Un’anticipazione, questa di Carl Schmitt nel 1938, della lettura finalmente corretta del “Leviatano”, e di Hobbes – autore, diceva Diderot, “da legge e commentare per tutta la vita”. Ancora valida, soprattutto per la leggibilità, benché tradotta dopo 72 anni. Un saggio inteso “a salvaguardare l’interpretazione del «Leviatano» da attualizzazioni mitiche e a difendere Hobbes da precipitose criminalizzazioni”. Tutto ribadito in termini semplici in una nota successiva al saggio, del 1965. Hobbes non è “un apologeta dell’assolutismo”. Con lui “irrompe sulla scena la chiara antitesi statuale al monopolio decisionale della chiesa cattolica”. È “il padre spirituale del moderno positivismo giuridico”, e “il pioniere dello Stato di «leggi» liberale”. Autore e sistematizzatore del “principio «nullum crimen, nulla poena, sine lege», essenziale per il diritto penale liberale”. Nonché fondatore della dottrina “che pone l’individuo e la sua libertà in un rapporto costitutivo con la proprietà”, cioè in un rapporto “che, solo, rende possibile in generale una moderna società borghese di mercato”. Senza responsabilità - titolo di merito per Schmitt – nella secolarizzazione o scristianizzazione del mondo intervenuta nel Seicento. Con un tributo ripetuto a Ferdinand Tönnies che qualche anno prima, nel 1926, aveva riportato Hobbes a verità. E una bibliografia ampia (che il curatore Galli riproduce), fino ai suoi contemporanei, Alessandro Passerin d’Entrèves incluso.
Sullo Stato, sulla guerra giusta, sull’opinione pubblica, o distinzione tra pubblico e privato (fides e confessio), e sui poteri forti che ci angustiano, il secondo contributo del libro (una rilettura dell’ultima bibliografia hobbesiana), Schmitt propone verità infine (cinquant’anni fa…) fattuali. Ma con lo stesso piglio affronta Hobbes. “Per Hobbes Dio è soprattutto potenza (potestas)”. Ma per uno scopo preciso, per evitare che “il luogotenente di Dio sulla terra”, il sovrano, divenga soggetto al “divino”, alla religione, che era all’origine della guerra civile, inglese e europea, cui Hobbes cerca un rimedio: “Il sovrano non è il defensor pacis, di una pace riconducibile a Dio; è il creator pacis, creatore di una pace esclusivamente terrena”. Un dio macchina, in termini moderni: “Lo Stato che sorse e si affermò in Europa nel Seicento è in effetti un’opera umana ben distinta da tutti i precedenti modelli di unità politica. Lo si può persino riguardare come il primo prodotto dell’epoca della tecnica, il primo moderno meccanismo in grande stile”. Lontano dall’Atlantide di Bacone, come dall’ottimismo rivoluzionario del Sette-Ottocento, da Condorcet a Marx, che ne pronosticava la cancellazione per superfluità in una società di giusti e quasi immortali. Con conseguenze evidenti: “La meccanizzazione dell’idea di Stato ha fatto sì che giungesse a compimento la meccanizzazione dell’immagine antropologica dell’uomo”.
Una lettura suggestiva e perfino facile nella traduzione di Carlo Galli, esegeta riconosciuto di Schmitt. Ma dopo un’irta introduzione dello stesso Galli, nella lingua e nei concetti. Irritata forse, per il “nazismo” di Schmitt nel 1933, che però non c’entra nulla col suo Hobbes: “Dunque per lo Schmitt cattolico reazionario, in epoca nazista, le derive liberali e tecnico-burocratiche della modernità non sono weberianamente l’esito del razionalismo occidentale nelle sue varianti soggettivistico-protestante e statalistico-oggettiva, ma di un cristianesimo ebraicizzante (cioè cattolico)”. Che non c’è in questo saggio – né in altro Schmitt. Qui c’è la punzecchiatura anti-ebraica, ma accademica e legata al nicodemismo, alla riserva mentale, nel cruciale passaggio tra fides (privata) e confessio (pubblica) che molta cabala e alcuni autori vorrebbero estesa alla cristianità nel suo insieme, la perniciosa separazione tra diritto e morale come un sottrarsi ipocrita. Una critica estesa peraltro alla chiesa e alla Riforma – Schmitt è anche l’unico studioso, con Hobbes e Rousseau, che, nei quattro e ora cinque secoli dalla Riforma ne tiene conto. Mentre c’è una lettura di Hobbes che nel 1938 in Germania non poteva non essere letta come un atto di “resistenza interiore”, non solo nello Schmitt del dopoguerra, che Galli vuole opportunista. Non è l’ennesimo scritto di Schmitt contro “le detestate potenze indirette dei gesuiti, dei massoni, delle sinagoghe, dei salotti letterari”, come Galli vorrebbe. Ma se fosse dov’è lo scandalo? Contro le “potenze indirette” Schmitt ha anzi, nel secondo scritto del volume, nel 1965, una pagina che da sola rende conto di tutto l’inviluppo recente dello Stato, in Italia tra gruppi di potere (i “poteri forti”) e gruppi eversivi, e altrove: dell’incapacità-inefficienza dello Stato macchina, svuotato dalla ragnatela di “potenze indirette”. È vero che Schmitt, novello Hobbes di questa nuova “comunione di lupi”, avrebbe bisogno di un suo Schmitt.
Carl Schmitt, Il Leviatano, il Mulino, pp. 182 € 18
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