Meglio un amico, anche strambo e appestato, che una moglie bella e di successo. La prima lettura di questo inafferrabile “romanzo” è semplice. La differenza la fa la confidenza, l’identificazione totale che l’amicizia propone, anche nei contrasti e perfino nelle liti: una devozione che, per essere reciproca, è immarcescibile. A differenza dell’amore, soprattutto nel matrimonio. L’altra metà di se stessi che Platone e “Ravelstein” propongono alla questua amorosa è l’amicizia meglio della coppia. Soprattutto in quest’epoca di diritti e, nel caso specifico, di diritti femministi – la moglie che dice al marito: “Tu me lo devi”.
È anche un “romanzo” molto dialogico. Non si salta una parola, nemmeno a una seconda lettura - un interesse supportato da una traduzione impercettibile, di Vincenzo Mantovani, tanto felicemente ritesse la tecnica del racconto. Ma è una lettura solo apparentemente semplice. È un libro dell’amicizia, come se ne registrano pochi, e non più ultimamente. Bellow vi celebra Allan Bloom, l’autore de “La chiusura della mente americana” e di “Love and Friendship”, suo collega all’università di Chicago e compagno di mille stravaganze, mentre ne registra il declino e la morte di Aids, sempre eccessivo e acuto, sempre vivo. Una sorta di biografia a ruoli rovesciati: il biografato è, un po’, l’autore – nel secondo Novecento è il remake di un’altra amicizia celebre, di Montaigne e il più giovane La Boétie, morto prematuramente. E una passeggiata nella storia, personale e del Novecento, all’aperto. Presentato all’uscita nel 2000, come una sorta di pastiche e romanzo a chiave, è una storia di ammirazione e affetto e un esercizio d’intelligenza – contro tutte le storie di depressione che circondano gli ultimi anni di Bellow.
La caccia al tesoro è certo remunerativa. “Ravelstein” è Allan Bloom. “Vela” è la penultima moglie di Bellow, la fisica teorica Alexandra Ionescu Tulcea, virago inattingibile, che ingiunge il divorzio a Bellow nei giorni in cui gli morivano due fratelli, dopo un’annosa frequentazione dell’avvocato divorzista, in costanza di matrimonio, per “preparare le carte”. Il di lei grande amico a Parigi, e dello stesso Bellow, “Radu Grielescu”, è Mircea Eliade, di cui Bellow deve riconoscere che fu per vent’anni fascista e poi nazista, e sempre antisemita. Il maestro Felix Davarr è il filosofo Leo Strauss, generoso e controvertibile. “Rakhmiel Kogon” è Edward Shills, sociologo dell’intelligencja non tradotto in italiano, premio Balzan 1983, patrono di Max Weber e Mannheim nell’accademia americana. “Phil Gorman” è Paul Wolfowitz, uno dei tanti allievi di Strauss che hanno lavorato per Reagan e Bush jr. Più altri professori, grandi medici, e preti cattolici. Il tutto nella consueta bonomia di Bellow - dei due razzisti, Céline è da preferirsi a Eliade, anche se questi è un monumento: “Céline non avrebbe finto di non aver collaborato alla Soluzione Finale”, confida l’autore alla moglie mentre, avvelenato dal cibo, rischia di morire: “Non avrei scambiato l’interbase Grielescu con l’esterno destro Céline. Se la metti in termini mutuati dal baseball puoi comprenderne facilmente la follia”.
Ma si può fare a meno della caccia, la narrazione è già impegnativa di per sé. Il dialogo è solo possibile tra amici. Categoria estesa alla fine anche a una moglie, l’ultima dell’autore, devota senza essere subordinata. È attraverso il dialogo amichevole che il narratore riesce a sviluppare la vicenda. Vale quello che ne scrisse Marina Valensise sul “Foglio” all’uscita: “È la storia di un amicizia che ebbe vita effettiva e dettagliata, ma anche romanzesca”. Un viaggio nel secondo Novecento, una scampagnata più che altro, ma meditata. Di persone anche in età, ma sintonizzate e partecipi. Sugli ebrei e l’antisemitismo. A partire da questa semplice constatazione per quanto riguarda la Germania (p.173): “Sono stati gli ebrei lo strumento con cui Hitler ha conquistato il potere”. Che per fortuna della Germania non è vero, ma il fatto c’è. Sul controverso Strauss, maestro di Bloom e indirettamente di Bellow. La sorte degli ebrei, secondo Strauss, testimonia “l’assenza di redenzione” (185). Bellow non ne è sicuro – e del resto non è come dire che Hitler ha vinto? Sul conformismo soprattutto, anche politicamente corretto, contro il quale Bellow e Bloom possono infine divertirsi in allegria. Il viaggio è in un mondo appannato (p.210): “La grigia rete di astrazioni che copre il mondo per semplificarlo e spiegarlo in modo tale da costringerlo ai nostri scopi culturali è diventata il mondo che vediamo”. Per cui c’è “la necessità di avere visioni alternative, diversità di vedute”. Tanto più in America, dove il nichilismo, “come aveva affermato Ravelstein, con una frase divenuta famosa” (p.227), è “nichilismo senza l’abisso”. È avere il mal di pancia per aver mangiato troppo pop-corn.
È un racconto di malattia e morte. E un inno all’amicizia. All’amicizia come dialogo, condivisione. La ricetta della vita è perdersi e incontrarsi, la metà che ci manca è la disponibilità altrui, l’attenzione compassionevole. L’amicizia come percorso in parallelo. Senza bracci di ferro, adescamenti, lusinghe, adulazioni, prevaricazioni, neppure pedagogiche. È un andare insieme, ognuno nel suo percorso, spalla a spalla, ritrovandosi a certe tappe, con commozione ma senza esagerare. E misura, pur nella dismisura. Una forma di salvezza.
Saul Bellow, Ravelstein
giovedì 10 maggio 2012
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