sabato 28 aprile 2012

Gramsci e il socialismo mancato in Italia

Perché non c’è il socialismo in Italia, unico paese europeo, un partito e uno schieramento socialista, è problema chiave – è il problema – della storia italiana nel Novecento, ignorato tuttavia dagli storici: Bobbio, Ginsborg, Lanaro, Pavone, Salvati, la Storia Einaudi. Tutti “di Partito”, cioè del(l’ex) Pci. Orsini ci prova caparbio: il socialismo fu impossibile in Italia per il “dogmatismo”, si diceva una volta, di Gramsci. Proprio così: il bonario letterato del nazionalpopolare, carcerato di Mussolini, era feroce a sinistra. È lui che ha dato l’impronta settaria e divisiva al Pci, che ha dominato e indebolito la Resistenza al fascismo e al nazifascismo, e ha impedito nel dopoguerra l’alternativa o alternanza di governo.
Orsini si applica a rivalutare Turati, la prima vittima di Gramsci, che lo chiamava “un povero imbroglione” e “un essere ributtante”, e questa è opera difficile, il fondatore del socialismo resta sfocato, trascurato dagli stessi storici socialisti, bloccati su Nenni. Ma su Gramsci, come sul Pci, qualche spiraglio comincia ad aprirsi. Mentre se ne celebra l’ennesimo revival, che Enrico Mannucci ha registrato su “Sette” del 19 aprile (“Tutti pazzi per Gramsci”): Donzelli annuncia per l’estate una “Piccola antologia”, Guido Liguori, il presidente della International Gramscian Society, ha appena compilato con Pasquale Voza un “Dizionario gramsciano”, e in Inghilterra Peter Thomas ne tenta il rilancio, con “The Gramscian Moment”.
Non è difficile uscire dall’agiografia. Per Matteotti, fatto assassinare da Mussolini nel 1924, Gramsci non si commuove. Lo chiama anzi “pellegrino del nulla”, come venivano chiamati nella rivoluzione leninista i socialisti che “non marciavano”. Curiosamente ripetendo il “pellegrino del nulla” con cui il Gramsci tedesco, Karl Radek, aveva appena “celebrato” Schlageter, il terrorista nazionalista antipolacco e antifrancese futuro martire del nazismo, fucilato dai francesi il 13 maggio ’23, all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno dello stesso anno (“Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei romantici sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino dei Pellegrini del Nulla”) – Schlageter insomma “meglio” di Matteotti, la Terza Internazionale marciava all’unisono anche nei dettagli.
Ma non è l’invettiva che condanna Gramsci - mediata forse da Marx, anche se Gramsci praticava poco Marx, feroce sempre con i compagni non sudditi. Né con l’invettiva si scopre il vero Gramsci. Già nel 1952, in una delle sue ultime note, Croce protestava contro la beatificazione surrettizia di Gramsci: nella nota “De Sanctis-Gramsci”, pubblicata nel numero di settembre dello “Spettatore Italiano”, poi raccolta nel primo volume delle “Terze pagine sparse”, si scagliava con inconsulta rudezza “contro la nuova diade”, inventata da “coloro che hanno il privilegio di tali invenzioni, (i) comunisti”, senza effetto. È la svolta di Livorno e l’anno insensato che aprì le porte al fascismo che vanno riesaminati. La pubblicazione del discorso moscovita sulla rivoluzione imminente in Italia nel 1922, sull’ultimo numero di “Belfagor”, a opera di Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, apre su questo abisso uno spiraglio. E il terzinternazionalismo di cui Gramsci ha oberato Togliatti.
Il diverso approccio storiografico era stato tentato da Bedeschi senza fortuna una quindicina d’anni fa, con “Gentile e Gramsci: i due volti del totalitarismo” e “Il piccolo Lenin. Antonio Gramsci e «L’Ordine Nuovo»”. Orsini ha le carte in regola per uscire dalla storia giornalistica – anche se egli stesso qui sembra volerla privilegiare: professore di Sociologia politica a Tor Vergata e alla Luiss, ricercatore del Mit, già apprezzato autore di una “Anatomia delle Brigate Rosse” che fa testo (nonché denunciatore inflessibile, anche in proprio, dei concorsi truccati all’università). Sulla “Stampa” Angelo D’Orsi l’ha detto “un giovane vivace, e improvvido studioso… privo di credenziali scientifiche”. Ma non c’è partita: D’Orsi, professore titolare a Torino, soprattutto di gramscismo, sembrerebbe accreditato, ma egli stesso di preferenza pratica la collaborazione che depreca ai giornali, “La Stampa”, “Il Fatto”, “Micromega”, e la polemica onnipresente sul web – il problema Gramsci sono sempre stati i “suoi”.
Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino, pp. 147 € 12

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