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mercoledì 23 maggio 2012

Il mondo com'è - 95

astolfo

Destra-sinistra – L’ultima entrata è Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale francese, gemellato in Italia con La Destra di Storace. “Il Fronte Nazionale ha una vocazione di sinistra”, titola “Le Nouvel Observateur”, settimanale di sinistra. Soprattutto sulle questioni della “identità” nazionale. Dopo che Marine Le Pen ha raccolto alle elezioni presidenziali il voto operaio e piccolo borghese, delle periferie e dei centri di campagna in abbandono. Giovanili in gran parte e attivi.

Dipendenza – L’addiction sarà il marchio di questa epoca di liberazione. Una ricerca sulla dipendenza dell’Inserm, l’Istituto nazionale francese della sanità e della ricerca medica, ha prodotto questi dati, secondo criteri conservativi (su una popolazione analoga a quella italiana, 61 milioni di residenti):
Alcol. Due milioni di dipendenti, 35 mila decessi l’anno.
Droghe. Almeno 230 mila consumatori abituali. Trecento decessi annui per overdose.
Internet e smarthphone. Un 6 per cento si classifica ciberdipendente. Il 22 per cento è “nomofobo” – non può staccare per più di una giornata.
Scommesse. Seicentomila “giocatori eccessivi” ( più di 1.500 euro l’anno puntati su lotto, scommesse, gratta e vinci). Duecentomila giocatori compulsivi online.
Tranquillanti. Poco più di 130 milioni di confezioni consumate nel 2010. Il 35 per cento dei consumatori ne sono dipendenti.
Fumo. Fuma il 30 per cento della popolazione tra i 18 e i 75 anni. Con 73 mila morti l’anno.
Sesso. La dipendenza è stimata fra il 3 e il 6 per cento. Per l’86 per cento uomini.

Razzismo – Se ne fa colpa a Gobineau che invece, alla sommatoria, era contro. Prima si diceva che le donne nobili a Venezia fossero una razza a parte. Lo disse il Baffo, che ne apprezzava scurrile le grazie, e Kant la bevve, la registra nella “Antropologia”. E che le duegne di Tahiti fossero più grandi degli uomini. Questa sarebbe piaciuta al cavaliere di Brantôme, aedo delle donne abbondanti. Ma fra Nord e Sud, anche fra Est e Ovest, la cultura a lungo è stata fa-miliare, una partenogenesi da contatto e contiguità. Gli Eraclidi finivano in convento, nella storie di Taide la cortigiana, là dove Alessandro Magno aveva dormito – favolelli medievali, ma di un genere che non scandalizzava. Né il nero faceva paura né il semita.
L’umanità su basi zoologiche, come “l’Osservatore Romano” la bollò nei coraggiosi anni Trenta, fu tema del Settecento, che volle farne una scienza: i neri non lavorano, sposereste una nera, i neri puzzano, i neri non hanno anima (Montesquieu, “Lo spirito delle leggi”: “Non si può pensare che Dio, che è un essere molto saggio, abbia messo un’anima, soprattutto un’anima buona, in un essere tutto nero”), per non dire degli ebrei, impossibile rifare Voltaire, tutte queste domande le mise a punto il secolo dei Lumi, compreso Kant, malgrado la nota prudenza - Kant non sognava, e non sudava, ci stava bene attento, così pure a sputare e, pare, a eiaculare, per non sprecare energie.
La scienza veniva fornita dall’università Georgia Augusta, nel 1734 fondata da Giorgio II, Elettore di Hannover e Re d’Inghilterra, per fare la classifica delle razze. Primi i sassoni, i popoli del re. Contro di essa si batterà a vuoto il conte Gobineau, “geologo morale” di una “geografia umana profondamente varia”. Anticipatore del darwinismo, che è misgenetista e non esclusivo, selettivo ma non gerarchico - è descrittivo. Prendendo infine atto che “l’etnologia ha bisogno di sfogarsi prima di divenire seria”. Il conte, democratico e anzi progressista, ambiva alla storia del particolare, “in quei giorni d’infantile passione per l’uguaglianza” - mai appassionata abbastanza e purtroppo sempre infantile, anche presso i detrattori.

Guerra giusta – La Libia è venuta dopo la Serbia, e sullo sfondo ci sono quasi dieci anni di Afghanistan. Due paesi confinanti (allora la Serbia era unita al Montenegro), con i quali l’Italia non aveva nessun contrasto, e anzi relazioni specialmente amichevoli, e ai quali ha fatto guerra. E uno remoto, conosciuto più che altro nei racconti di Kipling. Tre guerre che si vogliono giuste, per liberare i due paesi confinanti dai loro governanti, e l’Afghanistan dalla sua religione. Ma pur sempre guerre, questo termine non è stato camuffato nella generale mimetizzazione. D’Alema, che inventò nel 1999 la famosa furbata della “difesa attiva”, per sottrarre il Kossovo alla Serbia e darlo a un mafioso, non obietterebbe. E della guerra più disonorevole, i bombardamenti aerei. Necessariamente contro la popolazione – che le bombe siano “intelligenti”, cioè tralascino i civili, ormai l’hanno tolto dalla propaganda.

Entrambe le guerre guerreggiate, in Libia e Serbia, hanno a promotori e patrocinatori due personalità eminenti del Pci. Quella alla Serbia Massimo D’Alema, quella alla Libia Giorgio Napolitano. E in entrambi i casi il Nemico era un personaggio che il Pci aveva specialmente apprezzato e sostenuto, Milosevic e Gheddafi.

C.Schmitt l’aveva già detto nel “Leviatano”, p. 84 – sapeva dell’ipocrisia in agguato? “La guerra di stati non è né giusta né ingiusta. È un affare di Stato, e in quanto tale non le occorre essere giusta”. La “buona causa” è “un concetto discriminatorio di guerra (che) trasforma la guerra di Stati in una guerra civile internazionale”. Cioè una guerra di tutti contri tutti. Una guerra “totale”.
“Si è detto”, aggiunge Schmitt, p. 87, “che possono ben esistere guerre giuste, ma non eserciti giusti”. Non senza ragione sembra implicare il filosofo del diritto: “Quando in chiusura del «Principe» Machiavelli afferma essere giusta la guerra, se è necessaria per l’Italia, e umane («pietose») le armi, se in esse riposa l’ultima speranza, tutto ciò suona ancora umanissimo a paragone della completa oggettività delle grandi macchine il cui perfezionamento si è realizzato in modo esclusivamente tecnico”. Macchine belliche statuali.

Stato – “Ogni Stato è una dittatura”. Gramsci lo dice (“Capo”, in “Ordine Nuovo” dell’1 marzo 1924) in lode di Lenin ma è vero: non si disobbedisce allo Stato – la Bestia, leviatano o behemot che sia. Che però, se ha una componente stabile, istituzionale, ne ha anche una variabile, politica. Che lo modula e l’attenua – lo flessibilizza. Nei regimi costituzionali in senso democratico.
Non è azzardato vedere nell’assolutezza dell’enunciato di Gramsci la radice della debolezza del governo politico in Italia nella storia della Repubblica. Una delle radici, un’altra, più insidiosa, è la diffidenza confessionale verso l’autonomia del politico. La diffidenza, l’esproprio, l’uso privato della funzione di governo. Che finisce per operare come una reazione inversa, o una nemesi: contro lo Stato l’anarchismo diventa compiaciuta (privilegiata) forma di resistenza, ma con l’effetto di “liberare” lo Stato molosso, assolutista, libero ora dal condizionamento della politica. Contro cui i custodi del patto, la giustizia, l’opinione, si battono senza esito – ammesso che si battano e non facciamo ammuìna, da spalla del mattatore.

“Lo Stato è la società civile”, dice il giudice Falcone nella famosa trasmissione tv del 26 settembre 1991 in memoria di Libero Grassi, a “reti unificate”, tra il Maurizio Costanzo Show di Mediaset e “Samarcanda” (Michele Santoro) della Rai. Pochi mesi prima della strage. Falcone lo dice civilmente, all’avvocato Alfredo Galasso, esponente della Rete di Leoluca Orlando, che lo insulta: “Lo Stato è della società civile nella Costituzione”.
È un dialogo che Santoro ha tagliato riproponendo lo show in “Servizio Pubblico” due mesi fa. Privilegiando invece l’attacco dell’allora giovane Dc, futuro presidente della Sicilia, Totò Cuffaro. Ora condannato per mafia ma allora credibile - creduto - accusatore, invitato come tale.

astolfo@antiit.eu

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