astolfo
Attentati – Usavano a fine Ottocento, tra gli anarchici che facevano tutto da sé, in senso proprio. Presto divennero falsi, cioè opera del potere, a fini d’intimidazione (piazza fontana, Brescia), di disinformazione, di sovversione totalitaria. Anche doppiamente falsi, come quello finto al giudice Falcone all’Addaura, in modo da poterlo accusare (sospettare: il sospetto è tecnica intimidatoria, una bomba inesplosa) di esserselo organizzato da sé, per carrierismo.
Il più famoso dei falsi attentati è l’incendio del Reichstag, con la successiva eliminazione dell’incendiario. Attentati falsi furono quelli contro Mussolini, gestiti da una polizia politica “previdente”, che anticipava eventuali minacce Il caso più famoso è quello di Anteo Zamboni, che a Bologna nel ’26 sparò a Mussolini - forse, non si sa, perché fu pugnalato all’istante dai balilla del federale Arpinati, che conosceva bene Zamboni. L’attentato era nella storia parte della liturgia del capo, della sacralizzazione. E si voleva meglio a opera d’innocenti. Anteo Zamboni aveva sedici anni. I re di Francia si rilanciarono dopo l’assassinio di Enrico IV facendo giustiziare un attentatore di dodici.
Il modello del dopoguerra, tentato ultimamente da un giornalista a Milano, fu, ricorda Carlo Fruttero in “Mutandine di chiffon”, p. 63, a Parigi quello “al giovane deputato François Mitterrand, vicino al Luxembourg negli anni Cinquanta”, che si ebbe “titoloni sui giornali” ma “fu forse un falso attentato, organizzato dalla scampata vittima per motivi oscuri”.
Giustiziere – È la figura dominante dell’opinione pubblica, dell’immaginario e del quotidiano – ne è un riflesso anche la diffusione della letteratura del genere “giallo”, fino a non molti anni fa per cultori in Italia, e praticamente senza autori. Per effetto del predominio nei media della cronaca giudiziaria, con il suo seguito, da circa venticinque anni, di notizie sempre clamorose, seppure più o meno fondate. E dell’abitudine all’assoluzione, che deriva agevolmente all’autoassoluzione – la Lega non è il primo caso, molti dei cavalieri della giustizia sono stati o sono in Italia corrotti, corruttori, concussori, ladri, eccetera. Una terza causa è il vezzo ora incontestato delle generalizzazioni: per cui “siamo tutti” corrotti, tutti mafiosi, o grassatori, o ladri, specie di pubblico denaro, tutti stupratori o pedofili. Nel senso dell’indignazione, che tanti lo siano ci indigna.
Riforma – È la parola più abusata del gergo politico e dell’informazione, e più destrutturata. Sinonimo oggi, al meglio di legge: la riforma scolastica, la riforma elettorale, la riforma del finanziamento pubblico dei partiti. Ma buttata lì non innocentemente, in senso contrario al suo significato, lessicale e storico: si riforma per il meglio, la riforma è sinonimo di rivoluzione riuscita, solida cioè, nell’interesse dei molti e acquisitiva, non distruttiva, sulle orma della Riforma protestante, la prima grande rivoluzione dell’Europa – nel gergo sovietizzante recente il messianismo vi si collegava nella dizione “riforme di struttura”. Ossi la parola si usa a copertura di incapacità, in senso autoassolutorio, o di interessi di parte e subdoli. La riforma delle pensioni che butta nell’incertezza sei italiani su dieci è una forma suicidaria, poiché fa della previdenza una incertezza. O la riforma del lavoro che scoraggia l’assunzione al lavoro.
Il suo giornale Crispi lo intitolò “Riforma”, col quale perorare l’egemonia italiana nel Mediterraneo. Lo diresse un Primo Levi, di tre generazioni prima dello scrittore, “milanese di Ferrara”, amico di Carlo Dossi, che si firmava Italicus o L’Italiano.
Il necrologio che Hamsun, l’anarchico premio Nobel, dedicò a Hitler il giorno della capitolazione, lo fece un riformatore: “Un guerriero, un pioniere dell’umanità, un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni. Era un riformatore di altissimo rango, ma il suo destino storico fu di operare in un’epoca di barbarie senza precedenti, una barbarie che ha finito per abbatterlo”. Hitler avrebbe obiettato, si voleva rivoluzionario e non riformatore, ma il ritratto per il resto avrebbe gradito: la barbarie che con Hamsun combatteva era la democrazia, non altro.
Spia 3 - Sarà stato Gor’kij l’agente provocatore più temibile, straordinariamente remunerato. Forse non involontario, e per questo minaccioso. Almeno in un caso: il Comitato panrusso di soccorso ai contadini affamati, da lui creato nel 1920, servì unicamente a mettere nel mirino i non bolscevichi che vi aderirono, tutti a un certo punto incarcerati eccetto lui. Anche se questi criticoni Lenin si contentò di deportarli. La vicenda dei contadini affamati sarà risolta coi massacri. I contadini di cui Gor’kij, con la sola parentesi del 1920, non si stancò per tutta la vita di denunciare l’ignoranza, l’avidità, il servilismo, la bestialità: “I bolscevichi sono un pugno di uomini”, tenace ammoniva i suoi ospiti e scriveva, “i contadini sono milioni e milioni, un giorno li spazzeranno come un uragano”. Di Lenin il merito principale, disse, è aver salvato “la Russia dal contadiname”. Stalin lo compiacque sterminandoli.
Il comitato speciale da destinare all’epurazione fu uno schema presto classico. Nel ‘48, insorta Israele, Polina Molotov, amica dell’ambasciatrice Golda Meir, creò un comitato di sostegno. Col favore di Stalin, che spinse Polina a farvi aderire gli ebrei illustri dell’Urss. Dopodiché, dopo pochi mesi, mandò in Siberia tutti i membri del Comitato, Polina inclusa - suo marito, il ministro degli Esteri di Stalin, si limitò a seguire distaccato la vicenda. Quando Gor’kij morì il Piccolo Padre ne portò a spalla le ceneri con Voroshilov, Orgionikidze e Kaganovich. Gor’kij aveva elogiato Stalin anche dopo l’esecuzione dei suoi compagni rivoluzionari, anche dopo l’assassinio di Kirov e i processi che lo seguirono.
A Capri Gor’kij c’era andato una prima volta a spese sue, dopo la rivoluzione del 1905, e un tentativo abortito di stabilirsi in America: per sette anni, fino alla fine del 1913, già allora i soldi non gli mancavano. Era uno avventuroso, che per primo andò a Reggio e Messina per il terremoto, e ne scrisse. A Capri tornò mandato da Lenin, a spese della rivoluzione. La rivoluzione non gli era piaciuta: Vita Nuova, il suo giornale, fu antibolscevico. Lenin Gor’kij chiamava “il nobilotto”, figlio di un preside di paese – e Marx “Carluccio”, di cui non ha letto un solo libro. “Vogliono conciliare il boia e il martire”, aveva concluso nelle Note sullo spirito piccolo borghese. È la tentazione di ogni società in realtà, e quindi della sua suprema espressione, l’intellettuale, Gor’kij incluso: se questo è l’ingrediente principale del “borghese che vorrebbe ma non può”, allora l’intellettuale lo è per primo. Ma Lenin fu attrazione fatale.
Lenin stava da Gor’kij volentieri, per leggere, è stato il lettore più onnivoro che si conosca. Fu lui, calmo, sicuro, disponibile, a inventare Gor’kij ambasciatore culturale. Per curarne la tubercolosi. Lo trapiantò dapprima in Germania, da fine 1921 per due anni, dove c’era la più folta e ostile comunità d’intellettuali espatriati, nella Foresta Nera, a Berlino, a Heringsdorf, spiaggia alla moda sul Baltico, e a Marienbad. L’Italia sarà una terza scelta, dopo il rifiuto francese del visto per la Costa Azzurra. Mussolini si limitò a proporre Sorrento, più controllabile di Capri. Gor’ kij ci passò dieci anni, ma non in esilio, ci stava in albergo: nei diciassette anni complessivi che trascorse tra Capri e Sorrento non imparò nulla, né dei luoghi né della lingua o la cultura, neanche della cucina, uno che volesse scrivere Gor’kij a Napoli faticherebbe a girare pagina.
A Sorrento Gor’kij era accudito da donne: l’enigmatica Moura, due bolsceviche fanatiche, la moglie Caterina e l’ex amante Maria Andreieva, e Sibilla Aleramo - la temibile Sibilla ci provò anche con lui. Maria Andreieva, ex attrice, era membro del Politburò e commissaria del popolo al Commercio estero, dove curava la liquidazione all’estero, per procurare valuta, dei “beni artistici superflui”. Moura seppe sempre legare Gor’kij, con argomenti talvolta da monarchica, alla difesa della patria russa e dell’avvenire. Fino quasi alla fine, quando, combinandosi l’esigenza di sottrarre le carte di Gor’kij con quella di vegliare sugli intellettuali inglesi, fu più utile a Londra. A Mosca Gor’kij sarà lasciato alle cure personali di Yagoda, il capo delle Ghepeù, uomo rozzo che divenne il suo più intimo amico, e al posto delle donne amorose gli mise alle costole due agenti spicci, il segretario Kriuchkov e il medico Levin.
astolfo@antiit.eu
giovedì 19 aprile 2012
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