astolfo
Fratello Hitler – Walter Benjamin, “Senso unico”, così vedeva arrivare la barbarie nel 1928: “L’attaccamento alla stabilità d’anteguerra, perduta da tempo e definitivamente, è così rigido che annienta, anche davanti a un pericolo estremo, l’uso propriamente umano dell’intelligenza, cioè la previsione. Si forma un circolo delle incapacità: incertezza e anche perversione dell’istinto vitale, impotenza e declino dell’intelligenza”.
“Fratello Hitler”, l’antifrasi di Thomas Mann, non è ironica, e non è diminutiva. Lo è politicamente, ma non nella storia. Non ne fa un imbizzarrimento – il cavallo imbizzarrisce per paura, sia pure di un’ombra.
La colpa del resto la Germania ha sempre voluto addossata allo Stato, sia pure la mite Repubblica Federale renana. Fino all’ultima reviviscenza della questione, quando nell’estate del 1995 riemerse la questione della schiavitù nelle aziende tedesche grandi e piccole a partire dal 1942. Le grandi aziende, Mercedes, Siemens, Deutsche Bank, Karstadt, Volkswagen, con la famigerata Farben, che “rinacque” dopo l’unificazione per rivendicare i suoli ex Germania Est di cui era la più grande proprietaria durante la guerra, misero al lavoro alcuni storici, che produssero un volume di 558 pagine, per dimostrare che la colpa era del regime totalitario. Di cui la Repubblica Federale doveva considerarsi l’erede, se non moralmente e politicamente, sul piano della legittimità. Tesi non contestata dalla nuova Germania unita, che pagò ulteriori risarcimenti ai sopravvissuti e agli aventi causa, al posto dei gruppi coinvolti.
Intellettuale - I conservatori vogliono gli intellettuali élites mascherate. E lo sono.
Il popolo, non a Marx, è all’intellettuale che piace, creatura del romanticismo fumoso, che pensa di farsene guida – la volontà del popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”.
“Una vittoria soprattutto intellettuale” disse il Blitzkrieg di Hitler Marc Bloch, storico francese volontario di entrambe le guerre, prima ovviamente della vergogna della Soluzione Finale, e della spartizione.
Gli intellettuali fatalmente sono borghesi, accumulano. E quando diventano comunisti, come devono, si odiano – non si sa se più per essere comunisti o per essere borghesi, ma si odiano. Diventano quindi feroci. Dev’essere come l’odio di sé ebraico, o il Sud dell’antimafia, di chi odia la rappresentazione che di se stesso se ne fa – lui stesso fa.
Italia – L’identità è un fatto e un concetto. Quello di cui si discute, personale o nazionale che sia, è un concetto. L’Italia è una nazione con una lingua, e un sistema politico e produttivo. Che bene o male lavora e vende, ed è uno dei paesi più ricchi del mondo. Con rischi, ma non tali, nell’immediato, da gettarlo nella disperazione-inerzia. L’identità è in crisi perché è in crisi chi la rappresenta, la agisce: lo scrittore supponente che si scandalizza dei consimili superbi e superficiali, il giornalista bizzoso oppure opportunista che negli altri vede pregiudizi e compromessi, essendo un denunciatore. Gli intellettuali sono stanchi. In primo luogo di se stessi.
Il Paese che bene o male lavora e vende, e va alle Maldive, è quello che era prima. Ma gli intellettuali, che vengono da brutte avventure e brutte abitudini, e non le hanno rinnegate, nemmeno sotto le forme autoassolutorie della confessione, vedono nero. Tutto è vizio in Italia, anche le virtù. Ma c’è un vizio di origine.
Quale? Proviamo: è l’ipocrisia. Il vizio del linguaggio doppio - quello per cui si chiama democrazia il suo opposto, qualsiasi cosa sia, e il resto viene di conseguenza. Questo vizio non c’è nei “Caratteri Originari” dell’Enciclopedia Einaudi, e quindi dev’essere recente, forse proprio togliattiano, come molti vogliono. Il vizio per cui si rivede la storia recente ma con limiti. A lun go si è potuto parlare in Italia Papon e del suo amico Mitterrand, che era socialista, ma non delle foibe titoiste (“fanno il gioco della destra”, Rossana Rossanda), o dell’eccidio di Porzûs. Non si parla delle stragi, per le quali nessun prefetto, nessun questore, nessun ministro o sottosegretario all’Interno ha pagato, anche perché la magistratura ha inquisito di malavoglia. Non si parla naturalmente della giustizia politica, il fatto più turpe. Si può parlarne, ma solo della Turchia, che peraltro la nega, non di quella italiana che invece è dichiarata (procuratore Borrelli, presidente Scalfaro, e i tanti giudici loro creature, De Magistris, Woodcock, Ingroia, etc.). Nemmeno della Grande Guerra si può parlare, nella quale 800 mila giovani Italiani sono morti per liberare 3 o 400 mila Italiani, che forse ne avrebbero fatto in cuor loro a meno - per non dire di Caporetto, che dopo tante battaglie è slovena. Il cammino dell’Italia, la banca, l'industria, la grande politica e l’immagine del Paese (l’identità è l’immagine), non si è più ripresa da quella grande idiozia, e il giolittismo che non aveva saputo contrastarla, cioè la democrazia, “imbelle, ipocrita e corrotta” a parere del cavalier Mussolini, ne fu la prima vittima.
Occidente – Il suo radicamento nella “tradizione giudeo-cristiana” lascia perplesso Harold Bloom, “Gesù e Yahvé”. Che lo situa nel quadro dell’alleanza tra gli Usa e Israele. Le due tradizioni non hanno, dice, punto d’incontro: i vangeli sono greci, scritti da ebrei dell’ellenismo.
A meno di una sorta di saprofitismo endorganico del cristianesimo sull’ebraismo.
Nell’antisemitismo questo radicamento è doppiamente aborrito. Come una debolezza del cristianesimo, che meglio farebbe a tenersi stretto appunto alla grecità, e come una forma di saprofitismo della chiesa, del sacerdozio, del clericalismo. Invertendo però H.Bloom, sostenendo che l’alleanza con Israele indebolisce l’Occidente.
Religione - Che le religioni siano uguali è un sofisma, trova il laico Quinet. Sbaglia Montesquieu, cui risale l’errore: la religione non si uniforma alla politica. Ha ragione Quinet, con Constant e Tocquevile: “Ovunque, sotto tutti i regimi politici, la religione è la legge delle leggi, sulla quale le altre si ordinano”.
È stata l’unica libertà fino alla Magna Charta, l’antica libertà romana di culto, ed è su di essa che i diritti si sono innestati, di coscienza, espressione, associazione, congregazione, stampa. Montesquieu ritiene la religione accessoria: più la religione è severa più le leggi sono lassiste, dice, e il fatalismo trae dal dogma, il libero arbitrio dal codice. Ma la sostanza è la stessa, della religione e la vita civile. L’Inghilterra si ordina nel Seicento sulla chiesa episcopale, aristocratica, nota Quinet, gli Usa su quella presbiteriana, ugualitaria. L’Italia si ordina sulla democrazia plebiscitaria e anarcoide dell’ecclesìa.
Può essere un’altra forma del tribalismo. Bologna si governava bene col papa, o Siena, e Ancona, che rivaleggiava con Amsterdam, pure in libertà. Mentre gli americani sono democratici come gli inglesi, gelosamente uguali fra loro spietati fuori, ai giapponesi hanno spianato pure il cervello.
Sinistra destra – “Cyberliberisti di destra, come Zuckerberg, e di sinistra, come Assange”, Carlo Formenti dice sul “Corriere della sera” uniti nella “fede cieca nella bontà dell’informazione come dispensatrice di verità e libertà”. E perché non Zuckerberg di sinistra e Assange di destra? Una controinformazione che è, senza alcun quadro di riferimento, disinformazione. Mentre Zuckerberg dà voce al popolo basso e all’indistinto, o al signor chiunque.
L’equivoco è nell’appartenenza quando non c’è un quadro di riferimento – culturale, sociale (Di Pietro è certamente di destra, che si pone invece a sinistra perché Berlusconi non l’ha fatto nel 1994 ministro della Giustizia). Ma di più lo è nell’ambiguità dell’informazione, che da valore universale è scaduta nella manipolazione. Via, perversamente, un “di più” d’informazione: fonti riservate, indiscrezioni, e manipolazioni d’ogni sorta, comprese le pause e i sospiri delle intercettazioni.
astolfo@antiit.eu
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