Una storia d’amore non corrisposto, su fondo piccolo borghese, a causa di esso. Una storia d’amore ordinario, una sfida che l’autrice si pone, vincendola: c’è fascino in questa piattezza. Con la nota, balzacchiana, capacità di rendere vivo il mondo sordo degli affari – fino al reciproco ricatto cha fa oggi l’attualità.È anche il racconto di come la guerra muta gli uomini – non le donne, i maschi. Scorrevole, come negli altri romanzi di Irène Némirovsky, e no: a volte inciampa, nella riserva se non nella derisione. La domenica agli Champs-Elysées, a guardare il lusso, dividendosi la spesa di “due granatine e nove bicchieri”. L’amore come dichiarazione d’amore, o matrimonio di convenienze. La guerra remota, e il patriottismo da lontano. La trincea, di fango, fame, sangue, mutilazioni. L’affarismo, durante e dopo. Minuto, miserabile, essendosi “democratizzato il vizio e standardizzata la corruzione”. La scrittrice sa ricrearli in breve, ma non si impedisce le sottolineature cattive.
Il tema del reduce cambiato dalle trincee del 1914-18 Irène l’aveva tracciato già nel 1939, allo scoppio della guerra, in un racconto partecipato, “En raison des circonstances” (ora nella raccolta “Les vierges”). Il romanzo, pubblicato postumo nel 1957, è stato scritto nel 1941-42, a Issy-l’Évêque dove la scrittrice con la famiglia erano sfollati, e riflette la delusione, se non il risentimento, che già in lei maturava - meglio riflesso nel contemporaneo “Suite francese”. Più che giustificato dalla denuncia che ne impose poi la deportazione ai tedeschi, verso la morte per tifo a Auschwitz. L’ultimo capitolo è una giornata idilliaca in campagna, tra le durezze della guerra, tra campi e boschi che potrebbero essere quelli di Issy-l’Évêque, della protagonista con due figlie della stessa età delle figlie di Irène.
È un ritratto rattristato della piccola borghesia francese, chiusa, triste essa stessa, sordida senza saperlo, proprio nei suoi orgogli. Poiché ogni tarda narrativa l’Irène va vista alla luce della sua biografia, in conseguenza delle leggi razziali, è come se se si vedesse allo specchio delusa prima ancora che offesa. Qui non lo dice ma è come se, avendo perduto lo smalto e la fiducia, benché da cosmopolita forzata, si ritrovasse meteca là dove meno se lo aspettava, nell’amata Francia. È a una narrativa “etnica” che procede, come potrebbe fare un Giono, con lo stesso distacco, ma delusa – se l’accostamento non fosse sacrilego all’antisemita Céline, la stessa amarezza la agita, verso la retorica delle retrovie e la solitudine al fronte, verso la morte dell’anima che la guerra induce, in termini (dolorosamente) più distaccati.
Irène Némirovsky, I falò d’autunno, Adelphi, pp. 240 € 18
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