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Confessione - Non è letteratura realista – non necessariamente, non come genere. Tanto più in questo Duemila, con la proliferazione elettronica, via blog e social network. Che seguono nel Novecento ai vari centri nazionali di Memoria Popolare, o archivi orali, creati a partire dagli anni 1920 a Londra e diffusi in tutto il mondo anglosassone, fino al Sud Africa e all’Australia. In Italia mediati cartaceamente, ma anch’essi assunti come in internet senza riesame critico, nell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano nell’aretino, creato a fine anni 1970 e curato da Saverio Tutino. Nel 1961 si erano pubblicate le “Autobiografie della lggera”, testi autobiografici di contadini della Bassa lombarda, a cura di Danilo Montaldi, e l’antologia “Scrittori della realtà dall’VII al XIXmo Secolo”, a cura di Pasolini, A. Bertolucci, Siciliano e altri.
È stato genere in voga nelle dittature comuniste. Specie, da ultimo, in Cina.
“La Confessione” di Artur London è servito a Costa Gavras per un film simpatico, con Montand e la Signoret, volti umani del comunismo, e la fede che resiste alla tortura. Ma dopo che a Praga lo stesso London aveva sconfessato, con la moglie in tv, il Sessantotto. Riabilitati entrambi coi carri armati russi in città – London era un comunista a suo tempo “liquidato”.
Il comando del vecchio dispotismo era “non fare”, spiega “1984”, poi nel totalitarismo è stato “fai”, e oggi è “sii”. Praga dopo l’occupazione del 1968 si può dire al terzo stadio: “L’Umanità sia il Partito”. London fu arrestato con tutti gli altri nella “purga” del ‘51, per sionismo, ma liberato nel ‘55, mentre gli altri finivano alla forca, dopo le “defenestrazioni” di cui la città era divenuta specialista. Anche i tedeschi, che lo avevano arrestato nel ‘42, non lo uccisero.
Dante - È coprolalico? È plebeo. Piero Boitani da qualche tempo, da ultimo sul “Sole 24 Ore” di domenica 22 gennaio, come già un mese prima in una lectio brevis all’Accademia dei Lincei, si diverte a illustrare, in quest’ultimo caso via Joyce, la coprolalia in Dante.
“Dante, Dante!\ Gronda m. il paradiso”, diceva già Tommaso Landolfi in esergo a “Viola di morte”, la sua raccolta di poesie.
La materia in effetti è molta, tra merde, puttane, rogne, puzze, cloache. Nella “Commedia” come nell’anteriore poesia in volgare – non c’era ancora il petrarchismo. E più per i salti improvvisi di tono. Gli ingredienti di Dante sono molti. A margine del centenario dantesco del 1965-66 Giorgio Petrocchi, l’“editore” della “Divina Commedia” infine emendata, ambientava “la scarica realistica” nella narratività: “«Il realismo dantesco ha una base prevalentemente escatologica», ma diciamo pure che ha anche basi narrative, didascaliche, moralistiche, ovvero di opportuna variatio stilistica”, di variazioni di registro”. Le “esplosioni di espressività” Petrocchi notava sopratutto nelle serie in rima. La rima non consente di “abolire” molte parole?
È una colpa? Pasolini sembra pensarlo, nello scritto su “Paragone”, dicembre 1965, a chiusura dell’anno dantesco, intitolato “La volontà di Dante a essere poeta”, in linea cioè col “discorso libero indiretto” di cui Pasolini faceva, allora, la struttura del realismo linguistico, in quanto espressione di “coscienza sociologica”. Un linguaggio e una riduzione che Petrocchi s’impegnò a contestare alcuni mesi dopo su “La Fiera letteraria”. Ma a chi a Dante rimproverò la varietà stilistica e lessicale fu Bembo, il purista. Anche il Seicento ne dileggiò unanime la lingua. Ma queste sono patenti di nobiltà.
È l’esiliato, per tutto l’Ottocento e il Novecento, secoli di esiliati politici e civili. Dell’Ottocento resta poco, “La profezia di Dante” di Byron. Del Novecento molto: i poeti irlandesi, da Joyce a Beckett a Seamus Heaney, i russi, Manldel’stam, Brodskij, gli afroamericani, Walcott, Le Roi Jones.
Fantasia – È sbagliato, sostiene il filosofo John Searle, “Creare il mondo sociale”, 2010 (p.81), appaiare il denaro e gli strumenti finanziarti ai “fenomeni naturali”, quelli che la fisica, la chimica, la biologia studiano: “La recente crisi economica ci fa vedere che essi sono prodotti che richiedono una notevole fantasia (massive fantasy)”. Detto di un fatto possente, duro, come questa crisi, cinque anni ormai di spietata guerra civile, per la sopravvivenza, sembra una precisazione ineffettuale e un poco affettata (ridicola). Se non che fantasia era anche quella di Hitler.
Il potere dell’immaginazione è incontenibile. Si connota positivamente, tra le fate e le figure pratiche, ma è sregolata.
Italiano – Il “Don Giovanni” di Mozart è l’opera più compiutamente italiana – più “completa” (meglio costruita), riuscita, caratterizzata operaticamente. Su un personaggio non italiano. E una storia non italiana. Di musicista non italiano.
Lettere – “Le armi decorano e le lettere armano gli Stati”, Ippolito Nievo fa dire nel cap. 1 delle “Confessioni” agli Statuti Friulani del 1673, che ebbero corso di legge fino al primo Ottocento. Se non è un errore di trascrizione è un’idea originale. È vero che gli Statuti riferivano “le lettere” ai notai, sollecitatori, patrocinatori e avvocati.
Lettura – “La fame degli occhi” la dice Herta Müller, “L’applicazione delle vie sottili”, un prefazione-racconto del 2010. Una formula concettosa, ma di robusto contenuto, a specchio dell’altra “realtà” che la consente, la scrittura: “Gli ingrandimenti dettati dalla fame degli occhi appartengono solo al testo che li ha costruiti per poter funzionare. Lealtà verso il reale e smania di abbandonarsi a quello scintillio tremolante si accompagnano nella frase. L’una non si avvia senza l’altra. L’esperienza vissuta può imporsi validamente nella frase solo quando le è stato negato il rispecchiamento senza veli, quando mescolata allele mento d’invenzione assume un’intimità perfettamente artificiale, essendo costruita per mezzo di trucchi, e la rilascia poi durante la lettura”. In un’interazione costante.
La lettura dà spessore al lettore, lo rende consistente, seppure nutrendolo di parole. Herta Müller se n’è accorta nella sua giovinezza in Romania al tempo di Ceausescu: “In una comunità circoscritta, sia essa un villaggio o uno Stato fondato sul controllo, a causa della fame degli occhi di parole si cessa di esserne un membro e si diventa un nemico”. La “fame degli occhi”, com’ella chiama la lettura, ci può rendere nemici, di una Chiesa, un Partito, uno Stato.
Riletture – O della vanità del Libro, nel senso dell’“Ecclesiaste” (o di san Gerolamo). Siamo un’altra persona quando rileggiamo un libro, anche a distanza di poco tempo, e fatalmente ne estraiamo altre cose.
Anche il libro spesso è un altro, non solo perché s’è ingiallito alla luce, o inumidito.
Traduzione – Si scrive da qualche tempo per la traduzione, o come in traduzione. Leggendo molte opere inedite proposte per la pubblicazione se ne ha netta la sensazione: i linguaggi sono semplificati e omogenei, le formule d’uso sovrabbondanti, i settings e i personaggi indistinti, perfino i nomi sono tutti “inglesi”, con abbondanza di Mary e Frank. In ogni tipo di storia: giallo, fantasy, gotico - non c’è più il sentimentale, altra “congiuntura” internazionale. Un tempo gli autori italiani di gialli, e anche Boris Vian, si davano nomi “inglesi”, ora mantengono i loro nomi, provinciali, locali, ma scrivono storie “internazionali”.
È l’esito della scrittura delle scuole di scrittura? Vittorio Coletti, “Romanzo mondo”, vede avvicinarsi “il momento…in cui una storia raccontata a Berlino non sarà diversa da una collocata a Lisbona”. E attribuisce l’omogeneizzazione, che rileva nel romanzo europeo del secondo Novecento, alle “crescenti somiglianze” tra “molte nazioni”, divenute gradualmente “più forti delle loro differenze”. Ma non ce n’è riscontro nelle psicologie sociali, che restano nazionalistiche e anche localiste. C’è nel linguaggio “letterario”.
Popper distingue, ne “I tre mondi” p.63), “la conoscenza in senso soggettivo e la conoscenza in senso oggettivo. E fa, per spiegare la distinzione, l’esempio della traduzione: “La conoscenza in senso oggettivo non consiste di processi mentali, bensì di contenuti mentali. Essa concerne il contenuto delle nostre teorie formulate linguisticamente: il contenuto che può venir tradotto, almeno in maniera approssimativa, da una lingua in un’altra. Il contenuto mentale oggettivo è ciò che rimane invariato in una traduzione ragionevolmente buona. O, detto in modo più realistico: i contenuto mentale oggettivo è ciò che il traduttore tenta di mantenere invariato”. Il “contenuto mentale oggettivo”, dunque.
Poi, ribadendo la realtà dei processi mentali, che alla fine sono i linguaggi (“gli oggetti più importanti e fondamentali del Mondo 3”) conclude: “Si può dire che il contenuto è ciò che aspiriamo a preservare e a mantenere invariato quando traduciamo da una lingua a un’altra”.
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