Raccoglie alcuni saggi su Gramsci con la promessa scattante di un approccio libero. Ma sono le solite diatribe di Partito: perché Gramsci apprezzò il Führerprinzip (“Capo”), e perché finì per dire il fascismo durevole, o perché gli storici comunisti, Spriano in testa, si censurano. Con molto Ruggero Grieco in lungo e in largo, che benché immodesto non avrebbe mai immaginato tanto onore. L’autore delle tre lettere compromettenti per i capi comunisti in carcere, Gramsci, Terracini e Scoccimarro, nonché dell’incongruo “Appello ai fratelli in camicia nera” del 1936. Se fu o non fu spia di Mussolini - non lo fu: non era un’aquila, ma questo al vertice del Pci, allora PCd’I, non può essere.
Il lettore è seppellito sotto gli indizi. Chi ha avuto “la «trovata» di far lavorare intellettualmente Gramsci su determinati temi come la “Storia d’Europa” di Croce o il decimo canto dell’«Inferno»”? Chi, non lo sappiamo, ma ecco Gramsci scolaretto tardo. Sraffa ha copia di lettere di Gramsci che “contengono parole troppo aspre per Tania e per Carlo”. Contro Tania cioè, che le ha ricopiate? E chi è Carlo, Marx? Il filologo che si vuole detective accumula un mucchio inverecondo di indizi insignificanti - il sindacato degli investigatori dovrebbe protestare.
Ma non si ride. Come si possa criticare Spriano e gli altri storici di Partito (il “processo storiografico pilotato che caratterizzò il Pci negli ultimi anni di vita di Togliatti e negli anni subito successivi”) senza criticare il Partito non si capisce. Né ricaviamo nulla del fascismo, a parte l’ammirazione per la polizia politica - non per altro, perché aveva a “modello la macchina poliziesca sovietica”. E Gramsci resta sepolto nella tomba che Togliatti gli ha ritagliato. Una vera vita di Gramsci, sicuro best-seller, nessun autore o editore ci prova: non si può fare? Per non dire di Sraffa, personaggio per ogni aspetto ragguardevolissimo, che resta sempre intonso. Più di ogni altro testimone di Gramsci, benché abbia vissuto fino al 1983. Una icona muta. Economista molto apprezzato, da Einaudi di cui fu l’allievo, e da Keynes, che ne pubblicò i primi scritti e gli procurò gli incarichi a Cambridge, nel 1927 come professore, poi, riluttando Sraffa a insegnare, come bibliotecario. Dopo essere stato giovane professore alle università di Perugia e Cagliari. Logico di notevole capacità, interlocutore privilegiato per più anni di Wittgenstein. Investitore di notevole fiuto e fortuna. L’aneddoto più celebre che lo concerne è che si arricchì con le obbligazioni giapponesi nel 1945, che trovava praticamente regalate sul mercato, forse comprate dopo Hiroshima, forse prima, ma nella certezza che Tokyo le avrebbe onorate. Un uomo per più aspetti geniale. Reciso nelle sue decisioni – insofferenze, preferenze: a Cambridge è ricordato per questo. Ma semplice e costante tutore finanziario di Gramsci, per le modestissime esigenze del carcerato, libri soprattutto. Col quale non era in rapporti di amicizia. Nonché intermediario diligente (rutiniero, preciso) di Gramsci con Togliatti, che non conosceva, e con la Terza Internazionale a Mosca. Dal 1924 membro coperto del Pcd’I, benché in rapporti familiari e personali di amicizia con Turati e i socialisti allievi di Einaudi, Nello Rosselli, Raffaele Mattioli.
Canfora è stato a lungo convinto e polemico difensore della buona fede di Grieco. Come tale è ricordato da Lo Piparo, nei “Due carceri”, p.22, libro uscito a fine gennaio, Ora invece, all’improvviso, lo rappresenta quale spia fascista. Ma ancora non fa il secondo, necessario, passo che Lo Piparo ha fatto. Grieco ha scritto a Gramsci, Terracini e Scoccimarro, ma a Gransci in modo da comprometterlo e aggravarne la posizione processuale. Gramsci se ne lamenta più volte. Parlando con la cognata Tania, e scrivendole, dice che “l’atto scellerato” può essere stato “una leggerezza irresponsabile”. Ma aggiunge: “Può darsi l’uno e l’altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere”. Sraffa, parlandone con Tania dopo la morte di Gramsci, spiega: “Gramsci considerava Togliatti colpevole della provocazione”. Non sono parole a caso, Sraffa è sempre calcolato, né lievi.
Si tende, da parte
dei “vecchi comunisti”, guardiani dell’ortodossia (“la storia del Parito gloriosa”),
a utilizzare la corrispondenza fra i massimi dirigenti, in regime di clandestinità,
come fosse un banale scambio tra conoscenti, sul più e il meno. Se Grieco ha
scritto quello che ha scritto, in forma solenne, con passaggio cioè della sua
missiva via Mosca, Togliatti non ne era all’oscuro. Togliatti, dunque: In una
nota biografica scritta per il Comintern nel 1932, riesce a fare la storia del
partito nei primi cinque anni, fino al 1926, senza mai citare Gramsci… - cosa
peraltro da tempo nota, portata alla luce da Aldo Natoli, quindici anni fa,
nelle note alle “Lettere” Gramsci-Tania Schucht. Canfora invece si vuole
togliattiano integrale. Da storico? Da filologo?
Lo scatto del paziente e oculato topo d’archivio, beffardo eversore del conformismo, riemerge nella vera storia di Ezio Taddei, un cialtrone che incantò il Pci. Un delinquente comune, creato politicamente dall’Ovra per demolire il ricordo di Gramsci. Ma è avventuriero mediocre, fece anche pochi danni. La vera storia di Taddei è quella del credito che il Partito gli assicurò. Tre biografi illustri tra il 1958 e ancora il 2004, lirici: Giansiro Ferrata, Domenico Javarone, Massimo Novelli. Il credito antigramsciano e gli elogi continuati di Ambrogio Donini, che pure a New York aveva accolto Taddei per quello che era, come un fascista. L’elogio commosso in morte, nel 1956, di Ingrao, su “L’Unità” che dirigeva. L’entrata nei “Narratori contemporanei” Einaudi tra i primi nel 1946 – “Taddei arriva all’Einaudi prima di Gramsci” (questo è vero Canfora). Col romanzo “Rotaia”, titolo sovietico (questa a Canfora è mancata), “su cui profonde immediati elogi, paragonando Taddei a Čechov, Italo Calvino su «L’Unità» di Torino”. Mentre, Canfora perfido, “Vita e pensiero”, il mensile cattolico, “scriverà icasticamente: «non c’è come la stupidità che scoraggi»”. Fino a “Vie Nuove”, il rotocalco di Partito, che per i vent’anni dalla morte, nel 1975, lo celebra come una vittima preventiva , nel 1945, della caccia alla streghe maccarthysta negli Usa, potenza dell’autoinganno.
Una galleria di ridicolaggini che però rimanda mesti al quesito: e il Partito? Poiché il “provocatore perfetto” era perfettamente conosciuto per tale, in lunghi dettagliati ritratti dei giornali di Partito che lo stesso Canfora ha cura di allegare, “Lo Stato operaio” a Parigi nel 1938, “L’Unità del popolo” a New York nel 1941. O bisogna immaginare lo stesso Canfora “provocatore”? Magari contro la storia indiziaria.Luciano Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno, pp. 304 € 14
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