Il Politecnico di Milano rinuncia all’italiano come lingua d’insegnamento, passando all’inglese. Che sarà maccheronico, ma non più dei tanti pidgin english che corrono il mondo. Ma è l’europeismo o internazionalizzazione come li intende Milano, speculari al leghismo, a vista corta cioè. Ed è un modo come un altro per scardinare il famoso ingegnere italiano, quello che, in parallelo con l’artigiano dalle mani prensili, ha creato l’Italia postbellica. La laurea breve non è bastata per ridurlo a un modesto calcolatore di pesi e spinte, Milano gli taglia la lingua.
Negli anni 1970-1980 le imprese italiane all’estero fecero ampio ricorso, poiché gli espatriati italiani accrescevano le pretese e i costi, a ingegneri indiani, filippini, brasiliani. Che non avevano tante pretese - al costo di un ingegnere italiano espatriato si potevano avere tre asiatici o latinoamericani - e sapevano l’inglese. Ma cominciarono a perdere le gare e gli appalti: di tanto migliorarono l’inglese della corrispondenza e delle presentazioni, di tanto ne indebolirono la capacità di progettazione. Avevano buoni esecutori.
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