Lieta celebrazione, riuscita in ogni parola (più leggibile della monografia maggiore di dieci anni fa, “Colette. Vita di una donna”, che completava la trilogia kristeviana di donne eccezionali, dopo Hannah Arendt e Melanie Klein), di una scrittrice nella quale la psicanalista del genio si identifica. Benché alle femministe minacciasse “l’harem e la frusta”. Per la libertà del corpo e della mente, e le sue rivolte da santa prostituta - ma più per l’“impudenza nell’enunciare” (© Hegel, a proposito del “Nipote di Rameau”) che per trasgressioni o eccessi (“più birichina che perversa”, © Apollinaire): “uno dei geni femminili del XX secolo”. Per “la forza, la magia e la polifonia della scrittura”, scrittrice “golosa della lingua madre”. Esperta d’aromi, cucine sapide, sapori di erbe e frutti, ognuno nel suo proprio territorio (“antiglobal”), oltre che di gatti e mariti, e della Francia sotterranea, nelle pieghe delle campagne remote. Specialista di “un solo tempo, quello dello sbocciare”, che è però il tempo lungo della vita – “la morte”, dirà nel 1954, alla prima de “Il grano in erba” poco prima di morire, “non è altro che una banale disfatta”. Tanto più apprezzabile nel secolo, il Novecento, “della guerra e della follia”.
Julia Kristeva, Colette un genio femminile, ObarraO, pp.62 € 6
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