dei rapporti personali, anche d’amore (di coppia, familiare, parentale) – di dare e avere, diritti e doveri.

Confessione – Ci si conosce per sommatoria: cosa s’è aggiunto, cosa distrutto. Ma non a torto i bogomili dicevano la natura opera del diavolo, che tormenta beffardo l’uomo e gli sottrae forze e desideri. Conviene concentrarsi su di sé, si scrive pure per il bisogno che si ha di esprimersi. Come Tolstòj, che gira su se stesso. Che anzi, come Turguenev ha intuito, il terribile segreto opprime di non riuscire ad amare altri che se stesso. Ma bisogna essere corazzati, tali il pedagogo Rousseau che i figli crebbe al brefotrofio – uno che ama l’infanzia ma non i suoi figli è un altro discorso: se l’uomo moderno è scisso, l’intellettuale è fangoso, ma “Rousseau mentiva e credeva alla sua menzogna”, nota Tolstòj. E questo chiude il discorso, o lo riapre. “L’anarchica onnipotenza della personalità è un lapsus”, dice ancora Tolstòj, “bisognerebbe dire monarchica”. Per quanto, i russi non sono affidabili: “Parlo a nome mio”, dice Sklovskij, “ma non di me. Inoltre, quel Viktor Sklovskij di cui scrivo probabilmente non sono io e for-se, se ci incontrassimo e prendessimo a parlare, sorgerebbero tra noi dei malintesi”.
La confessione esce dalla testa di sant’Agostino, per il quale Dio sta sopra di noi ma va cercato dentro di noi. Ma ha una parentela. È Giobbe l’antenato della confessione. Come in Giobbe, la confessione risuona della viva voce dell’autore. Questa è la confessione: parole a viva voce. La confessione è parlata, è una lunga conversazione, in tempo reale. Ma, come un romanzo, ci trasporta in un tempo immaginario, creato dall’immaginazione, in circostanze anche immaginarie. Il romanzo ha origine nella lanterna magica, nella soffitta abbandonata, nella natura vergine. In un tempo diverso da quello della vita. Quando il tempo del romanzo è quello della vita - Proust, Joyce – si ha una confessione.
Ma dire Giobbe è dire pena, e dunque senza lamenti l’uomo non uscirebbe da sé: la confessione apre la speranza. È l’uscita dal sé in fuga, come buttarsi fuori dall’auto impazzita - si esce da sé perché non piace ciò che si è. Sempre ricordando che le identità plurime o scoppiate sono un gioco e non un fiasco, meno che mai della contemporaneità: Pirandello è un tragediatore siciliano, uno che si diverte a vedere gli spettatori e i lettori imbizzarrire di fronte agli ostacoli che lui solleva. Già Ulisse s’inventava con gaudio le identità, o Giove – per non dire Dio, per non essere sacrileghi, che è molti dei nella Bibbia. La coerenza è del ragionamento e non della persona, è una sintassi. La persona è felice d’essere libera, o il cane, il gatto. Sant’Agostino si confessò per convertirsi, per levarsi vizi che non amava. Rousseau per esibirsi, è un Casanova sentimentale.
Questi allora i fattori della confessione: lo sconforto, la fuga da sé, la fiducia di ritrovarsi. Non si vede come: è soggettivismo che vuole emanciparsi secondo una certa oggettività. Ma ha effetti pratici: è un metodo attraverso cui la vita si libera dai paradossi e tende a coincidere con se stessa. Sant’Agostino parte da un’inimicizia tra sé e la divinità, o realtà superiore. Anche se questa, si sospetta, permane nel mondo: la confessione è trama di luci e ombre, di reminiscenza platonica e oblio, del conoscere come ricordare e dell’ignorare come dimenticare. Provvisoriamente, ma senza disonestà, non obbligata.
Altro è l’autobiografia: chi si racconta rende oggettivo il proprio fallimento, ma romanzarsi è tra i peccati più gravi che si possano commettere. È narcisismo puro: Narciso allegoria del conosci te stesso è superato, essendo stato barocco, ogni narcisismo è gioco con se stessi. Per occultarsi a se stessi e agli altri. L’arte invece salva dal narcisismo. L’arte sa sempre di confessione distorta. È il dispendio della creazione, essendone il gioco. È il lusso che Dio, misericordioso, lasciò agli uomini dopo averli dannati alla fatica e al dolore.

Vuole Maria Zambrano che la confessione, sia pure al terapeuta, è espressione di qualcuno che non ha azzerato la sua condizione di soggetto. Benché, manifestandosi in essa il carattere frammentario d’ogni vita, il destino venga compartecipato: è un modo d’essere. E può essere filosofia, è esercizio gnostico - è la gnosi conoscenza di se stessi: “La più grande di tutte le scienze è conoscere se stessi”, ammoniva Clemente Alessandrino, dopo Delfi e Giamblico. Ma la confessione, a differenza della filosofia, vuole attuarsi, è azione, l’azione massima che alla parola è dato attuare: tenta di riconnettere vita e verità. Rimediando ai tre orrori di quando l’uomo esce da sé: della nascita, la morte, l’ingiustizia. Dopo che la filosofia si tradì, sostituendo la sincerità alla verità. Anche nell’idealismo, spiega Zambrano: è la vita che trapianta i suoi caratteri nello spirito assoluto di Hegel. Con l’esito, si aggiunga, di cassare il piacere della filosofia, della scrittura e della vita, se la scrittura è vita, la vita è filosofia, e filosofia è scrivere, di se stessi. Una sconfitta anch’essa triplice.

La confessione è esercizio di verità, quindi di eternità. Se la verità non c’è, ce n’è però bisogno. Lo stesso per il tempo, ce ne vuole uno permanente, senza l’angoscia del presente inafferrabile. Da qui il futuro e la storia. Non è la sincerità che legittima la confessione, non si parli di verità, ma l’atto di offrirsi. Maria Zambrano ne sa di più, e non di peggio: “Ogni azione nata dalla solitudine è distruttrice. La verità è sempre condivisa”. “Cosa sono?”, si chiede sant’Agostino, e si risponde uscendo dall’inganno: “Mi conosco e mi amo”.“Ma a chi racconto queste cose?”, si chiede poi, benché pieno di grazia. La ebbe tardi, carica di frutti.

Religione – È stata a lungo l’innesco della violenza. Lo è ancora ma non per i cristiani. Che sono quelli che hanno portato la formula del potere religioso alla dignità della teoria e delle istituzioni, a Roma e anche a Costantinopoli, malgrado le distinzioni formalmente nette tra potere laico e potere religioso.
Non lo è più per i cristiani dopo il concilio Vaticano secondo, ma non per il concilio. Si trova ora (si apprezza) nelle chiese, con la fede e senza, l’assenza di violenza. Di “concorrenzialità” in termini contemporanei, del vecchio orgoglio, dell’invidia, dell’ira. La fede degli uni non preclude la fede degli altri.

Storia – Resta, incancellabile, seppure una e varia. La discrezione di Guicciardini, la sensibilità di Chabod, la congiura di Patrizi. La dialettica della durata di Bachelard, il quadro incerto di Braudel, “la storia anonima, profonda e spesso silenziosa” nella quale “l’individuo è troppe volte un’astrazione”. La spinta alla fama di Coluccio Salutati. L’effetto della posizione verticale, che Herder scoprì.
È come le lucciole la notte, che brillano e non illuminano. È pure abitudine, dice Febvre. E casalinga, si consuma di solito dietro le porte: “Quel che nella storia c’è di più ignoto potrebbe essere quello che c’è di più certo”, disse una volta l’ateo Voltaire. È scelta: “Per la felicità degli uni contro la felicità degli altri”, filosofano le Demi-vierges. E la complicità ci vuole, non si conciliano altrimenti tante storie.

Il rifiuto della storia va invece con la delectatio. Sulla traccia di Kierkegaard, il filosofo dell’adolescenza: “La memoria è parte dell’immediato e viene soccorsa nell’immediato, la rimembranza, invece, si avvale solo della riflessione”. O: “L’arte della rimembranza non è semplice, può mutare nel suo farsi, mentre la memoria oscilla solo tra il ricordo giusto e uno sbagliato”. Il solito passo sghimbescio del filosofo, il ghirigoro quale dev’essere d’ogni labirinto, accentuato dalla presunta ebbrezza notturna del vino, seppure placato, in traduzione, dalla rimembranza leopardiana: “Rievocare il passato come per magia non è così difficile come scacciare, per magia, il presente nella lontananza. In sostanza, è questa l’arte della rimembranza e la riflessione alla seconda potenza”.

zeulig@antiit.eu

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