“Avevo ventidue anni, un’aria da gatta anemica, un metro e cinquantotto di capelli che in casa portavo sciolti fino i piedi, come una cascata”. Daccapo: con “la faccina a punta, le trecce che mi sferzavano i garretti”. In ritardo sulla moda: “I miei lunghi capelli, sia che me li attorcigliassi «alla Cerere» attorno alla testa, sia che li lasciassi sciolti fino all’orlo della gonna - «a fune di pozzo» come diceva Jules Renard -, mi rovinavano l’esistenza”. In un mondo remoto e anzi tradizionale, di Sido, la madre inarrivabile, cui si deve il copyright di “Minet-Chéri”, il vezzeggiativo che poi diventerà distinti personaggi di lunghi racconti, e dei fiori, gli odori, i colori – in “Duo” il viola dei tramonti. Che però è un bicchiere d’acqua nel deserto della contemporaneità - di più a chi se ne fa ardito o avanguardista, nelle sabbie mobili dell’infernale chiacchiericcio. Colette è quella del fermo immagine. Qui perfino nella vena dei giornali femminili: i primi amori, gli amori impossibili, il ritorno di fiamma dei quaranta-cinquantenni verso i quindici-ventenni. Ma, svanito il (piccolo) glamour, si rilegge con sorpresa.
I quattro racconti del “Kepì”, 1943, sono anche una coda del “Mio noviziato” sette anni prima, la vendetta su ”Monsieur Willy” appena morto, il marito “grande scrittore” di Colette a vent’anni, “un uomo calvo che a quarant’anni ne dimostrava il doppio”, grasso, barbuto, pieno di amanti (ma allora?), mallarmeano, che alla giovane moglie scrive in caratteri greci con citazioni in tedesco. In un mondo editoriale già industriale, coi “generi” e i “negri”, collaboratori a un tanto a riga, chi più, gli addetti al finissage, chi meno, quelli della sgrossatura – fu così che Willy risultò all’inizio coautore delle “Claudine” e delle “Minne”. Cattiverie che Colette si fa raccontare da Paul Masson, alias Marcel Schwob, letterato perfido e in età che le faceva compagnia a casa, malata di gelosia. Da gatta golosa in realtà, di feroce possessività. Che il racconto “La gatta”, 1933, aveva esposto e spiegato: una passione di sé che, incontrollata, distrugge. In”Duo”, il romanzo breve scritto l’estate successiva a Saint-Tropez, la “gatta” si trasfigura in “lui”, tanto bello quanto esposto senza difese, che il tormento divorerà anche fisicamente.
L’amore amato è passione coltivata, malata anche o cinica, di altra natura che le voglie della vita in sboccio – dell’adolescenza, l’età dell’attesa. Anche l’amore divorante, è in cronaca ogni giorno, e se si potesse ricavarne una statistica sarebbe probabilmente la causa più diffusa di morte, anche fisica, tra suicidi e assassini. Nell’intervista con W.Benjamin, in “Strada a senso unico”, alla proposta di ridurre con la Kollontàj il sesso a “bagattella” Colette risponde: se queste bagattelle vengono sanzionate, ogni giorno, con l’assassinio, che strumenti dobbiamo immaginare per le cose di prim’ordine, come gli affari di Stato? Niente di più scontato. Eppure funziona. Perché il personaggio – che è lei e non lui – e il tema – sottinteso - sono in effetti scabrosi. Normalmente inconfessati cioè: la donna (che) non ama.
Il tema dichiarato è “i sensi sono più intolleranti del cuore”. Ma l’adulterio è, al fondo, quello che è sempre stato, un tradimento. In tutte le forme, di più semmai nella disattenzione, o nella noia. I sensi vanno col cuore, o il cuore con i sensi. Mariolina Bongiovanni Bertini, che introduce queste edizione Marsilio di “Duo”, vi oppone “il punto di vista femminile”, della “breve avventura” fine a se stessa. Che però è più “maschile”, e non risolve. Il “punto di vista femminile” alla lettura viene fuori agghiacciante – “capriccioso”. Lei “disprezza” lui, nel mentre che lo riconosce vittima, “Michel (il marito) mi sta proprio scocciando”, è andata a letto con l’amico del marito per distrazione, così pretende, s’infuria che il marito resti in confidenza con l’amico, ha una vita “sua”, con le “sue” sorelle, nel “suo” appartamento, mantenendo estraneo tutto ciò che è del marito, la casa, le conoscenze, gli interessi, gli impone da leggere le lettere dell’amante, con i disegnini delle “altre” sue “abitudini voluttuose”, gli indica le parole “crude”. Non sappiamo cosa pensi della morte dell’“amato” marito che chiude il racconto, niente presumibilmente (lo sapremo in un altro racconto, stando alla cronologia in questa edizione di Paolo Vettore). L’amore coniugale è tema irto. Ma in “Duo” è tagliato con decisione, un sottotitolo sarebbe incontestabile: dell’amore inafferrabile, quello della donna.
Colette, Il kepì
Duo
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