Il riflusso è stato rapido dopo la primavera araba, in Nord Africa e in Medio Oriente, finita ovunque in regimi islamici, più o meno radicali, ma tutti retrogradi, nella gestione pubblica, dei diritti, dell’economia. Ma non ha colto di sorpresa le diplomazie occidentali, che lo scontavano. Sulla base di un revival islamico noto ormai da un trentennio, dall’avvento del khomeinismo in Iran, per essere reazionario, sciovinista, oscurantista.
Il caso da manuale che si porta è l’Afghanistan. Che, dopo un decennio di guerra di liberazione degli eserciti occidentali sotto l’egida dell’Onu, ritorna ai Talebani, a un regime cioè dichiaratamente oscurantista e reazionario, chiuso anche ai suoi vicini islamici. Ma l’Afghanistan, per le diplomazie, fa caso a sé: è un paese ritenuto immodernizzabile, troppo vasto, troppo poco popolato, senza un’economia, tribalizzato. Il caso da manuale è l’Iran. Che ha una storia, una società, e una classe dirigente, ma nei trent’anni di khomeinismo si è comparativamente immiserito rispetto al regime pur non eccellente dello scià. Isolato nella regione e nel mondo e, malgrado la probabile atomica, senza alcun ruolo: non diplomatico, non militare, non politico, e nemmeno (in Iraq) religioso.
La stessa involuzione si attende in Nord Africa. Qui, come in Iraq, i regimi dittatoriali erano se non altro modernizzanti, e costruivano società complesse: urbane, produttive, attive. Il tempo in questi mesi si è fermato, in Tunisia, in Egitto, in Libia, ma se ne dà per scontato un ritorno al passato: a società chiuse e inerti. L’islam, che nella sua lunga tradizione ha avuto molti fermenti innovativi, è in questa fase chiuso e distruttivo. L’Algeria, che nel Nord Africa era avviata a uno standard di vita europeo, seppure delle regioni ex sovietiche, ha sofferto a causa dell’integralismo del Gia, il fronte islamico, e della conseguente guerra civile quindici anni fa un ritardo che ora appare irrecuperabile.
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