“Questo libro è stato sognato su altri libri”, quelli della madre Irène, scrittrice. Inizia così i “ringraziamenti” finali Elisabeth Gille, in questa biografia sognata della madre, in forma di autobiografia. Vista in particolare attraverso gli occhi dei suoi editori, Albin Michel e Robert Esménard, un punto d’osservazione che Elisabeth privilegiava, ella stessa redattrice tra le più apprezzate dell’editoria parigina. E probabilmente attraverso i ricordi della sorella maggiore Denise, che aveva tredici anni quando la madre fu portata a morire - Elisabeth ne aveva solo cinque.
“Le Mirador” è la vera biografia della scrittrice, più di quella pure documentatissima di Lienhardt e Philipponnat, degli affetti e le repulsioni. Del (non) rapporto con la Russia, dell’avversione reciproca con la madre, del padre amato, dell’ebraismo rifiutato (assimilazione), seppure con un probabile riflesso traumatico ex post, dell’esilarazione ingannevole di Parigi, del presunto coinvolgimento con la destra francese (tra le due guerre le riviste, d’informazione e culturali, erano in Francia di destra: vivaci, avvolgenti, innovative - aperte a una scrittrice ebrea russa appena immigrata). Ma a tratti prolissa. E, curiosamente, vera in forma rovesciata, benché scritta in modo convincente - forse per il proprio modo d’essere e di vedere di Elisabeth cinquant’anni dopo i fatti. “Mia madre era russa”, taglierà corto in un’intervista con René de Ceccaty per “Il Messaggero” nel 1992, a libro licenziato, “con tutta le leggenda che ciò implica”. La prima parte della sua opera, fino a “I cani e i lupi”, è “russa”, dice, ed è “molto migliore” della seconda – ancora non era uscita “Suite francese”, messa alla luce dalla sorella Denise dopo la morte di Elisabeth. Mentre Irène non lo era: ha vissuto poco in Russia, non ne aveva buon ricordo, e benché lettrice di Gogol e biografa di Cechov se ne teneva distante. La stessa Elisabeth lo mette in risalto: alle figlie “si rifiutò” d’insegnare il russo, “aveva chiuso le porte”.
Analogo il rovesciamento con l’ebraismo: Elisabeth lo sottolinea di sua madre come la madre lo sottolineava di tanti suoi personaggi. Al punto da legarne il personaggio più famoso, David Golder, al Menachem-Mendl di Sholem Aleichem. Mentre Irène non conosceva la letteratura yiddisch, e non amava le radici, da cosmopolita sradicata: l’aspetto più definito di Irène, condiviso col marito, è l’insouciance, e l’allegra identificazione con la parte migliore della Francia.
Resta il non detto, che l’iperfrancese Elisabeth forse non concepiva nemmeno. Irène Némirovsky fu arrestata e subito mandata a Auschwitz agli inizi della persecuzione, a metà 1942, col treno numero 6, su denuncia degli ambienti editoriali. Se non letterari, di qualche collega scrittore cioè. I tedeschi non erano convinti. Suo marito, dichiaratamente ebreo, di nome, di famiglia praticante, iscritta alla comunità, verrà perseguito tre mesi più tardi. Delle figlie verrà favorito l’allontanamento in convento. La discriminazione in Francia non era automatica, non c’era un registro degli ebrei, anche se recalcitranti, o cristianizzati come Irène. Nel 1943, in piena Parigi, Elsa Triolet pubblicava con primario editore, Denoël, col suo nome, il suo primo romanzo, benché ebrea e russa di origine, “Le cheval blanc”, col quale concorreva al premio Goncourt.
Elisabeth lo sa. Il nome della madre “non figurava nella prima lista Otto dei libri messi all’indice dalle autorità tedesche”, chiarisce a de Ceccaty. E: “Il governo di Vichy è andato al di là di ciò che esigevano i tedeschi”. Ma caratteristicamente rovescia anche questo tema, grandi patenti attribuendo all’editore di Irèn, Albin Michel. Mentre la colpa addebita alla madre, per “incoscienza politica”. Anzi, peggio: “Il suo accecamento”, dice, “era criminale”. E alla chiesa, che pure ha salvato lei e la sorella.
Elisabeth Gille, Mirador. Irène Némovsky, mia madre, Fazi, pp. 369 € 18
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