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Amore – È il sentimento di cui più si sente la mancanza in questa epoca di disinganni e solitudine (singletudine), il mezzo secolo ultimo, di consumi (shopping) e liberazioni – se ne soffre l’impossibilità.
È una pulsione residua? La demografia non si è fermata, e anzi vuole potersi moltiplicare artificialmente, con la poligamia in attesa della clonazione e dell’utero artificiale. Forse, dopo la liberazione, l’amore è indirizzato verso il potere – il rapporto parentale. Verso una sorta di capacità multiforme di unificare (concentrare) la sfera desiderante, nella costante one-upmanship personale che ha sostituito ogni altro orizzonte.
Beatitudine - I macarismi non saranno dei poveri invece che degli umili? Solo in Matteo le beatitudini sono dei poveri di spirito, e non è una bella cosa. In Luca sono dei poveri e basta. Perché il discorso della cruna dell’ago sarebbe metaforico e non reale?
Democrazia – Come la rivoluzione, costeggia lo stato di natura. In Hobbes e C.Schmitt, ma anche in Rousseau e Marx – seppure la natura di questi ultimi sia idilliaca.
Dio - È onnipotente, meglio che di amore o conoscenza, con Calvino. E poi con Hobbes. Che il sovrano concepisce e definisce Deus mortalis.
Intellettuale - Il reale infastidisce l’intellettuale, che il pensiero divide dall’atto, l’etica dalla giustizia, la politica dagli affari, la classe dal popolo. Il sovietismo, che più ne aveva propagandato la figura, a partire dal Sessantotto (Polonia, Praga) ha messo l’intellettuale sotto processo. A fini di politica pratica ma non senza verità, quale “strumento di sovversione ideologica”. Che non è un complimento, l’ideologia è la fuga autorizzata dal reale.
Non ha ragione l’intellettuale se non romantica. Oscuramente, per il rifiuto che gratifica più dell’intelligenza, il rifiuto dello sfruttamento e della guerra, anzi del mondo, per l’entusiasmo, per l’odio. È così che l’amore di sé e dell’umanità si trasforma in disegno di potere. Che è duro. Anche se è, nell’immediato, il partito politico. Ha il sapore aspro, malgrado le cautele retoriche, della violenza. E comporta la perdita dei fini. L’intellettuale non può che essere contro, l’intellettuale onesto. Impaziente, assoluto. Come la verità, più di Dio.
L’intellettuale è generalista impegnato, in opposizione all’esperto, che è invece specialista e neutro. E parte dall’etica della convinzione invece che della responsabilità. Della ricca, molteplice, convinzione – che è la fede. Della borghesia rappresenta l’individuo di programma, astratto, estremo, subdolamente orgoglioso. Fuori da contesti, tribù, tradizioni, compagni di strada, spesso pulciosi. La “Parabola” di Saint-Simon mostra che se la Francia venisse privata di colpo dei cinquanta maggiori scienziati, ingegneri, artisti, banchieri, industriali e artigiani cesserebbe di esistere. Ma nessuna incidenza avrebbe la scomparsa dei cinquanta se colpisse i nobili, i politici, i cortigiani e l’alto clero. Anche il lavoratore di Jünger, il rivoluzionario aristocratico infatuato della guerra, ripete in realtà Saint-Simon, il protosocialista socio in affari di Comte.
Lavoro – Si è fatto a lungo differenza tra chi lavora con la testa e chi con le mani. Per definire l’identità borghese – o anche per sfuggire a essa, nel mentre che la si fondava. Confondendo il pensare con la retorica del pensare, il pensatore pensoso dello scultore, lo scarnito san Gerolamo dei pittori. La differenza interessava al Settecento, agli Adami del capitale, Ferguson e Smith: “In un’epoca in cui tutto è separato”, scrisse il primo, “l’arte di pensare può benissimo consistere in un mestiere a parte”. Ma siamo quello che facciamo.
Lavorare non discende dal mestiere, non è certificato corporativo. Né definisce una condizione sociale o culturale. Lavorare è espletare un compito, ed è l’esito di questo compito. Un incontro è un lavoro. Fare l’amore lo è, quando lo si faceva. Lavorare è, a parte la fatica, che però è anche dell’ozio, vivere sociale e tra le cose. L’inattività è dolore, secondo qualcuno, proprio perché impedisce il contatto col mondo, con le cose. È il lavoro che stabilisce con le persone e la terra, e con gli eventi, un rapporto comunque liberatorio, per quanto a bassa intensità oppure deviante, utilitario, dispotico, usurante. È la forma più solida dell’essere, più del rapporto personale, affettivo, più della malattia, o degenerazione del sé. E allegria, ha scoperto Heidegger dopo Mike Bongiorno: ci vuole “gioia nel lavoro”, il lavoro è genuino solo se si è felici, cioè viceversa.
A lungo il lavoro è stato tenuto in sospetto, dannato dalla Bibbia, tipo inferiore di attività che sovrasta e inibisce la superiore attività del pensare. L’industria subito non piacque ai romantici, Stendhal, che contro Saint-Simon e le attività pratiche scrisse un pamphlet (“l’industrialismo, che paga i giornali, è parente del ciarlatanismo”), e Constant (“l’industrializzazione è un nuovo complotto del materialismo”).
Stendhal che pure fu studioso dei fatti e della teoria economica. Elaboratore del principio del neo capitalismo, dicendo la felicità “il godimento risultante dal consumo”- prima di arrivare alla conclusione, smobilitato e senza risorse, che “pensare è il meno caro dei piaceri”.
Usa dire, in politica, che non c’è abbastanza lavoro, mentre è vero che non si è mai lavorato tanto, giacché bisogna guadagnare per vivere, e tutti devono in qualche modo lavorare. La società moderna è la società del lavoro, può dire Hannah Arendt: “L’età moderna ha portato a una trasformazione dell’intera società in società del lavoro”. Per questo ugualitaria.
Manierismo - Il fenomeno più trascurato della storia europea, e italiana in particolare, e più caratterizzante, anzi dominante. Uno dei “caratteri fondamentali” della storia dell’Europa, che è una storia moderna - sì, l’impero romano, sì i barbari, sì il Medio Evo cristiano, ma l’Europa viene con gli Stati, il governo della legge e l’espansione (l’inimicizia). È l’epoca comunemente collocata fra Rinascimento e Barocco, approssimativamente tra il 1550 e il 1650. L’epoca della creazione degli Stati. È l’epoca del mascheramento e della simulazione, che in termini politici si traduce negli arcana imperii. Non più nel senso del divino, come pretendevano i vecchi imperia, ma del segreto.
Stato – È sovrano (divino) da cinque secoli per non soggiacere al papa (religione). È stato detto dello Stato di Hobbes, il suo primo ideatore nel “Leviatano”, che è il Dio del calvinismo, onnipotente e imperscrutabile. Ma non per questo è la migliore forma consociativa. È la “forma” della polizia e della guerra, che hanno aspetti indesiderabili (insocievoli). La comunità ne potrebbe fare a meno, come l’anarchia: entrambe si precisano nell’intento di fare a meno degli esiti perniciosi dello Stato: guerra, controllo (forza).
È in Hobbes l’antitesi alla democrazia, la quale non ricorre altrimenti che come stato di natura selvaggio, dell’homo homini lupus. Lo Stato è ordine, pace (polizia: nascono insieme), homo homini Deus (Bacone da Verulamio), Deus mortalis (Hobbes).
Lo Stato macchina di Hobbes, regolato, regolatore, prima che in Hobbes è in Campanella, nella “Città del sole”, 1608, e poi nella “Monarchia di Spagna”, 1640.
In Max Weber la deriva tecnico-burocratica dell’istituzione politica (Stato) della modernità è l’esito del razionalismo occidentale. Nelle varianti: soggettivistico protestante, e statualistico oggettiva.
zeulig@antiit.eu
mercoledì 16 maggio 2012
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