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Anosognosia – I lettori del “Corriere della sera” che si interessano degli “Esteri” l’hanno trovato mercoledì 11 in un articolo di Lévy contro Grass: “Una sorta di anosognosia intellettuale fa cadere tutte le dighe che di solito trattengono lo scatenamento dell’ignominia”.
Biografia – Genera mostri: lo scrittore si rifà sul personaggio.
Con una differenza geoculturale: non nelle biografie inglesi, sì in quelle italiane, da Padellaro a Citati, e in quelle francesi, con l’eccezione di Troyat, che si vogliono narrative nel senso dell’autore e non del personaggio, quindi immaginarie: fantastiche, critiche, vendicative. Nonché in quelle americane, solitamente profilate, per dire una cosa. Come Citati “torce” Leopardi. Che è ben vivo, ma non era uomo (poeta) di eccessi. Mentre è misurato Pasolini di Siciliano, anche quello di Nico Naldini, che invece era eccessivo.
Dante – Per Carlo Fruttero e i suoi compagni di letture in campagna negli anni dello sfollamento era “molto divertente” – Hemingway “un po’ un salame”, Zola “una ciula completa”.
C’è un Dante islamico. Non poteva mancare, e potrebbe essere il Dante prevedibile del prossimo futuro, se non del settimo centenario. Non va perciò trascurato: è parte del “politicamente corretto” e sarà parte della nuova demografia.
Si volle Dante improvvisamente islamico per il sesto centenario, nel 1921, a ridosso del revival ispanoislamista del primo Novecento, sancito nel 1919 dal sacerdote, filologo e arabista spagnolo Miguel Asίn Palacios con l’“Escatologia islamica nella Divina Commedia”. Poi, nel secondo dopoguerra, lo si rivolle islamico per aver “copiato” il “Liber Scalae Machometi” detto “Libro della Scala”, un testo arabo del secolo ottavo di cui non si ha l’originale, solo l’adattamento castigliano, dal quale, nel 1264, è stato ricavato uno in latino. Alla Scuola di Toledo, del re di Spagna Alfonso X il Savio. Infine, a fine Novecento, Dante è tornato brevemente islamico con la traduzione di Asίn Palacios e con alcuni studi di Maria Corti improvvisata arabista. Che vuole Dante ispano-arabo sulla traccia avanzata nel 1949 da Enrico Cerulli, editore del “Libro della Scala”: che Dante può averne saputo da Brunetto, esiliato, fra i tanti altri posti, anche a Toledo. Nonché siculo-arabo, per i tanti influssi della corte palermitana di Federico II. E quindi, se due metà fanno uno, integralmente islamico. Cerulli era glottologo
insuperato dell’altopiano etiopico, con migliaia di pagine sulla lingua e la
storia di Harrar, del Sidama, dell’Omi, dei Giangerò e dei Caffi.
Alla pubblicazione del libro di Asίn Palacios gli islamisti maggiori (riflessivi, sereni, meno primatisti) se ne tennero lontani. Corbin tacendo. Massignon riconoscendo l’originalità dell’idea, le fonti islamiche di Dante, ma non trovandoci appigli. Bausani ha prodotto, non ironicamente?, un “Sanā’ī precursore di Dante” - Sanā’ī, morto nel 1130-31 è “il primo grande poeta del sufismo iranico” (Gianroberto Scarcia), autore di vasti poemi epico-religiosi: “il suo «Giardino della Verità», grande poema ora scolastico ora estatico, fu denominato «Corano persiano»”. Ma sull’essenziale, alla fine, anche Asίn Palacios concordava: “Dante, come ogni artista di talento, senza preoccuparsi dell’intenzione dei suoi modelli, senza lasciarsi opprimere dai vincoli dei suoi prototipi, poté trasformarli liberamente per adattarli alla propria intenzione personale e al proprio ideale”, alla propria poesia.
Maria Corti, invece, in “Percorsi del’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante”, del 1993, e nella raccolta postuma “Scritti su Dante e Cavalcanti”, tende a farne un punto certo. Profondendosi in un duplice impegno: ampliare i punti di contatto della “Commedia” col “Libro”, trovarci analogie strutturali, scoprire nel “Convivio” e nel “De Vulgari Eloquentita” tracce dell’aristotelica “Etica nicomachea” nella traduzione di Toledo. Corti vuole Dante maomettano in modo diretto, non solo per collegamenti “interdiscorsivi”, casuali, accidentali, né “intertestuali”, per narrazioni di terzi o letture di digesti, ma proprio come “fonte diretta”. Per aver letto e gustato il “Libro della Scala”. Per collegamenti formali estesi, non casuali e non tematici.
A differenza di quelli dello spagnolo Asín Palacios, i riferimenti di Maria Corti sono arabi piuttosto che islamici. Arabo è il divieto a Ulisse di varcare le colonne d’Ercole, che non c’è nella tradizione classica ed emerge appunto con i geografi arabi di Spagna. E araba può essere, in nessun caso islamica, una gigantesca statua di Maometto costruita sullo stretto di Gibilterra, “secondo alcuni geografi arabi”, e di cui la filologa favoleggia: il Profeta alto e barbuto in ottone, con un mantello dorato, su un lastrone di marmo bianco, il braccio sinistro proteso in un gesto per significare “di qua non si passa”, al dire dei geografi secondo Maria Corti. La riprova? È in un testo coevo di Dante, intitolato “Mare amoroso”, che Contini ha incluso nella raccolta “Poeti del Duecento”: “E mai non finirei d’andar per mare\ Infin ch’i’ mi vedrei oltre quel braccio\ Che fie chiamato il braccio di Saufi\ C’ha scritto in su la man «Nimo ci passi»”.
Come riduttivismo non è male. Ma è forse è un segno d’amore, di una filologa che voleva essere meridionale, mediterranea. Dapprima del Nord Mediterraneo, con “L’ora di tutti”, i racconti del 1962 che celebrano la resistenza di Otranto e del Salento ai turchi, premiati l’anno dopo in Calabria, a Crotone. Alla fine avrà voluto essere mediterranea del Sud? Araba più che islamica: “Il Libro della Scala di Maometto” è sospetto all’ortodossia islamica.
Giallo – M.T.Conard, “Platone suona sempre due volte. La filosofia del noir”, lo riporta a Schopenhauer e Freud, e anche a Socrate, Platone, Aristotele, perché tutto è necessario per “spiegare il lato oscuro”. Eccitato forse dalla passione di Frank e Cora invincibile de “Il postino suona sempre due volte”. Anzi, il Marlowe di Bogart, il Quinlan di Orson Welles, e gli svitati di “Pulp Fiction” vede modellati sul “nichilismo di Nietzsche”, sull’“esistenzialismo di Sartre”. Non è il solo. Oreste Del Buono evocava Edipo, i tragici greci. E perché non Shakespeare, commedie comprese? O la Bibbia, Dio in persona. Mentre il giallo, anche con lo spessore del “noir”, si vuole semplice e diretto, complesso giusto nella trama. Per l’invincibile universale attrazione dell’indovinello, dell’escogitazione – anche tra gli animi semplici, senza filosofia. La stessa che ha fatto per millenni la fortuna di aruspici e sacerdoti. Che caratterizza l’essere umano più del riso, o del pianto.
Lingua – Leopardi, dice Citati nella biografia, “amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile”. Era?
Ma è vero che ogni lingua è molte e una. Tanto più che lo stole non è la lingua, ma un uso della lingua. Leopardi era gnomico, e “usava” a questo fine bene l’italiano – Citati è immaginifico, e “usa” a questo fine lo stesso italiano di Leopardi.
Proust – “La memoria è quasi imitatrice di se stessa”, G.Leopardi, “Zibaldone”, 1452. C’è il cultore della materia all’università, politicamente corretto, per non chiamarlo più assistente. Proust è cultore della memoria, per non dirlo onanista, formidabile.
letterautore@antiit.eu
sabato 21 aprile 2012
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