Un racconto vivace della pubblicistica e la cronaca francesi dell’anarchia negli anni di formazione di Céline. Scritti e fatti, in ognuno dei quali Pagès trova un tic céliniano: l’irrisione, la disfunzionalità, l’aristocraticismo, e la marginalità come punto di osservazione (l’abbassamento), fino agli artifici pratici, la fuga in Oriente, la polemica con l’editore-direttore. Ogni sorta di utopismo vi fioriva. Per esempio l’ “utopismo agreste” di Courtial, “Morte a credito” - “l’età d’oro utopico-polemica” (p.125). Di una sinistra che può finire a destra ma di spirito antiautoritario, che il “Viaggio” riflette.
Il bouquin “D’un Céline l’autre” raccoglie un migliaio di pagine di testimonianze, diari, ricordi, lettere su Céline, per un terzo inedite. Di fonti disparate, dagli amici di naja ai maggior letterati: alcune critiche ma tutte, anche le più distanti, contagiate - Carlo Olgiati (qui purtroppo Olgiatti), consigliere comunale gollista a Bezons, figlio di un fuoriuscito comunista, descrive Céline nel 1942 all’ambulatorio come si vede nelle ultime foto, disordinato, sporco. Precedute da una biografia simpatetica di David Alliot, cultore di memorie céliniane.
Céline fu forse il letterato più impegnato del suo tempo, più partecipe della politica – “una bestia da stile” è il rifugio che si è scavato quando lo processavano, e una via d’uscita per la vita ulteriore. Ma da autodidatta e non da intellettuale rifinito – pieno di letture, ma confuse. E da anarcoide insofferente, avendo maturato nei suoi vent’anni, tra il 1912 e il 1918, tra il servizio militare volontario, la guerra, Londra e l’Africa, la ripulsa della sua passione dominante, la Francia, come uno sconfitto permanente o un paria. In una delle prime recensioni del “Viaggio”, Bataille lo metteva in rilievo su “La critica sociale”: in Céline “la coscienza della miseria non è più esteriore e aristocratica, ma vissuta”.
Pagès, romanziere, riedita aggiornandola la sua tesi di dottorato del 1995, con lo studioso céliniano Henri Godard all’università Parigi VII. Nella quale aveva sottolineato il carattere autodidatta della formazione di Céline, temperamentale più che critica, attraverso pubblicazioni in cui s’imbatteva a fiuto, quasi tutte giornalistiche, e prevalentemente popolari e di divulgazione. Protestataria, come è d’ogni formazione fuori dai ranghi. Con una predilezione per pubblicazioni e casi di cronaca anarcoidi: post-comunardi, socialisteggianti, pacifisti (e insieme germanofobi, o in sostituzione ebreofobi), comunque ribelli alle convenzioni, anche nel linguaggio - al moderatismo politicamente corretto di oggi. Buona parte della sua corrispondenza si svolge su toni anarcoidi e con personaggi dell’anarchia: Élie Faure, Lucienne Delforge, la pianista, Albert Paraz, Maurice Lemaître, Louis Lecoin, Alain Sergent. In una sintesi sommaria, ma non per quanto concerne Céline, Pagès ricorda che l’icona di Céline fu Louise Michel, la “vergine rossa” dell’anarchia, l’eroina della Comune (icone della reazione dice Giovanna d’Arco per i più, compreso Péguy, per Morand, “1900”, Jules Guérin, per Bernanos Drumont - ma sono reazionari?). In allegato i termini argotici e popolareschi – il vocabolario céliniano – ricavato da Jehane Rictus e Marc Stéphane.
Céline serve da punto d’appoggio per un riesame inedito e affascinante del mondo libertario post-Comune fino alla Grande Guerra, anche degli “erranti e vagabondi”. Con autori dimenticati che ebbero un’eco ai loro tempi: Jules Vallès, Rictus, Stéphane, Zo d’Axa, Georges Darien, Lucien Descaves, patrono del “Viaggio” al premio Goncourt, Victor Serge, Georges Palante, Sorel naturalmente, e Gustave Le Bon, il maestro della psicologia delle folle, e di Mussolini. E tanti “casi diversi” e diversi tipi di “forsennato radicale”, “uomo barricato”, personaggi sconosciuti che al tempo fecero le cronache. Anche anarchici “che non credevano più neanche all’anarchia” (“Viaggio”), e perfino kamikaze - di kamikaze è pieno “Maudit Soupirs”. Bonnot, della banda Bonnot. Eugène-Bonaventure Vigo, il padre di Jean Vigo, il regista di “Zero in condotta”. Liabeuf, calzolaio perseguitato come magnaccia da poliziotti veri magnaccia, che se ne vendicò lamentando: “Mi dispiace di non avere fatto più orfani”. Jules Guérin, direttore dell’“Antijuif” e antisemita irriducibile (morirà accusando Drumont, l’iperantisemita, di farsi pagare dagli ebrei), che alla vigilia dell’appello per il processo Dreyfus e della grazia si asserragliò coi fedelissimi al Fort Chabrol presso la Gare de l’Est a Parigi, per quaranta giorni, visitato e fotografato come la “Concordia” al Giglio. Alexandre Jacob, apprendista timoniere a dodici anni su navi di lungo percorso, anarchico internato alle isole della Salute e in altri bagni penali, nel 1932 cinquantenne compagno della Chenevier, la ragazza cui Céline dava da decifrare e battere a macchina il “Viaggio”. Sulle tematiche già note per altre analisi: l’anti-intellettualismo, l’anti-progressismo, il pacifismo. Che Pagès riduce a “microutopie infantili” degli inizi del 900, ma non marginali. Altri nomi di rivoltati si potrebbero fare in letteratura, Ibsen (“Il nemico del popolo”), Jarry, Cendrars – Pagès nota pure il ritorno d’interesse per il “Contr’un” di La Boétie, il machiavellismo antirannico. In Cèline anche l’anti-standardizzazione, da lui scoperta con orrore nelle fabbriche Ford dopo la caserma, come documenta “I sotto uomini”, la raccolta dei suoi testi sociali a cura di Giuseppe Leuzzi.
Un tema, questo, va ribadito, che per Céline assume speciale valenza: la caserma e la trincea del “corazziere” Destouches, individuo inesistente, la finta organizzazione e asepsi degli ospedali, militari e no, bastioni del progresso (“Semmelweiss”), la fabbrica. Il lavoro in fabbrica rimodella la società e la psicologia: “È in questa gabbia militare-scientifica del Lavoro che Cèline localizza l’assolutismo moderno” (p.237). È la “mobilitazione totale” del “Lavoratore” di Jünger. Tema più germanico che francese, ma per primo formulato da Céline. Gli argomenti delle sue relazioni alla futura Organizzazione mondiale della sanità delle allora Nazioni Unite saranno romanzati in “Paradiso americano” di Egon Erwin Kisch, tradotto in francese nel 1931. Il progressismo – il lavoro per tutti, l’igiene in fabbrica e a casa, le cure mediche - è risentito non come un umanesimo contemporaneo, ma come una copertura dello sfruttamento.
In Céline il dato biografico è ineliminabile, a causa del razzismo e del processo. Non coerente, come in tutte le biografie. Ma in Céline per un dato ulteriore: il contrasto tra il cupo razzismo e il Céline “positivo” delle narrazioni: allegro, speranzoso, fiabesco. Questo il tema di Pagès. Che ne fa un riesame ponderato, avverte nella riedizione, attento cioè a non “confondere le ambiguità tattiche del Céline epistolografo, né la loro malafede retrospettiva, con le ambivalenze feconde, irresolubili, vertiginose che ossessionano la totalità delle sue narrazioni”. Senza sciogliere il nodo, allo stato degli studi irresolubile, degli studi storici. La conclusione provvisoria è che il razzismo in Céline è “univoco”, senza scusanti: “Il frammento razzista del suo immaginario non lascia posto (p. 369)ad alcuna riappropriazione concettuale paradossalmente libertaria” (p. 369). Ma è una biografia politica che postula un riesame storico del fascismo, dei fascismi. Non più confinato a regime padronale, ma indagato, oltre che nelle sue diverse manifestazioni, nelle radici. Colte e popolari insieme, di interesse (razionali) e passionali. Finora solo dissodate, dal solo Sternhell, e da un punto d’osservazione specifico, anamorficamente a partire dall’antisemitismo.
Yves Pagès, Céline, fictions du politique, Gallimard, pp. 473 € 9
D’un Céline l’autre, Laffont, pp. 1184 € 30
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