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Confessione – Ha dominato il secondo Novecento, nel segno di Proust. Domina il Duemila nel segno dei reality, degli sfoghi in pubblico che hanno preso la scena negli anni 1990, l’età dell’Acquario: l’ambizione è raccontarsi, ma a chi non ascolta – solo apprezza, valuta indistintamente, il tono della voce, il taglio della bocca o dei capelli, la posa lusinghiera del regista. Uno sfogo purgativo forse, benché non maleodorante, ma senza tracce.
In tanta libertà di giudizio, non si sa a volte a chi raccontarla né come. Non si sa neppure a che modelli rivolgersi. C’è la prosa fattuale – ma si sa che è una finzione – dei “Commentari” di Cesare, e quella retrattile di Molly. La narrazione indubbiamente va organizzata: Proust, parlatore compulsivo, di quelli che non concludono mai la frase, non danno la battuta, rivela poco o niente.
Butor distingue l’exploration dall’imploration. Vale per il racconto come per i viaggi. L’imploration è la scoperta al contrario, il ripiegamento lamentoso sui propri piccoli segreti. È l’indefinitezza - l’improprietà - di ogni Erlebnis, dei fatti rivissuti nella memoria o in sogno, e letterariamente espressi.
C’è il detto famoso di Hebbel che “nessuno scriverebbe se non scrivesse la propria biografia, e tanto meglio quanto meno lo sa”. Ma un’improprietà di terzo grado ha la biografia pensata, speculata, sognata, storicizzata, nella cultura, nella politica, nel dover essere. E c’è poi il lettore. “Lector”, diceva Marziale, “opes nostrae”, tu sei la nostra ricchezza. Ma non nel senso del diritto d’autore, che non c’era, in quello dell’esistenza. Se le cose non si dicono, si perdono. Ma bisogna trovare ascolto: foss’anche un solo lettore, ma attento.
Da sant’Agostino a Casanova confessarsi è stato un piacere, la confessione spontanea. Chi è nato nel Novecento, invece, non può nascondere quello che sa, che la memoria non solo è selettiva ma è gestita dal presente - è la sua invenzione e la sua specialità. Ma la cosa è complessa.
Sant’Ambrogio spinse la voluttà fino a diffamarsi, ai parrocchia-ni che non gli credevano e volevano farlo vescovo facendo trovare donne discinte nei suoi alloggi. Nietzsche parla molto di sé, la stessa filosofia è anzi per lui “una sorta d’inavvertito mémoire”, oggi si direbbe ball’inglese memoir, una “confessione d’autore”. Mentre per Colorni è bene una malattia, da cui cioè “si può uscire” – Eugenio Colorni, il filosofo della sorpresa o logica asistematica, che la filosofia poté insegnare a Trieste solo al magistrale “Carducci”, fino al ‘38, quando i fascisti l’arrestarono, per poi, a guerra persa, ucciderlo. Calvino è solo a criticare la confessione. Giovanni: “In Giuda”, argomenta, “c’era perfetta contrizione di cuore, confessione orale, soddisfazione per i denari”. Italo ha in dispetto la “letteratura della memoria” e dava a intervistatori e critici notizie sbagliate di sé, a causa, diceva, di “un rapporto nevrotico con l’autobiografia”. Mentre Petiliano Giuda vorrebbe santo: “Si pentì e fu messo a morte, è quindi un Confessore e un Martire” - ma sant’Agostino non approva.
Si dice di Goethe che le sue opere sono frammenti di un’inesausta confessione. Di che? La sua confessione è la sua opera, ma non si sa se l’opera confessa la vita, o la vita confessa l’opera, la lima, la lucida. A meno di non ricorrere alla geniale “letteratura a difesa” di Robert Walser: internato per la genialità in manicomio, Walser progettò nella scrittura un’“opera di difesa”, scrivendo a matita, su foglietti, in microgrammi, contro i censori interni ed esterni, contro il filisteismo dell’epoca – l’epoca è sempre filistea. La scrittura come Resistenza, la confessione a trincea.
Anche Dostoevskij, che progettava un “Grande Peccatore”, profetizzò con Goethe che la letteratura sarebbe finita in confessione. Ma di che cosa? Sargon re d’Assiria si raccontava scrivendo al dio Assur. Ma solo di battaglie, se vittoriose. Senza vergogna scrisse Majakovskij All’amato se stesso le ultime liriche prima di uccidersi. E ancora, bisogna non vedere il resto, il fine Trockij notò del poeta: “Per elevare l’uomo lo porta al livello di Majakovskij. Come il greco era antropomorfo e assomigliava ingenuamente a sé le forze della natura, così il nostro poeta è majakomorfo e popola di sé le piazze, le vie e i campi della rivoluzione”. Farsi gnomone è troppo, il bogatyr della fiaba, benché vuotacessi ispirato.
Dante – “Era di sinistra”, stabilisce Matteo Renzi, che si cimenta in una “Rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter”, nientemeno, invece magari del suo programma politico, e la intitola “Stil novo”. Dante avrebbe probabilmente obiettato – era imperiale.
Renzi ha una buona ragione: “Usa il volgare, che rende la cultura accessibile a tutti”. Questo è vero. Dante usa il volgare da gran letterato, per le ragioni della letteratura. Ma l’uso di una lingua comune, aderente alle cose, è senz’altro (anche) democratico.
Il viaggio nell’oltretomba, ma non c’era già in Virgilio? Al cap. VI dell’“Eneide”: il regno delle ombre senza tempo, dove c’è anche il futuro.
L’ambizione di essere Dante è piena in Pasolini nella maturità, quella del progetto “La Divina Mimesis”. Che però è didascalica, uno schema freddo – un’autorappresentazione ridicola, se non fosse malinconica. Dantesco si potrebbe dire sul “Corriere della sera”, negli articoli degli “Scritti corsari”, 1974-75. Il Pasolini della “visione apocalittica” dell’articolo delle lucciole, “Il vuoto del potere in Italia”, dell’1 febbraio 1975 – non nei frammenti raccolti poco prima di morire, dopo quindici anni di tentativi abortiti, che fanno “La Divina Mimesis”. Se non che Dante è l’opposto. Pasolini è incostante e si vuole senza speranza, Dante è applicato e senza soste impegnato, Pasolini rifiuta il mondo, Dante lo esorcizza.
A proposito di lucciole, il filosofo dell’immagine Didi-Huberman ne traccia indirettamente il contrasto, nel saggio su Pasolini intitolato proprio “Come le lucciole”, in termini di luminosità: “Immagine non significa orizzonte. L’immagine ci offre qualche barlume vicino, qualche lucciola, l’orizzonte ci promette qualche luce lontana – la luce dell’orizzonte è quella di Dante. Pasolini “cerca l’orizzonte dietro a ogni immagine”, mentre il proprio dell’orizzonte è ridare “forma, immancabilmente, al cosmo metafisico, al sistema filosofico, al corpus giuridico o al dogma teologico”. In una prospettiva inquietante, secondo il filosofo: “L’immagine è lucciola delle intermittenze passeggere, l’orizzonte inonda di luce gli stati definitivi, i tempi immutabili del totalitarismo o i tempi finiti del Giudizio”. Ma così è.
L’indignazione è una chiave di Dante, ma non peculiare. Lui, poi, non se ne fa una bandiera, come devono i titolari di rubriche anticonformiste - siamo tutti capaci d’indignazione, e massimamente la portiera di fiducia. Derrida, criticando trent’anni fa l’apocalitticismo filosofico in voga (“Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia”), rileva che “ogni escatologia apocalittica si promette in nome della luce, del veggente e della visione, e di una luce della luce, di una luce più luminosa di tutte le luci che essa rende possibili”. È una mistificazione, afferma: “Non ci potrebbe essere verità dell’apocalisse che non sia verità della verità”, e anzi “verità della rivelazione piuttosto che verità rivelata”. Ma ineliminabile, anche perché non è una colpa: “È ineliminabile perché nessuno può esaurire le sur-determinazioni e le in-determinazioni degli stratagemmi apocalittici. E soprattutto perché il motivo o la motivazione etico-politica di questi stratagemmi non è mai riducibile a qualcosa di semplice”. Didi-Huberman è meno “assolutorio”, dovendo infine contrapporre la “situazione oggettiva” di Walter Benjamin, al quale si deve il piccolo messianesimo poi sbocciato in apocalissi, personale e storica, negli anni 1933-1940, a quella di Pasolini a febbraio del 1975 – e successivamente di Agamben, che ha preso il testimone del poeta.
Propriamente dantesco Didi-Hubermann vuole Pasolini nell’articolo famoso sulla scomparsa delle lucciole. Nel senso di un collegamento con Canto XXXVI dell’”Inferno”, dove il villano, riposandosi al poggio una sera d’estate, “vede lucciole giù per la vallea,\ forse colà dov' e' vendemmia e ara”- E tale Dante dice lo spettacolo che gli si presenta: “Di tante fiamme tutta risplendea\ l'ottava bolgia”. Un panorama però non idilliaco, quel è nella vena di Pasolini. “Un grappolo di cinquemila lucciole producono a malapena il chiarore di un candela”, nota Didi-Hubermann irrispettoso. Di Pasolini che, il filosofo afferma, diceva: “Darei l’intera Montedison per una lucciola” – grave e forse ridicolo. Ma poi nei fa una figurazione del mondo buono in opposizione al cattivo, quello del neocapitalismo – checché esso sia: “uomini-lucciole”, “parole-lucciole”, “immagini-lucciole”, “saperi-lucciole”.
Letteratura – È attività di relazione – non c’è autore senza il suo critico. “Privata” più di ogni altra attività, individualistica e quasi segreta, vive in quanto opera pubblica: riconosciuta, discussa, condivisa.
letterautore@antiit.eu
martedì 10 aprile 2012
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