giovedì 17 maggio 2012

Quando il lavoro era il “padrone”

Parise, che aveva tentato a Milano per un lungo decennio d’integrarsi nell’industria editoriale, vi traspone il suo rifiuto. Nella metamorfosi di un giovane provinciale gaio e aperto che il lavoro trasforma in una marionetta. Anzi in una cosa, un barattolo.
Pubblicato da Feltrinelli e subito premiato col Viareggio, nel 1965, come un qualsiasi libro mastro da compagno di strada, “Il padrone” è invece, ma Parise lo disse subito e Montale se ne accorse, un “Candide” trasposto nell’età delle fabbriche. Un viaggio irridente nella contemporaneità. Su una traccia sorprendente, il darwinismo “all’inverso”, come subito vide Montale. Non sorridente però, voltairiano, e prolisso. Con gli anni non acquista leggerezza, e anzi si appesantisce. Di divertente resta poco. Il dottore che si chiama Diabete, “l’orango diventa triste per lunga consuetudine con l’uomo”, e poco altro. Il protagonista-larva sa perfino filosofare alla fine di tutto: di se stesso come “il capolavoro della proprietà assoluta”, delle catene della specie “che non si possono spezzare”, e del silenzio che subentra una volta “chiamati col loro nome tutti gli oggetti” – ma chiamare col loro nome tutti gli oggetti non è operazione infinita? Poco cambia che il padrone dottore Max possa essere il dottor Garzanti, come Livio voleva essere chiamato in azienda, l’editore per il quale Parise lavorava, appassionato di filosofia, scrittore, eccetera - chi era Livio Garzanti?
Montale è stato negli anni milanesi l’aedo del giovane Parise, per “conoscenza diretta” dice in una recensione. L’irridente vicentino, che si sentiva infelice nel demi-monde letterario, coltivava i letterati illustri, Montale nel soggiorno a Milano, e dopo, a Roma, Gadda. Si trovava suo agio con chi non si prendeva sul serio. Come lui stesso. Qui è invece veramente arrabbiato.
Può essere una buona lettura storica. Erano quelli anche gli anni in cui si discuteva (si rifiutava) l’“integrazione”, il posto fisso. Anche nello Stato, ma soprattutto nelle aziende private. Una tensione trascurata dalla storie, che però fu una delle forti corrente che tracimarono nel Sessantotto, il rifiuto del lavoro. Ma non si sa se farne un merito a Parise, o un demerito: l’idea fa aggio purtroppo sulla lettura. Più che al Candido di Voltaire, al suo spirito rapido, l’anonimo di Parise è un insistito Gulliver, alla Swift, col quale, com’è noto, non si ride. L’editore vuole “Il padrone” una metafora, parola lieve, ma la lettura delle metafore più spesso è faticosa.
Goffredo Parise, Il padrone, Adelphi, pp. 268 € 19

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