“Il silenzio dei sardi è, sulle prime, un po’ indisponente”. Marcia allegro lo scrittore-psichiatra, medico di guerra fra le trincee del Carso. Il repertorio è sempre deamicisiano, “L’attendente sardo”, “Il caporale poeta”, muratore calabrese, “Il disertore”, ma lo spirito è diverso, niente inviti alle lacrime. E niente indulgenze. Con la guerra e coi suoi capi. Senza tacere anzi le vergogne, unico testimone nell’enorme letteratura sulla grande guerra della decimazione della Brigata Catanzaro, ordinata da Cadorna e eseguita dai carabinieri. Il gusto dell’inedito si rafforza all’occasionale lettura tra le annuali rituali celebrazioni della battaglia del Piave, “il 24 maggio”.
Le decimazioni che tanto orrore ancora suscitano nell’occupazione tedesca dell’Italia, furono sperimentate nel 1917 dai carabinieri. Contro la Brigata Catanzaro che sul Carso s’era rivoltata dopo dieci campagne di fila in prima linea: presero una trentina di fanti a caso e li fucilarono. Fu, è, un fatto topico della Grande Guerra, del quale però non si parla. Ne accenna commosso D’Annunzio nei “Taccuini”, giusto lui contro il quale, nell’adiacente suo “campo di aviazione”, i rivoltosi avevano tentato di dirigersi, e basta. Questo libro è un’eccezione: la testimonianza di Tumiati fa aggio sulla sua pur altissima capacità fabulatoria.
“Solo da poco”, dice l’editore, la vicenda è stata ricostruita. Nel 2007, da due giovani storici locali, Irene Guerrini e Marco Pluviano. In realtà, la sintesi che lo stesso editore fa della ricerca in premessa al volume chiarisce poco. Sui motivi della rivolta, e sul suo svolgimento. Solo l’esito è chiaro, non potendosi sottacere la relazione di Cadorna: “La rivolta è stata sanguinosamente repressa con la fucilazione di 28 militari e con la denunzia di altri 123 al Tribunale di guerra”. La Brigata Catanzaro, benché fosse ovunque nel Carso, è praticamente cancellata dalle storie militari.
Un altro saggio su questo fatto per la verità c’è, seppure anch’esso locale e eccezionale: su “Calabria Sconosciuta” n. 131 di fine 2011. Dove si spiegano anche i fatti. La Brigata Catanzaro aveva protestato a fine maggio 1917, dopo la decima grande offensiva. Era una protesta vocale e la cosa venne taciuta dai comandanti. La notte del 15 luglio, all’ordine di partenza in prima linea per l’ennesima campagna dell’Isonzo, i due reggimenti della Brigata, il 141mo e il 142mo, si ribellarono, con urla e tiri di mitragliatrice. Tre militari morirono, tra essi un ufficiale e un sottufficiale, e una ventina furono feriti. Dopo circa sei ora la rivolta si spense, verso le quattro del mattino. Si preparava l’XIma battaglia carsica dell’Isonzo, detta di Bainsizza (la XIIma sarà detta di Caporetto). La Brigata aveva ininterrottamente, per due anni, partecipato alle dieci precedenti. A Castelnuovo, Bosco Cappuccio, Oslavia, sul monte Mosciagh, durissimo, sul Cengio, sul San Michele, a Nad Logen, a Nova Vas, sul Nad Bregom e a Hudi Log. Non per punizione, anzi con grandi elogi e medaglie al merito. Ogni campagna implicava tre-quattro settimane di prima linea. Dopo Caporetto la Brigata Catanzaro combatté sul Pria Forà, in Val d'Astico e in Val d'Astico e in Val Posina. Sempre con impegno, e anche con successo: un mese dopo la rivolta la Brigata Catanzaro veniva nuovamente elogiata.
Nella terza battaglia, dal 18 settembre al 4 novembre 1915, la Brigata aveva perduto più della metà degli effettivi, 4.348 uomini (feriti 2.579, gli altri morti). Nel 1916 aveva subito perdite in varie battaglie, e in due era stata di nuovo annientata. In quella per Gorizia, nella seconda parte dell’attacco, nel mese d’agosto, aveva perso 3.496 uomini (2.484 feriti). Nelle tre battaglie successive era restata in linea dal 16 settembre al 7 novembre, perdendo i due terzi degli effettivi: 3.434 uomini (2.749 feriti). Secondo una remota pubblicazione dell’Ussme, l’Ufficio storico della stato maggiore dell’esercito, “Brigate di fanteria” (1928), vol. 6, p. 63, la Brigata Catanzaro ebbe nei primi due anni e mezzo della guerra (le perdite del 1918 sono dette irrisorie), 162 ufficiali morti e 281 feriti gravemente, 4.540 soldati morti, 12.500 feriti. Ma questo è il rovescio della medaglia, dei cafoni immolati.
Tumiati, che si trovò nel pieno della sedizione e della decimazione, ne fa nel racconto “Errori” una rappresentazione amareggiata. I fucilandi vengono scelti a caso, senza colpe specifiche. A lui, che ardisce difendere i portaferiti, avendoli visti al lavoro tutta la notte, viene opposto uno scaricabarile. Fino al generale, che lo tratta da intruso: “La notizia disturba, evidentemente, i giudici si guardano l’un l’altro seccati”. Il “giudizio” è veloce. Questo lo ha già scritto Hemingway in “Addio alle armi” , il romanzo della guerra, anche lui in difesa dei portaferiti. Lo ha scritto anche in dettaglio, ma senza averlo vissuto. Tumiati è testimone oculare: del “giudizio” sommario si conferma subito mentre si allontana, sentendo urlare dall’interno della baracca: “I trenta condannati avevano compreso d’un tratto la loro sorte e, dopo un attimo di stupore incredulo, avevano gridato. Che altro potevano fare?”. Forse per la fretta non ci sono agli atti i nomi di chi ha preso le decisioni e su quali criteri: “In un’ora il campo fu levato”, continua il racconto, “e i battaglioni, incolonnati, musica in testa, ritornavano in linea. Tararilla, tararà. Tararilla, tararà”. Il racconto angosciato degli eventi Tumiati fa precedere da uno ilare su un caporale calabrese in forza alla Brigata, giovane muratore biondo con “l’estro vivo del cantastorie”, che scriveva e gli portava da leggere per svagarsi poemi che ancora lo commuovono. Esca alla testimonianza: “La Brigata Catanzaro fu certamente una delle più gloriose e delle più provate nella grande guerra. Il suo proverbiale eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra carsica. Stremata, mutilata, consunta, risorgeva dal sangue e dalla morte con energie nuove”.
Si leggono questi brevi racconti di morte, stupidità, insolenza, umana simpatia, con sorpresa. Per essere più o meno inediti forse, proibiti dal fascismo nel 1935, pubblicati semiclandestini nel 1947, in appendice ad altro più famoso titolo, “Tetti rossi” (ora li riprendono i figli dello scrittore, Lucia e Andrea Tumiati). Per la remotezza del loro mondo, gli eventi, le esperienze. Per l’attraente impaginazione di questa edizione. Con tante foto d’epoca a mezza pagina, una presentazione dei fatti storici a opera dello stesso editore Gaspari, un itinerario storico dei luoghi e uno escursionistico, i due saggi biografici di Arnaldo Cherubini e Carlo Cordiè del vecchio volume di ricordi redatto dai figli nel 1985 per il centenario della nascita, “Corrado Tumiati, medico e scrittore”, e un’invogliante bibliografia di Tumiati. Ma più per essere sopravvissuti, incongrui, al rifiuto.
La lettura è doppiamente confortante per essere proposta da Udine, dove l’italiano non veneto e non settentrionale si trova da troppo tempo ormai fuori posto. Che stiamo qui a celebrare il Carso, che è una giogaia di ortiche, se non è anche ostile (straniera), e ha ingoiato milioni di giovani inocenti, dopo averli dilaniati in mesi e anni di trincea, è oggi portato a chiedersi stupito il visitatore, sorpreso dall’indifferenza – quando c’è benevolenza. Una reazione non balorda, se non la sola possibile. Per “liberare” mezza Slovenia, e una Trieste che stava meglio come stava e non se ne dà pace. Come conquistare o difendere la luna, che sconfigge ogni retorica del bello.
Corrado Tumiati, Zaino di sanità, Gaspari, pp. 173 ill. € 18
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